domenica 28 febbraio 2016

Predicazione di Domenica 28 febbraio su 1 Re 19,19-21; Filippesi 3,12-16; Luca 9,57-62 a cura di Daniel Attinger

Seguire Gesù
Cari fratelli e sorelle,
È per me una grande gioia, poter celebrare questo culto insieme con voi oggi. Rinascono in me antichi ricordi, del tempo in cui fui il pastore di questa comunità per un po’ più di due anni, alla fine degli anni 70 del secolo scorso. Quasi tutti i volti sono cambiati, ma la comunità continua a vivere, piccolo gregge che può contare solo sulla forza e sull’amore di Dio per proseguire il suo cammino dietro a Gesù.
In questo tempo di preparazione a Pasqua, è bene ricordare che la vita di Gesù fu come una lunga salita dalla Galilea – dove passò la sua infanzia – a Gerusalemme, dove morì, ucciso dalla coalizione dei poteri politici e religiosi del suo tempo. Ed è quindi bene, in questo tempo, ri­pensare a cosa significhi seguire Gesù. Proprio a questo c’invitano le tre letture che abbiamo ap­pena ascoltato. Nella prima lettura abbiamo ascoltato la chiamata di Eliseo da parte del profeta Elia: unico caso di un invito alla sequela nell’AT. L’epistola ai Filippesi ci ricorda che l’andare die­tro al Cristo non è una passeggiata; assomiglia piuttosto a una corsa verso una meta da conquista­re. Il breve testo dell’evangelo secondo Luca infine ci presenta tre tentativi diversi per seguire Gesù. Avremo così modo di ripensare a ciò che noi facciamo quando ci presentiamo come disce­poli del Signore Gesù.
A proposito di queste letture, vorrei fare con voi tre riflessioni:
La prima riflessione concerne Gesù stesso del quale l’Evangelo sottolinea che è “in cam­mino” e in cammino “verso Gerusalemme”. Sono due note non banali. Seguire Gesù significa forzatamente, anche per noi, metterci in cammino, vale a dire accettare che le cose vadano diver­samente di come le abbiamo progettate. Camminare infatti implica sempre andare incontro a sor­prese, tanto più che, nel caso di Gesù, il cammino porta a Gerusalemme. Gerusalemme, però, non è solo quella città ben reale di cui i giornali parlano spesso… per motivi politici. Certo era il centro politico della terra d’Israele, ne era anche il cuore religioso perché là stava il tempio, ma Gesù camminava verso Gerusalemme perché sapeva che un profeta non poteva morire fuori di Gerusalemme (Lc 13,33). Il suo è un cammino che va verso la morte violenta, e Gesù lo sa. Per questo, appena prima del nostro testo Luca scrive che Gesù “rese duro il suo volto” per incam­minarsi verso Gerusalemme (Lc 9,51). Anche noi, seguendo il Cristo, dobbiamo sapere che la nostra strada incontrerà ostacoli e pericoli. Con un’altra immagine, Gesù ha parlato altrove di due porte: l’una, larga, che però conduce alla perdizione, e una stretta che conduce alla vita (Mt 7,13-14). L’idea è sempre la stessa: seguire Gesù è difficile, richiede sforzi. È pure ciò che lascia inten­dere Paolo nella sua lettera ai Filippesi quando parla della vita cristiana come di una corsa. Paolo immagina i cristiani ingaggiati in una gara olimpica: si tratta di correre per conquistare “la perfe­zione”. Evidentemente: basta parlare di “perfezione” per scoraggiare chiunque a intraprendere il cammino, perché noi intendiamo sempre la perfezione in senso morale: chi è senza difetti e quin­di senza peccato. Ma un tale essere umano non esiste. “Se diciamo di essere senza peccato ingan­niamo noi stessi e la verità non è in noi” (1Gv 1,8). La perfezione di cui parla Paolo è diversa: è ciò per cui siamo stati creati; la perfezione è di diventare veramente esseri umani e quindi imma­gini di Dio stesso, diventare persone la cui vita racconta Dio. Ora ciò appare alla meglio proprio nel modo con cui si affrontano le difficoltà, i momenti di crisi, le tentazioni, le malattie e il cam­mino verso la morte. Ecco per il cammino da percorrere.
La seconda riflessione deriva direttamente dagli episodi del nostro evangelo. Ecco tre persone che incontrano Gesù: la prima gli chiede di poterlo seguire, ma riceve un rifiuto: “Le volpi e gli uccelli hanno un luogo di riparo; il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. La seconda, chiamata da Gesù, chiede di poter prima seppellire il padre; ma Gesù rifiuta e le ordina di partire ad annunciare il regno. Il terzo uomo dice di voler seguire Gesù, ma vuole prima conge­darsi dai parenti; anch’egli incontra il rifiuto del Signore: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto al regno”. Questo testo mostra che non noi scegliamo di seguire Gesù. Chi si propone di farlo incontra il rifiuto di Gesù. È invece Gesù che sceglie i suoi seguaci e la sua chiamata sconfigge le scuse che potrebbero essere presentate. Lo conferma anche il Gesù dell’evangelo di Giovanni: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). Abbiamo qui certamente una particolarità di Gesù. Normalmente infatti i maestri accoglieva dei discepoli che desideravano mettersi alla loro scuola. Gesù invece sceglie quelli che egli stesso vuole come discepoli. Perché mai? Appunto perché Gesù non è solo un maestro dal quale si può imparare una dottrina o una sapienza. È colui che insegna col suo stile di vita, vale a dire: seguirlo implica lasciare tutto e incamminarsi su quella stessa strada che porta a Gerusalemme: camminare co­scientemente verso la morte.
Nell’andare però dietro a lui si scopre che le parole “vita” e “morte” con lui cambiano significato. “Vivere” non è più “campare” magari anche 100 anni, ma: rinnegare se stessi, portare la propria croce, e cioè amare; “morire” non è più solo essere portati in terra ma l’essere così cen­trati e ripiegati su se stessi da non trovare più un senso al proprio essere sulla terra. Vita e morte non sono più questione di anni o di durata, ma di relazioni e di qualità. Ecco perché è Gesù che sceglie i suoi discepoli, e non il contrario, perché egli ci conosce e sa ciò che c’è in noi; sa quindi anche chi può essere suoi testimoni e chi no; il che non significa chi è salvato e chi no!
Con ciò giungiamo alla terza riflessione. Se il camminare dietro a Cristo non è scelta nostra ma chiamata di Cristo, allora la sequela non è iniziativa nostra, ma risposta all’iniziativa di Cristo. Lo sottolinea la prima lettura che abbiamo ascoltato: a Elia che ha gettato il suo mantello su Eliseo in segno di chiamata, Eliseo chiede e ottiene di poter salutare il padre e la madre. Elia allora aggiunge questa parola: “Va e torna, perché sai cosa ho fatto per te” (1Re 19,20). La frase suona un po’ strana soprattutto se letta letteralmente: “Va e torna, perché cosa ho fatto a te?”. Per capire la scena occorre comprendere il gesto compiuto da Elia: ha gettato il suo mantello su Eliseo. Quel mantello è quello che indica il profeta; alla sua sola descrizione, il re Acazia riconob­be immediatamente il profeta Elia (2Re 1,8); quel mantello simboleggia quindi il profeta. Gettan­do il proprio mantello su Eliseo, Elia designa – come gliel’ha ordinato il Signore – Eliseo come suo erede e successore. È ciò che Eliseo capisce e perciò va a congedarsi dalla propria famiglia e si separa totalmente dal proprio mestiere, offrendolo in sacrificio a Dio, non come sacrificio espiatorio, ma come sacrificio di comunione (che dà luogo a un bel pasto popolare). Eliseo ha capito che il gesto di Elia gli trasformava la propria esistenza: non vivere più nella propria fami­glia e dei propri beni, ma seguire e servire Elia per imparare a diventare profeta come lui.
Questa è pure la nostra risposta alla chiamata di Cristo: cercare in tutto di seguire e di ser­vire il Signore per imparare a diventare anche noi portatori di vita e di speranza. Vi è tuttavia un problema maggiore: per Eliseo, seguire Elia era mettere i propri passi in quelli del profeta; per i discepoli di Gesù, seguirlo significa camminare con lui per le strade della terra d’Israele, ma noi, come potremmo seguire uno che è salito nei cieli e vive ormai accanto a Dio?
La risposta a questa domanda è meno complicata di quanto sembra. A condizione però di non riflettere in modo troppo individualista. Se pensiamo solo a noi stessi in relazioni con Gesù, è difficile capire come ci possa essere un camminare dietro al Cristo. Se invece pensiamo a noi appartenenti a una comunità, a un corpo, allora la risposta è più semplice. Tra Gesù che, con l’ascensione è ritornato a Dio, e noi che viviamo nel xxi secolo, vi e il grande corteo dei discepoli di Gesù e di quelli che hanno camminato dietro a loro, i padri delle Chiese e i loro successori, fra i quali si trovano i riformatori e i loro seguaci, e oggi, qui a Biella, un numeroso gruppo di perso­ne che cercano di rispondere, con noi, alla chiamata di Gesù. Non siete soli a Biella a cercare di rispondere alla chiamata di Cristo; vi sono altri cristiani: cattolici, ortodossi, evangelici, che an­ch’essi vogliono rispondere a questa chiamata. Nel cercare di creare fra noi cristiani dei legami di amore e di comunione, diventiamo segno dell’amore che il Cristo stesso è venuto a manifestare nel mondo.
A questo punto vorrei solo aggiungere un pensiero: il lavoro ecumenico non è facile. Tutti lo sappiamo. Ma in questi anni viviamo un tempo che potrebbe davvero essere un tempo di gra­zia per la ricerca dell’unità visibile della Chiesa: non si tratta di pensare che i cattolici diventeran­no protestanti o noi protestanti diventeremo cattolici romani! Si tratta invece di non temere di perdere la nostra identità se riconosciamo nei cattolici e negli ortodossi dei fratelli insieme ai quali possiamo vivere la nostra fede cristiana e con i quali possiamo essere pienamente in comunione. Ogni famiglia è formata da persone diverse che non sono né uguali né identiche, eppure ciò non impedisce loro di partecipare agli stessi pasti. Fra di loro vi sono legami di familiarità e di amore, ma anche momenti di tensione o di crisi, ma ciò non impedisce che si ritrovino la sera attorno alla stessa tavola per la cena. È questo che dobbiamo ora realizzare con i fratelli cattolici e orto­dossi. Non possiamo più trincerarci dietro a pensieri come quelli che hanno dominato le Chiese in questi ultimi cinquant’anni, secondo i quali vi erano fra noi troppe diversità per poter sigillare l’unità. I teologi hanno lavorato e sono giunti alla conclusione che le nostre diversità non giusti­ficavano più le divisioni esistenti. Non dobbiamo neanche permettere che i responsabili delle Chiese temano di avanzare sul cammino ecumenico sotto il pretesto che il popolo cristiano non seguirà. Ora è venuto il momento di manifestare apertamente che non possiamo più sopportare di vivere divisi allorché ciascuno di noi, cristiani di diverse Chiese, cerchiamo di seguire il Cristo, camminando dietro a quelli che ci hanno preceduto sulla strada che il Cristo, come “primo di cor­data”, ha aperto.
Oggi, fratelli e sorelle, la sequela di Cristo ci chiede di manifestare e di esprimere visibil­mente la già reale unità che esiste fra i cristiani, altrimenti saremo del tutto incredibili agli occhi e agli orecchi del mondo, che è fin troppo felice di poter ridere di quei cristiani che predicano la pace e si fanno guerra.
Il Signore ci dia il coraggio e l’audacia di camminare su quella via e di riconoscere negli altri davvero dei fratelli e delle sorelle in Cristo. A lui la gloria e la lode per sempre. Amen.

martedì 23 febbraio 2016

Predicazione di domenica 21 febbraio 2016, in occasione della ricorrenza della concessione dei diritti civili ai valdesi il XVII febbraio 1848, a cura di Marco Gisola

Luca 22,7-20
Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva sacrificare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni, dicendo: «Andate a prepararci la cena pasquale, affinché la mangiamo». Essi gli chiesero: «Dove vuoi che la prepariamo?» Ed egli rispose loro: «Quando sarete entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua; seguitelo nella casa dove egli entrerà. E dite al padrone di casa: "Il Maestro ti manda a dire: 'Dov'è la stanza nella quale mangerò la Pasqua con i miei discepoli?'" Ed egli vi mostrerà, al piano di sopra, una grande sala ammobiliata; qui apparecchiate». Essi andarono e trovarono come egli aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Quando giunse l'ora, egli si mise a tavola, e gli apostoli con lui. Egli disse loro: «Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio». E, preso un calice, rese grazie e disse: «Prendete questo e distribuitelo fra di voi; perché io vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno di Dio». Poi prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi.

Giovanni 13,1-17

Or prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio se ne tornava, si alzò da tavola, depose le sue vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse. Poi mise dell'acqua in una bacinella, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli, e ad asciugarli con l'asciugatoio del quale era cinto. Si avvicinò dunque a Simon Pietro, il quale gli disse: «Tu, Signore, lavare i piedi a me?» Gesù gli rispose: «Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo». Pietro gli disse: «Non mi laverai mai i piedi!» Gesù gli rispose: «Se non ti lavo, non hai parte alcuna con me». E Simon Pietro: «Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo!» Gesù gli disse: «Chi è lavato tutto, non ha bisogno che di aver lavati i piedi; è purificato tutto quanto; e voi siete purificati, ma non tutti». Perché sapeva chi era colui che lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete netti».
Quando dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe ripreso le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: «Capite quello che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io. In verità, in verità vi dico che il servo non è maggiore del suo signore, né il messaggero è maggiore di colui che lo ha mandato. Se sapete queste cose, siete beati se le fate.

Galati 5,12-13

Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un'occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell'amore servite gli uni agli altri; poiché tutta la legge è adempiuta in quest'unica parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso».



Oggi nel nostro culto ricordiamo il XVII febbraio 1848, quando i valdesi ricevettero i diritti civili grazie a un editto del Re Calo Alberto di Savoia. Prima essi dovevano vivere all’interno di un vero e proprio ghetto e se volevano uscirne per lavorare o studiare al di fuori delle loro valli dovevano diventare cattolici.

Leggiamo la parte centrale delle “Lettere Patenti” di Carlo Alberto:

“I valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle università ed a conseguire i gradi accademici. Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”

Ma oggi è anche il nostro culto mensile con i bambini e ragazze di scuola domenicale e catechismo, con i quali abbiamo iniziato un percorso verso la Pasqua, che cercheremo oggi di intrecciare con la festa del XVII febbraio. Il nostro percorso lascia delle tracce su questo cartellone, su cui abbiamo incollato delle mani, due mani per ogni testo biblico che leggiamo in queste settimana fino a Pasqua.
Le mani (ritagliate) sono quelle dei bambini, ma rappresentano le mani di Gesù. Ci abbiamo scritto sotto che cosa fanno queste mani di Gesù: nell’ultima cena con i suoi discepoli, le mani di Gesù condividono il pane e il vino, che sono il segno della vita che Gesù darà per loro e per tutti morendo sulla croce.
Nell’altro racconto che abbiamo letto, quello della lavanda dei piedi, anch’esso situato in una cena di Gesù con i discepoli, le mani di Gesù servono, nel senso che fanno il lavoro che solo i servi facevano in alcune occasioni.
Mani che condividono, mani che servono: che cosa ha a che fare questo con la libertà? Forse a prima vista sembra che non c’entri nulla, ma in realtà c’entra molto. E che per Gesù il servizio c’entrasse molto con la libertà lo aveva capito molto bene l'apostolo Paolo, che ha scritto alle chiese della Galazia quelle parole chiarissime che abbiamo letto insieme:

“Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un'occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell'amore servite gli uni agli altri”.

In due frasi Paolo ci offre un sunto del discepolato e dell’etica cristiana: libertà, amore, servizio. L'amore è quello che fa sì che il servizio possa essere libero e non servile, l’amore è quello che fa sì che la libertà sia servizio e non egoismo.
Liberi, sì, ma per servire. Non per altro; non sei libero (dovremmo dire: liberato) per te – o soltanto per te – ma sei libero (liberato) per gli altri. La libertà che Dio dona a te, non te la dona (solo) per te, ma te la dona per gli altri, perché tu la usi per gli altri.
I racconti che abbiamo letto dai vangeli di Luca e di Giovanni, entrambi racconti che fanno parte degli episodi della Passione di Gesù, ce lo dicono chiaramente. Nel vangelo di Luca Gesù celebra con i suoi discepoli la Pasqua ebraica.
Abbiamo letto con i bambini/ragazze questo racconto e ci siamo fermati sui verbi che descrivono ciò che fanno le mani di Gesù. Le mani di Gesù prendono, offrono il calice, poi prendono, spezzano, e danno il pane, infine alla fine della cena, danno un altro calice ai discepoli (Luca è l’unico vangelo che nel racconto dell’ultima cena ci parla di due calici, e in effetti nella pasqua ebraica si usavano e si usano non due ma quattro calici).
Prendere, dare, spezzare, prendere, dare… e in mezzo a tutto ciò non le mani, ma la voce di Gesù rende grazie, ovvero pronuncia (probabilmente) la tradizionale preghiera ebraica di ringraziamento per il cibo che benedice Dio, creatore dei frutti della terra, da cui sono fatti il pane e il vino.
Prendere, dare, spezzare, prendere, dare… ringraziare e benedire Dio; sono gesti molto semplici quelli che compie Gesù nel corso dell’ultima cena, che abbiamo riassunto con il verbo condividere: mani che condividono.
Gesti semplici ma carichi di significato, perché mentre Gesù – anzi le sue mani – fanno queste cose, la sua bocca, le sue parole dicono che cosa significano quei gesti: il pane è “il mio corpo che è dato per voi”, il “calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi”. Le mani di Gesù condividono il pane e il vino, ma Gesù dona la sua vita stessa, rinuncia alla sua vita per coloro ai quali sta donando pane e vino, e per tutti noi. Avremmo anche potuto scrivere “mani che donano”: come Gesù dà pane e vino così darà la sua vita stessa.
Nel racconto della lavanda dei piedi nel vangelo di Giovanni le mani di Gesù in realtà lavano. Ma il lavare i piedi dei discepoli, lavoro molto umile che facevano i servi e nemmeno sempre, perché era considerato un lavoro umiliante, è un esempio, dice Gesù stesso, che egli sta dando ai suoi discepoli: Gesù vuole che essi imparino non tanto a lavare i piedi, ma a “servire”. Abbiamo forse perso il senso di quanto sia rivoluzionaria questa parola; ai tempi di Gesù erano appunto i servi che servivano. Potete capire che cosa possono aver pensato i discepoli che vedevano in Gesù un liberatore – magari dai romani, che occupavano la loro terra – e trovano uno che li invita a diventare servi.
Se questa parola è scomoda oggi, a maggior ragione lo era allora. Gesù ci vuole servi, e Paolo esprime il paradosso dicendo che Gesù ci ha liberati per servire. Ma, allora: siamo liberi o servi? Tutte e due le cose. Un cristiano è libero e servo. Lo ha espresso forse meglio di chiunque altro Martin Lutero con le sue famosissime parole, che stanno proprio all’inizio del suo libro intitolato “la libertà del cristiano”:

un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa e non è sottoposto a nessuno
un cristiano è un servo zelante in ogni cosa, e sottoposto a ognuno

Non puoi essere cristiano se non sei tutte e due queste cose, un libero signore e un servo zelante. Libero, perché liberato da Gesù dalla colpa, dalla paura, da te stesso e dal tuo egoismo, libero perché liberato dalla schiavitù di qualunque altro signore che non sia il Dio liberatore, che libera Israele dall’Egitto, che libera noi dalla nostra colpa. Servo, perché la tua libertà non ti è data perché tu ne goda soltanto per te, tanto meno perché tu rendi altri schiavi, ma perché tu la usi per lavorare per la libertà degli altri e per la libertà di tutti, un lavoro che nel nostro mondo non è mai finito, perché purtroppo ci sono molte persone che non sono libere.
I valdesi del 1848 hanno usato la libertà che avevano ricevuto da Carlo Alberto (ma che loro hanno inteso come un dono di Dio) per predicare l’evangelo in tutta l’Italia, anche se – come abbiamo visto – Carlo Alberto non aveva dato loro la libertà di culto: “Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”. Non avrebbero potuto andare a predicare in giro per l’Italia, ma lo hanno fatto lo stesso, perché il clima “liberale” li aiutava, nonostante l’opposizione delle gerarchie cattoliche alla costruzione di diversi edifici di culto e scuole, come ad esempio il tempio di Corso Vittorio a Torino inaugurato nel 1853, solo cinque anni dopo, proprio nella capitale del regno.
E soprattutto perché è stato il loro modo di usare la libertà ricevuta e servire, servire l’Italia non solo con la predicazione, ma anche con le scuole che sono sorte quasi ovunque c’era una comunità che si stava formando, dalla valle d’Aosta fino alla Sicilia.
I valdesi erano finalmente liberi? Avevano ricevuto i diritti civili? Non potevano riposare sugli allori, non potevano accontentarsi di avere la libertà, la dovevano usare, usarla per servire, dovevano metterla al servizio di chi ne aveva bisogno, per esempio di tutti quei bambini e bambine che nell’Italia della seconda metà dell’ottocento erano analfabeti.
Le mani di Gesù erano libere quando compì i gesti di cui abbiamo letto oggi nella Bibbia; poche ore dopo, secondo i vangeli, cioè la sera stessa, dopo la cena, Gesù sarà arrestato e le sue mani non saranno più libere. Ma in questo momento le sue mani erano libere e Gesù usò la sua libertà – lui che era maestro e Signore – per condividere e per servire.
E le tue mani sono libere? Se lo sono, allora Gesù ci ha mostrato come usarle, come usare le nostre mani, le nostre gambe, la nostra testa, le nostre idee, il nostro tempo, le nostre energie…: per condividere e per servire.
Solo facendo così rimarremo e testimonieremo di essere davvero liberi, anzi: liberati ogni giorno dalla grazia liberante del Dio e Padre di Gesù Cristo.