domenica 26 febbraio 2017

Predicazione di domenica 26 febbraio 2017 su Luca 10,38-42 a cura di Marco Gisola

Luca 10,38-42

Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio; e una donna, di nome Marta, lo ricevette in casa sua. Marta aveva una sorella chiamata Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola. Ma Marta, tutta presa dalle faccende domestiche, venne e disse: “Signore, non ti importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta, tu ti affanni e sei agitata per molte cose, ma una cosa sola è necessaria. Maria ha scelto la parte buona che non le sarà tolta”

 
Una strana scena quella che ci racconta Luca subito dopo la parabola del samaritano. Gesù è in cammino con i suoi discepoli e sappiamo che la meta del loro cammino è Gerusalemme e a Gerusalemme Gesù troverà ad attenderlo la passione e la croce. Questo cammino è lungo e Gesù e i discepoli fanno molte tappe e molti incontri. Una tappa è a casa di Marta e Maria; dal testo sembra però che soltanto Gesù entri in casa delle due donne, non i discepoli. E Luca non ci dice nulla su Lazzaro, che secondo il vangelo di Giovanni è fratello di Marta e Maria, come non ci dice nulla sul luogo dove abitano, che sempre secondo Giovanni è Betania.
Luca racconta la scena con molta naturalezza, ma sappiamo che non era affatto scontato che un uomo entrasse in casa di una o più donne se non ne era il marito. Gesù è accolto da Marta, ci dice il racconto. E mentre Marta si dà da fare per trattare bene l’ospite, Maria si siede ai suoi piedi e ascolta la sua parola. Il testo dice proprio “ascolta la sua parola”, dando alla frase un significato solenne e mettendo Maria nella situazione della discepola seduta ai piedi del maestro. Proprio la naturalezza di Luca nel raccontare la scena è già rivoluzionaria: pensate che uno scritto ebraico del tempo diceva che era meglio bruciare le parole della Torah piuttosto che comunicarle alle donne. Le donne non erano nemmeno tenute a osservare la legge e nemmeno ad andare in sinagoga e se ci andavano dovevano stare separate dagli uomini, nella parte riservata alle donne. Per Luca – e per Gesù e per Maria – invece è naturale che una donna sieda ai piedi di Gesù per ascoltare la sua parola. E il fatto che una donna possa essere discepola di Gesù esattamente come lo erano i discepoli maschi è la prima buona notizia che questo brano proclama alle donne e alla chiesa tutta, fatta di uomini e donne.
E se questo, come abbiamo detto, è normale per Gesù e per Maria, non lo è invece per Marta. Marta si sta occupando di servire Gesù come si serve un ospite, un ospite di riguardo evidentemente. Non c’è nulla di male in quello che fa Marta, anzi l’ospitalità nella Bibbia è una pratica importantissima: Abramo ospita tre uomini che si rivelano essere messaggeri di Dio e la lettera agli ebrei (13,2)commenta questo brano dicendo: “Non dimenticate l'ospitalità; perché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli”. Il problema è che Marta rinchiude se stessa in questo ruolo e pensa che, come donna, non possa avere altro ruolo e non possa fare altro che preparare un buon pranzo o una buona cena per il suo ospite. Non considera l’ipotesi di diventare sua discepola. Non riesce nemmeno a immaginarsi di sedersi ai piedi di Gesù, secondo Marta non è quello il suo posto, il suo posto è in cucina.
E non solo: si arrabbia con sua sorella che l’ha lasciata sola nelle faccende di casa e quindi l’ha lasciata sola nel suo ruolo di donna che non può essere altro che quella che serve. La rabbia di Marta è quella di chi è invidioso di chi – in questo caso la sorella – riesce ad arrivare dove lei non arriva, riesce a vivere la novità e la libertà dell’evangelo che lei non ha ancora imparato. Non riesce a pensare di essere altro che quella che serve. Ho usato il verbo essere e non solo il verbo fare, perché non è solo questione di fare, è questione di essere: Marta intende preparare il pasto e servirlo perché pensa che questo sia il suo modo di essere e non ne vede altri. Ma Gesù la rimprovera, anche se molto benevolmente: “Marta, Marta...” la ripetizione del nome è segno di affetto da parte di Gesù. Gesù le sta dicendo che, come Maria ha fatto, anche lei può fare altro e soprattutto può essere altro che una donna che serve gli uomini.
Con Gesù, davanti a Gesù, c’è per le donne la possibilità di scegliere di essere discepole, esattamente come per gl uomini. Gesù sottolinea che Maria ha scelto la parte buona, perché ha scelto di ascoltare la parola di Gesù, mentre Marta ha scelto di non ascoltarla, di fare altro, per quanto buono e bello potesse essere quell’altro. Gesù non critica la scelta di Marta di servire e di occuparsi degli ospiti, ma critica la sua non scelta di ascoltare la sua parola in quel momento in cui questa possibilità le è offerta. Solo che Marta non aveva capito che le fosse offerta questa possibilità, perché non era abituata.
Quindi il primo messaggio di questo racconto, il primo evangelo, nel senso di buona notizia è che anche le donne possono essere discepole e dedicarsi all’ascolto della Parola. Purtroppo le chiese non hanno tirato le conseguenze fino in fondo di questa novità che Gesù ha portato e anche noi ci siamo arrivati da pochi decenni: quest’anno saranno 50 dalla consacrazione delle prime donne al ministero pastorale.

Ma c’è un secondo messaggio in questo brano che non riguarda soltanto le donne, ma tutti i discepoli e le discepole di Gesù. Se il primo punto era la possibilità di scegliere di sedersi per ascoltare la parola, il secondo potremmo definirlo la necessità di scegliere di sedersi per ascoltare la parola: “una cosa sola è necessaria” dice Gesù a Marta. Ci verrebbe da dire che nella vita ci sono tante cose necessarie, intanto per sopravvivere, come il lavoro, e poi ci sono tante incombenze quotidiane. Ma c’è una cosa necessaria, secondo Gesù, per vivere nella fede, una cosa davanti alla quale tutto il resto passa in secondo piano: ascoltare la sua Parola.
Certo, si vive anche senza ascoltare la parola, si vive anche senza andare in chiesa e non dobbiamo diventare come i farisei con cui spesso discute Gesù, che pensano di essere migliori degli altri perché osservano la legge alla perfezione. Sappiamo bene che non è affatto detto che chi non crede o non viene in chiesa sia peggiore di noi ci veniamo. Ma Gesù vuole dirci che se hai incontrato una volta la sua parola che chiama, la sua parola che libera, la sua parola che perdona, la sua parola che guarisce, hai bisogno di incontrarla di nuovo ogni giorno, e non per sopravvivere, ma per vivere, cioè per dare senso alla tua vita, per dare senso a tutto il resto della tua vita.
Marta sbaglia a pensare che per lavorare deve rinunciare ad ascoltare. Marta avrebbe dovuto fare quello che sta facendo non al posto di ascoltare la parola di Gesù, ma dopo aver ascoltato la parola di Gesù. Sarebbe infatti sbagliato contrapporre l’ascolto di Maria e il lavoro di Marta, come se fossero due scelte alternative: o ascolto la Parola o mi do da fare, come se si potesse solo fare una di queste due cose. Il racconto ci vuole dire che l’ascolto dà senso al lavoro e il lavoro trae il suo senso dall’ascolto. l’ascolto porta all'impegno e l’impegno è orientato dall’ascolto della Parola.
Questo testo biblico non vuole farci scegliere tra l’essere Maria e l’essere Marta, tra l'ascolto e l’impegno. Vuole dirci che quando c’è la possibilità di ascoltare la parola, quella è la cosa necessaria, la cosa da fare in quel momento. Poi, dopo avere ascoltato la Parola, allora sì che ci sono tante, tantissime cose da fare per il nostro prossimo e il nostro mondo. E tutto ciò che faremo dopo aver ascoltato la parola, sarà illuminato da questo ascolto, perché nell’ascolto si trova la forza, si trova la fiducia e la speranza necessarie per dare senso al nostro impegno e anche alle nostre fatiche.
La parte buona scelta da Maria – dice Gesù – cioè l’ascolto, non le sarà tolta. Tutto può esserci tolto, dagli eventi, dalle disgrazie della vita, dalle forze che vengono meno con il tempo, ma quello no, non può esserci tolto. La parola, cioè la promessa che Dio ci rinnova ogni volta che ascoltiamo la sua parola, quella non viene meno e non ci sarà tolta, perché non si fonda sulla nostra debolezza o sulla nostra piccolezza, ma si fonda sull’amore di Dio, che non viene meno.
Se come Marta rimaniamo in cucina, rimaniamo cioè lontani dalla Parola, viviamo lo stesso, ma ci perdiamo qualcosa di essenziale della nostra vita, ci perdiamo Dio, ci perdiamo la possibilità di ascoltare la sua Parola di perdono, di giustizia, di riconciliazione, di amore. Tutto questo è necessario alla nostra vita, che senza queste cose rischiamo di vivere solo in superficie senza immergersi nella vita che il Signore ci dona.
Che il Signore ci aiuti a far incontrare Marta e Maria nella vita di ciascuno e ciascuna di noi, ci aiuti a scegliere la parte buona ogni volta che ci è data la possibilità, perché quella parte buona non ci sarà tolta e ci accompagnerà tutta la vita.


lunedì 13 febbraio 2017

Predicazione di domenica 12 febbraio su Luca 17,7-10 a cura di Marco Gisola, ricordando la concessione dei diritti ciili ai valdesi (17 febbraio 1848)

Luca 17,7-10
7 «Se uno di voi ha un servo che ara o bada alle pecore, gli dirà forse, quando quello torna a casa dai campi: "Vieni subito a metterti a tavola"? 8 Non gli dirà invece: "Preparami la cena, rimbòccati le vesti e servimi finché io abbia mangiato e bevuto, poi mangerai e berrai tu"? 9 Si ritiene forse obbligato verso quel servo perché ha fatto quello che gli era stato comandato? 10 Così, anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: "Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare"».


Una parabola che sconcerta questa di Gesù, per l’immagine che usa e che è facile fraintendere. Può anche sembrare fuori luogo in questa domenica in cui ricordiamo la ricorrenza del XVII febbraio, ovvero la festa della libertà, che ricorda la concessione dei diritti civili ai valdesi nel lontano 1848. Celebriamo la libertà leggendo un testo che parla di servi? Ma non è una contraddizione? Su questo ci ritorniamo tra poco.
Partiamo dal testo. Come sappiamo, nelle sue parabole Gesù prende sempre spunto dalle cose che accadono intorno a sé, nel suo mondo e nella sua società. In questo caso prende spunto dal rapporto che c’era ai suoi tempi tra padroni e servitori. Ma sarebbe un errore trasformare questa parabola in un’allegoria; prendere questa parabola per allegoria vuol dire che noi sostituiamo Dio al padrone e noi al servo e la interpretiamo come se Gesù volesse dirci che Dio è il nostro padrone e noi siamo i suoi servi. Ma non è questo l’intento di Gesù. Gesù non vuole dirci che Dio è il nostro padrone e noi siamo i suoi servi e non vuole nemmeno dirci che Dio ci tratta in modo sprezzante come fa il padrone di questa parabola e come hanno spesso fatto tutti i padroni con i loro servi.
Attenzione però: il tema della parabola non è come Dio ci considera, ma come noi consideriamo noi stessi. Che cosa dice infatti Gesù dopo aver raccontato la parabola? Dice: «Così, anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: “Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare”». Siamo noi che dobbiamo considerarci servi inutili, non è Dio che ci considera tali. Se Dio ci considerasse inutili non si sarebbe preso la pena di inviare suo figlio in mezzo a noi e farlo arrivare fino alla croce per la nostra salvezza. No, la parabola non è un giudizio di Dio su di noi, ma è un insegnamento su come noi dobbiamo considerare noi stessi. È una parabola che vuole insegnarci come considerare il nostro fare, le nostre opere. Gesù con l’immagine del servo, vuole sgombrare ogni dubbio: quello che fai nella tua vita da credente non lo fai per avere qualcosa in cambio.
Come dobbiamo valutare le nostre opere, il nostro agire? Per prima cosa - se vogliamo rimanere nell’immagine della parabola di Gesù - potremmo dire che ciò che facciamo è nostro dovere: «abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare». Gesù vuole dirci che nei confronti di Dio – se proprio vogliamo usare una metafora economica – non siamo creditori, ma siamo debitori. Siamo debitori di tutto: della vita – della nostra vita in senso biologico e di tutte le vite di cui siamo circondati, dagli affetti alle sorelle e ai fratelli, fino alla natura – siamo debitori della nuova vita, cioè della vita che viviamo nella fede.
Gli dobbiamo la salvezza, cioè il fatto che Gesù è venuto, è morto e risorto anche per noi, anche per me e per te. Gli dobbiamo il perdono, cioè il fatto che ci guarda con gli occhi della misericordia e non con gli occhi del giudizio; gli dobbiamo la chiamata che ci rivolge ogni giorno, gli dobbiamo la fede che è anch’essa un suo dono, gli dobbiamo la speranza di cui ha riempito la nostra vita. E gli dobbiamo anche la comunità in cui ci ha inseriti, per non lasciarci soli. In questo senso l’immagine del servo è chiara ed esplicita. Non è Dio che deve qualcosa a noi, ma il contrario, siamo noi che gli dobbiamo tutto.
Questo modo di parlare di ciò che facciamo, l’essere servi di Dio, si affianca e integra l’altro modo tipico della teologia protestante per parlare delle nostre opere, che è la gratitudine: noi operiamo per gratitudine nei confronti di quel Dio che ci ha donato tutto. Gli siamo debitori di tutto, come dicevamo prima, ma non possiamo dargli nulla, perché Dio non ha bisogno che noi gli diamo qualcosa. Chi è invece che ha bisogno che noi gli diamo qualcosa? È il prossimo di cui ci parla l’evangelo molte volte e in molti modi.
La tua gratitudine nei confronti di Dio la manifesti nell’amore per il prossimo; Dio vuole che restituiamo un piccola, minima parte dell’enorme debito che abbiamo nei suoi confronti e che non potremo mai saldare, donandoci al prossimo. Gratitudine verso il nostro Dio misericordioso e servizio del nostro Dio che è il Signore della nostra vita. Non dobbiamo dimenticare questo aspetto del nostro rapporto con Dio: Dio è il nostro salvatore ma è anche il nostro Signore, nel senso che vuole regnare sulle nostre vite e, come dicevamo due domeniche fa con i bambini, vuole che la sua volontà accada attraverso di noi.
È il Dio tenero e misericordioso, ma anche il Dio esigente, che ci chiede con forza di seguire la sua volontà e non la nostra. In questo senso servi, nel senso che siamo chiamati a fare la volontà di qualcun altro e non la nostra; ma poiché quel qualcun altro è Dio, il Dio che ci salva e ci libera, essere suoi servi e fare la sua volontà non è affatto degradante e dispregiativo. Essere servi di Dio non è affatto degradante, tutt’altro: è un onore e un dono.
Dio vuole, ci chiede che noi operiamo per la pace, per la giustizia, per l'uguaglianza, per risollevare quelli che sono a terra, per ridare dignità agli emarginati, per ridare speranza ai disperati, insomma vuole che facciamo quello che ha fatto Gesù, ovviamente con le nostre capacità e le nostre forze.
Questo significa essere suoi servi. E quando abbiamo fatto tutto questo – ma è chiaro che non riusciremo mai a fare tutto ciò che il Signore vuole da noi, magari qualche frammento - ma quand’anche avessimo fatto tutto ciò che il Signore ci chiede, dovremmo dire come il servo della parabola: siamo servi inutili, ciò che ho fatto non è un merito, non comporta una ricompensa, non mi sono guadagnato nulla, ma ho solo fatto il mio dovere di discepolo di Gesù, di servo di quel Signore che vuole essere servito nel prossimo che ha bisogno della mia presenza e del mio amore.
Ma servi inutili vuol anche dire che noi non siamo indispensabili all’opera del Signore, mentre lui è indispensabile a noi; vuol dire che noi non facciamo nulla che non possa fare qualcun altro, mentre Dio ha fatto per noi quello che nessun altro può fare. Non siamo indispensabili, eppure il Signore ci ha scelti come suoi servi; avrebbe potuto non sceglierci e invece ci ha scelti e in questa scelta si è manifestata la sua grazia. E avendoci scelti, noi ora siamo suoi servi, non nel senso dispregiativo che ha per noi questa parola, ma nel senso che siamo al suo servizio.
E non solo essere servi di Dio non ha nulla di umiliante, ma al contrario la Bibbia ci dice che in fondo essere servi di Dio è l’unico modo per essere veramente liberi. Nella concezione biblica non esiste la libertà assoluta: o si è servi di Dio o si è servi di qualcuno o qualcosa altro. Qualcosa deve guidare la nostra esistenza, le nostre scelte. Possiamo essere servi di noi stessi, dei nostri desideri, in ultima analisi del nostro ego e del nostro egoismo; possiamo essere servi di un leader, di un capo, di una guida umana che ci fa da padroni; possiamo essere servi di un’ideologia (e spesso l’ideologia è portata avanti da un capo e le due cose vanno insieme) e essere servi convinti di quella ideologia, o convinti che quel capo ha veramente ragione. Oppure possiamo essere servi di Dio, come ci ha insegnato Gesù, e quindi liberi dal nostro egoismo, liberi da ogni capo e liberi da ogni ideologia.
Ricordo che anni fa in occasione di un culto con la confermazione di alcuni ragazzi/e, il collega che presiedeva il culto fece inginocchiare quei ragazzi/e, cosa per noi inusuale, e disse loro una cosa che mi è piaciuta molto e che a volte gli “copio”: Disse loro: “oggi voi vi inginocchiate qui davanti a Dio, al vostro Signore, per non dovervi inginocchiare mai nella vostra vita davanti a nessun altro signore”.
Il Dio di Gesù Cristo è l’unico Signore che libera, ed è un grande dono esser suoi servi. Servi inutili, nel senso che non operiamo per avere un utile, ma agiamo perché il Signore ce lo chiede, dunque perché è giusto, e per amore, perché il Signore ci chiede di amare e amare nella Bibbia vuol dire servire, come ha detto e fatto Gesù, che si è fatto servo fino alla croce. Il compito è sconfinato: ovunque c’è dolore, o colpa, o tristezza, o solitudine, o conflitto, lì c’è un servizio che Dio ci chiama a compiere, per portare conforto, riconciliazione, speranza.
Ci dia il Signore di poter andare davanti a lui ogni sera e dirgli:
Signore, Tu mi hai fatto la grazia di chiamarmi a essere tuo servo e ti questo non ti ringrazierò mai abbastanza. Ho cercato di essere un servo fedele, ma so di averlo fatto spesso poco e male.
E so anche che quando ho fatto tutto ciò che era nelle mie possibilità, rimango un servo inutile e continuo ad avere bisogno del tuo perdono e della tua grazia.
Continua, Signore, nella tua grazia, a perdonare i miei errori e a chiamarmi al tuo servizio, perché è beato chi tu chiami al tuo servizio, perché solo al tuo servizio c’è la vera libertà.