domenica 5 maggio 2019

Predicazione di domenica 5 maggio 2019 su Giovanni 10 a cura di Marco Gisola

Giovanni 10,1-5.11-16.27-30

1 «In verità, in verità vi dico che chi non entra per la porta nell'ovile delle pecore, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. 2 Ma colui che entra per la porta è il pastore delle pecore. 3 A lui apre il portinaio, e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori. 4 Quando ha messo fuori tutte le sue pecore, va davanti a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5 Ma un estraneo non lo seguiranno; anzi, fuggiranno via da lui perché non conoscono la voce degli estranei».
[…]
11 Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. 12 Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), 13 perché è mercenario e non si cura delle pecore. 14 Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, 15 come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 Ho anche altre pecore, che non sono di quest'ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore.
[…]
27 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono; 28 e io do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano. 29 Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti; e nessuno può rapirle dalla mano del Padre. 30 Io e il Padre siamo uno».


Apparteniamo a Gesù come le pecore di un gregge appartengono al loro pastore. Questa è l’immagine che oggi ci viene offerta dall’evangelo di Giovanni.
Un’immagine antica, che nell’AT viene usata per parlare di Dio stesso, che è il pastore del Salmo 23 e che nel libro di Ezechiele dice che se i pastori del popolo non fanno bene il loro compito, lo farà lui stesso e lo farà con giustizia. «Io – dice Dio - cercherò la perduta, ricondurrò la smarrita, fascerò la ferita, rafforzerò la malata» (Ez. 34,16)
Ora, dice Gesù, sono io questo pastore, questo buon pastore, ora è attraverso di me che Dio vi conduce a verdi pascoli e ad acque calme.
Nella nostra cultura, che mette l’autonomia individuale al centro, ci sono forse due aspetti di questa immagine che ci stanno un po’ stretti.
La prima è quella di essere pecore, di aver bisogno di essere accuditi, curati e soprattutto guidati. In effetti il messaggio evangelico è, in questo senso, molto poco moderno… L’evangelo ci dice proprio che non siamo così autonomi come ci illudiamo di essere; o meglio che ogni volta che ci affidiamo troppo alle nostre capacità, alla nostra autonomia di giudizio, rischiamo di fare grossi errori.
Un primo aspetto della fede è forse proprio questo: una confessione di umiltà, in cui riconosciamo e affermiamo di avere bisogno di una guida per non correre il rischio di cadere nell’egoismo e nella presunzione, quando ci affidiamo troppo alla nostra presunta autonomia, alle nostre ambizioni, ai nostri desideri.
Il primo passo della fede è proprio il riconoscere che non siamo autosufficienti, che abbiamo bisogno – per tornare alla metafora usata da Gesù – di un pastore, che è Gesù stesso.
Il secondo aspetto che mette in crisi il nostro concetto di autonomia è l’idea di appartenenza: “io sono mio” dice il ritornello dell'affermazione dell’autonomia individuale. L’evangelo invece ti dice: tu non sei tuo, sei di Gesù; non appartieni a te stesso, tu appartieni al tuo pastore.
Vi ho già citato molte volte – ma lo faccio di nuovo! - quella frase del catechismo di Heidelberg che alla sua prima domanda: «Qual’è la tua unica consolazione in vita e in morte?», risponde: «Che col corpo e con l’anima, in vita e in morte, non sono mio, ma appartengo al mio fedele Salvatore Gesù Cristo, che ha pagato pienamente per tutti i miei peccati […]».
Dietro queste parole c’è l’idea biblica del riscatto: non sono mio perché Gesù mi ha riscattato donando la sua vita per me. E qui Gesù dice che il pastore dà la sua vita per le sue pecore, cosa che normalmente un pastore non fa, perché se muore il pastore, le pecore rimangono senza pastore e si perdono…
Ma qui Gesù per un attimo "esagera" nella sua illustrazione dell’immagine del pastore e arriva a dire che l’amore del pastore per le sue pecore giunge fino al dare la propria vita per loro. È chiaro che Gesù qui si riferisce alla croce che lo attende. Sulla croce il buon pastore darà la sua vita per le sue pecore.
E proprio l’amore è l’interpretazione più corretta della metafora dell’appartenenza. Oggi purtroppo in molte relazioni la metafora dell’appartenenza spesso si trasforma in metafora del possesso: tutte le donne che vengono uccise nei cosiddetti femminicidi sono vittime di una relazione possessiva che però non ha più nulla dell’amore e dove rimane soltanto la volontà di possesso.
Ma, tornando al testo, c’è in esso anche una chiave di lettura dell’idea di appartenenza: ed è quella della conoscenza: il pastore conosce le sue pecore, le chiama per nome. Ciò significa che le conosce una ad una.
Un po’ come nei piccoli allevamenti, dove il piccolo allevatore conosce le sue pecore o le sue mucche una ad una, forse le ha viste nascere e ha dato loro un nome, a differenza degli allevamenti industriali dove gli animali non hanno nomi, ma al massimo hanno numeri.
Apparteniamo a Gesù, perché ci ha riscattati e perché ci conosce, ci conosce bene, conosce i nostri pregi e i nostri difetti, le nostre fragilità e le nostre colpe, ci conosce come a volte nemmeno noi stessi ci conosciamo, come dice il salmo 139.
Perché non solo la nostra vita biologica è un dono di Dio, ma anche la nuova vita nella fede è un dono di Dio in Cristo, che ci ha chiamati a far parte del gregge, della comunità dei discepoli e delle discepole.
Ci ha chiamati per nome, come ha fatto con Maria Maddalena, come abbiamo letto nell’evangelo di Pasqua (Giovanni 20,11-18), che ha riconosciuto Gesù risorto quando lui l’ha chiamata per nome.
Gesù chiama per nome anche noi. Questo significa che il gregge non annulla la nostra individualità, apparteniamo al gregge perché apparteniamo a Gesù e il gregge è composto da tutte le pecore che appartengono a Gesù. Apparteniamo prima a Gesù e poi al gregge. Ma apparteniamo anche al gregge, perché è il suo gregge. Ma su questo torniamo ancora tra poco.
La conoscenza – ci dice questo testo – è reciproca. «Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me», dice Gesù. Gesù conosce noi, ma anche noi conosciamo Gesù. Non lo conosciamo così bene come lui conosce noi, anzi, abbiamo sempre molti dubbi e domande su di lui, su Dio…
Ma le nostre umanissime e legittimissime domande non devono offuscare il fatto che noi conosciamo Gesù, perché egli si è fatto conoscere, in ciò che ha detto e in ciò che ha fatto. Si è fatto conoscere come colui che chiama, come colui che guarisce, come colui che libera, come colui che non giudica, ma anzi come colui che salva, e come colui che fa tutto questo perché ama, ci ama, ciascuno e ciascuna di noi, fino a dare la sua vita per noi.
Ci ama di un amore che non è possessivo, ma al contrario è puro dono.
All’inizio Gesù aveva detto che le pecore seguono il pastore, perché conoscono la sua voce e alla fine dice che le pecore ascoltano la sua voce e lo seguono. Come facciamo noi a conoscere Gesù? Ascoltando la sua voce, che conosciamo.
La conosciamo perché ci ha già parlato, ci ha già chiamato, ci ha già salvato e liberato dalla colpa e dalla paura. Molte voci intorno a noi parlano, gridano forse, cercano di emergere; molte voci ci chiamano e ci tentano: come dice il nostro inno “Veglia al mattin” (339.2): “con le lor voci il mondo e il cuore insieme non copran mai la voce del tuo re”.
Molte voci ci chiamano, ci illudono, alcune vengono da fuori di noi (quello che l’inno chiama il mondo), altre vengono dal di dentro, dal cuore. Molte voci chiamano, solo una libera e salva: quella del buon pastore.
Ci è dunque chiesto di ascoltarlo e di seguirlo. Di rinunciare alla nostra presunta autosufficienza (attenzione: non di rinunciare alla nostra libertà, quella anzi ce la dona proprio lui, liberandoci dalla schiavitù di noi stessi); ci chiede di rinunciare alla nostra autosufficienza, o all’illusione di essere autosufficienti, e di metterci in ascolto della sua voce.
E proprio quella voce ci dice anche che ha altre pecore che stanno in altri ovili, che deve radunare anche quelle e che alla fine ci sarà un solo gregge con un solo pastore. È promessa, che viene rivolta da Gesù ad altri rispetto a quelli che lo ascoltano.
Dunque non solo i membri del suo popolo fanno parte del suo gregge, ma anche altri, anche membri di altri popoli. È un anticipazione del fatto che anche i pagani saranno chiamati ad ascoltare e a seguire Gesù.
Ma se ascoltiamo queste parole come rivolte a noi oggi, esse ci relativizzano. E questo è molto salutare, fa bene alla nostra salute spirituale.
Ci fa bene sapere questo, che ci sono altri ovili e altre pecore, che non ci siamo soltanto noi, che l’evangelo è anche per altri. Non solo noi, ma anche altri. Non solo io, ma anche altri. L’evangelo di Gesù è sempre anche per altri, va sempre oltre, non si ferma mai dove è già arrivato.
Non siamo gli unici destinatari dell’evangelo, non siamo gli unici amati, non siamo gli unici chiamati, non siamo gli unici membri del gregge, non siamo gli unici per cui il buon pastore ha dato la sua vita. Se mai cadessimo in questa presunzione, la parola di Gesù ci libera anche da questa presunzione.
Siamo pecore, amate, chiamate, conosciute per nome, per cui Cristo è morto e risorto, membri del suo gregge… Sì, proprio tu sei una pecora amata, chiamata, conosciuta per nome, per cui Cristo è morto e risorto, proprio tu, ma anche altre. Non soltanto tu, non soltanto noi…. Anche altri.
Il Signore conosce proprio il tuo nome, è morto proprio per la tua salvezza, e anche proprio per quella di molti altri, che conosci e che non conosci, che ti assomigliano o che sono molto diversi da te, altre pecore, altri ovili… ma alla fine un solo gregge e un solo pastore.
E infine l’ultima promessa, che vale per te e per tutti gli altri, per questo gregge e per tutti gli altri:
Alle pecore che ascoltano la sua voce e che lo seguono, Gesù dice: «io do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano. […] e nessuno può rapirle dalla mano del Padre».
Dalle mani di Gesù e dalle mani del Padre nessuno ci può strappare. Gesù sente il bisogno di dirlo due volte, parlando una volta delle sue mani e una volta della mani del padre.
Da quelle mani non ci strappa nessuno, nemmeno la morte, ci dice l’evangelo della resurrezione. Il buon pastore ci guida tutta la vita, e non lascia che nulla e nessuno, come dice Paolo, ci separi dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù.
Ascoltiamo la sua voce che ci chiama per nome e seguiamolo con fiducia dove ci vuole condurre. Siamo nelle sue mani, da cui nulla ci può strappare.