domenica 30 giugno 2019

Predicazione di domenica 30 giugno 2019 su Matteo 16,13-20 a cura di Daniel Attinger




RICORDANDO PIETRO E PAOLO
Testi delle letture : Gal 1,11-20; Mt 16,13-20


Mt 16 13 Gesù andato dalle parti di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” 14 E quelli: “Alcuni Giovanni il Battista, altri invece Elia, altri ancora Geremia o uno dei profeti”. 15 Dice a loro” “E voi, chi dite che io sia?” 16 Rispose allora Si­mon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che vive”. 17 Gesù gli disse: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18 Io allora ti dico che tu sei Pietro e su tale pietra edificherò la mia Chiesa: le porte dell’Ade non prevarranno su essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli: ciò che leghi sulla terra sarà legato nei cieli; ciò che sciogli sulla terra sarà sciolto nei cieli”. 20 A quel punto dà ordine ai discepoli di non dire ad alcuno che egli è il Cristo.
Care sorelle e cari fratelli,
I testi che abbiamo appena letto ci parlano di due figure importanti della Chiesa. Le chiese ortodosse come anche quelle cattoliche celebravano ieri – lo sapete – la festa dei due apostoli Pietro e Paolo, colonne della Chiesa di Cristo. Da noi non è abitudine celebrare le feste di santi; non lo farò quindi nemmeno io. Ritengo tuttavia importante di non tacere semplicemente que­ste memorie, sotto il pretesto che l’onore vada tutto al solo Cristo. Il Nuovo Testamento con­tiene molti testi che parlano di queste figure; questi testi ci devono interpellare come gli altri. Ci dovrebbe comunque interrogare il fatto che dal iv secolo almeno, cioè da più di 1500 anni (!), si faccia memoria, in Oriente e in Occidente, del martirio di Pietro e di Paolo il 29 giugno. Si trat­ta forse della cristianizzazione di una festa pagana romana che ricordava i fondatori di Roma, Romolo e Remo. Quando Roma divenne cristiana, si pensò di non celebrare più i fondatori del­la Roma pagana, ma Pietro e Paolo, fondatori della Roma cristiana, non con la loro predicazio­ne, poiché vi erano già dei cristiani a Roma quando essi vi arrivarono, ma con il loro martirio.
Il testo che più c’interpella è quello che abbiamo appena riletto nell’Evangelo secondo Matteo. È stato l’oggetto di molte interpretazioni e polemiche sul ruolo di Pietro nella Chiesa. Vi ho aggiunto il testo che ricorda la vocazione di Paolo che mostra l’importanza dell’opera di Dio in questa vocazione. Se dunque la vocazione, il ministero e la morte di questi due apostoli sono importanti per Dio, essi non devono lasciarci indifferenti. Non ci parlano di un potere dato a loro, ma la loro vita, dalla chiamata alla morte, ci racconta Dio che li ha chiamati, cia­scuno a suo modo.
Siccome conosciamo solitamente meglio Paolo, a causa delle sue numerose lettere e per­ché è stato privilegiato nelle chiese della Riforma, mi fermerò oggi su Pietro sul quale siamo più sospettosi a causa del ruolo che ha assunto nella Chiesa cattolica e nella costruzione della figura del papa, in cui, non dimentichiamolo, alcuni riformatori non esitarono a vedere il diavolo in persona.
Vorrei soprattutto rilevare un grande paradosso. Se esaminiamo la vita di Pietro, com’è descritta dagli evangeli, dobbiamo riconoscere che non fa bella figura. Più volte gli viene rinfac­ciata la sua poca fede, una volta, addirittura, Gesù lo riprende severamente dandogli del “Sata­na” perché si era opposto all’annuncio che Gesù dava della sua passione. Qualche volta, mentre qualcosa di Gesù gli è rivelato, come in occasione della Trasfigurazione o al Getsemani, anziché restare ben sveglio, dorme. È pure lui che lo rinnega davanti a gente di cui non ha gran che da temere. E quando le donne annunciarono che Gesù era risorto, non lo credette e davanti alla tomba vuota rimase perplesso.
Sappiamo ancora che ha avuto una lite forte con Paolo a Antiochia, dove si era compor­tato in modo ipocrita, facendo credere a cristiani di origine ebraica, piuttosto tradizionalisti, che non si era mescolato a cristiani di origine pagana, mentre in realtà aveva abbandonato l’assem­blea in cui si trovava appena aveva saputo dell’arrivo di quei cristiani tradizionalisti.
Come allora è proprio a questo discepolo che Gesù dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Ade non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli…”?
Questa parola, l’abbiamo sentito, è detta a Pietro subito dopo che ha confessato che Gesù era il Cristo, il Figlio di Dio, per cui è interpretazione tradizionale, da Giovanni Crisostomo ai riformatori, e spesso fra i commentatori protestanti, il dire che la “roccia” su cui Gesù costrui­sce la sua Chiesa non è Pietro, ma la sua fede, fede che gli è stata data da Dio: “Beato te, Simo­ne figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Molti commentatori però, fra i quali anche protestanti, sottolineano che Gesù non dice: “sulla tua fede edificherò la mia Chiesa”, bensì: “su di te, Pietro”, giocando anche sul suo nome: Kefa che, in aramaico, è nome proprio o nome comune per “roccia”, gioco di parole un po’ più debole in greco e in italiano, tra Pietro e “pietra”.
Ritorna allora la domanda: perché proprio lui? Vorrei sottolineare tre elementi.
Il primo è che Gesù non fa di Pietro il costruttore della chiesa. Gesù rimane l’autore di questa costruzione. Dice infatti: “Su di te io edificherò la mia Chiesa”. È quanto conferma il libro degli Atti degli Apostoli dove si legge più volte che “il Signore aggiungeva alla comunità quelli che trovavano la via della salvezza”. È dunque chiaramente il Cristo che costruisce la Chiesa, non Pietro, non gli apostoli e neanche noi. Questo è importante, soprattutto quando, come noi in questi tempi, si fa parte di una comunità estremamente minoritaria che rischia di essere presa dalla disperazione nel vedere le sue file assottigliarsi. La costruzione è in mano al Signore, fac­ciamogli fiducia, saprà guidare la sua Chiesa là dove la vuol condurre. Notiamo però che non è affatto detto che quella meta corrisponda all’idea che ci facciamo del punto dove dobbiamo andare: potrebbe anche darsi che il Signore non voglia che perduri eternamente la divisione fra i cristiani, e che allora dobbiamo trovare il modo di vivere la nostra fede cristiana insieme con gli altri, che ora non professano la nostra stessa identica fede, ma con i quali, comunque, ciò che possiamo vivere insieme è di lunga più importante di ciò che ci divide.
La seconda cosa che vorrei sottolineare è che Gesù parla del solo Pietro, non di successori! A Cesarea di Filippo Gesù non ha fondato il papato! Ciò che invece il Signore dice è che ogni Chiesa, in ogni tempo e in ogni luogo, e dunque anche la nostra comunità di Biella, come pure la diocesi di Biella, o ancora le comunità copta o ortodossa che vivono qui, tutte queste comu­nità sono state edificate dal Cristo su Pietro. Ancora qui abbiamo di che riflettere: se siamo edi­ficati dal medesimo Signore sullo stesso apostolo Pietro, perché mai continuiamo ad essere divi­si? Forse perché vorremmo una Chiesa perfetta, mentre Gesù ci ricorda che ci costruisce su Pietro, quel apostolo di cui dicevo che non fa bella figura!
Questo ci conduce al terzo elemento che volevo sottolineare: Pietro, dicevamo, fa brutta figura. Non sembra un modello convincente. Ma proprio per questo Gesù ha scelto di edificare la sua Chiesa su di lui, il timorato, preso dal panico, rinnegatore, di poca fede: perché, propria a causa di questi suoi difetti, farà la grande esperienza di non poter vivere se non grazie al per­dono di Cristo. Questa fu la sua grande esperienza pasquale. Questo fatto ci deve ricordare che la Chiesa può vivere solo del perdono di Cristo e che quindi non ha altro messaggio da annun­ciare al mondo in cui vive se non quello della misericordia e del perdono senza confini di Dio.
Proprio in questo perdono, accolto e annunciato, la Chiesa, le Chiese trovano la loro gioia. È anche in esso che troveranno la loro unità. Il Signore ci conceda il suo Spirito perché sappiamo trovare la strada sulla quale il Signore vuol farci camminare. A lui la gloria e la lode, ora e sempre.
Amen

lunedì 10 giugno 2019

Predicazione di domenica 9 giugno 2019 (Pentecoste) su Giovanni 14,15-27 a cura di Giuseppe Sgroi

Giovanni 14, 15-27 (Atti 2, 1-21)
15 «Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16 e io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro consolatore, perché stia con voi per sempre, 17 lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi. 18 Non vi lascerò orfani; tornerò da voi. 19 Ancora un po', e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20 In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi. 21 Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui».
22 Giuda (non l'Iscariota) gli domandò: «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?» 23 Gesù gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui. 24 Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato.
25 Vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; 26 ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto.
27 Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.


Oggi è il giorno in cui si commemora l’evento della Pentecoste.
Quest’evento ricorda in qualche modo la nascita della chiesa o quantomeno esso ne è uno dei momenti fondanti.
La festa di Pentecoste è una festa risalente alla tradizione ebraica. Era chiamata la festa delle settimane e si celebrava quarantanove giorni dopo la Pasqua; con il tempo assunse diversi significati nel mondo ebraico: fu celebrata allo stesso tempo come festa delle primizie del raccolto così come festa di celebrazione del dono della Torah.
C’è un midrash ebraico, un racconto rabbinico, che narra del dono della Torah:
Mose salito sul monte per ricevere le parole della Torah, è accolto dall’indignazione degli angeli che chiedono a Dio come mai vuole mettere nelle mani d’un umano, quindi un peccatore, la Torah, che è santa in quanto pensata e promulgata da Dio stesso.
Dio non risponde direttamente ma chiede a Mosè di rispondere.
Mosè allora si sofferma sui punti salienti della Torah intesa come decalogo, i dieci comandamenti, risponde rivolgendo agli angeli delle domande:
cosa dice la Torah? «Io sono il Signore Dio tuo che ti fece uscire
dalla terra d’Egitto» (Es 20, 2).
- E voi, - disse Mosè rivolgendosi agli angeli - siete forse stati in Egitto?
avete dovuto sostenere la schiavitù? a che dovrebbe servirvi, dunque, la Torah?
Inoltre- continuò Mosè - è scritto in essa: «non avere altri dei».
Siete, forse, voi in mezzo a genti idolatriche?
È ancora scritto: «non pronunciare il Nome di Dio, ecc.». Avete voi forse rapporti secondo le umane consuetudini?
È scritto inoltre: «ricordati del giorno di sabato per santificarlo». Forse che voi lavorate, per dover poi riposare?
È scritto ancora: «onora tuo padre e tua madre». Avete voi genitori?
È scritto ancora: «non uccidere, non commettere adulterio, non rubare». V’è forse, tra voi, gelosia o invidia?
Così gli angeli, dopo aver lodato Dio, divennero amici di Mosè e ciascuno gli fece un regalo, come è detto: «salisti al cielo, prendesti ricchezze, prendesti doni per gli uomini» (Sal 68, 19).

Da sempre Pentecoste è stata una festa importante, anche nel mondo cristiano, perché si ricorda la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e dunque, l’aspetto solenne della festa è rimasto confermato.
I testi che abbiamo letto oggi, e che sono alla base di questa riflessione, ci mostrano due aspetti, ambedue fondamentali per la comprensione di questa festività e della sua gioiosa celebrazione: nell’evangelo di Giovanni, sono riportate le parole di Gesù dette ai discepoli, parole con le quali sottolineò l’importanza della relazione con il Padre e quindi con lui stesso, come manifestazione della presenza dello Spirito nel cuore dei credenti; nel libro degli Atti invece, è raccontato l’evento prodigioso della discesa dello Spirito sui discepoli e l’effetto che produsse, indicando l’elevato numero di persone che a partire proprio da quell’evento, credettero.
Ebbene, anche oggi il ricordo di quell’avvenimento ha un valore fondante per noi, per la chiesa, per ogni singolo credente, figlia e figlio di Dio.
Il testo dell’evangelo di Giovanni, è un testo nel quale traspare tutta la preoccupazione dei discepoli: il Maestro aveva loro detto che se ne sarebbe andato, sarebbe tornato al Padre.
E di loro? Che ne sarebbe stato di loro? Cosa avrebbero fatto delle loro vite, dopo anni passati con Lui a girare in lungo e in largo per la Galilea e la Giudea, la Samaria e la Decapoli?
Una preoccupazione legittima, fondata. Molti di loro erano dei semplici pescatori, il problema che si presentava davanti a loro riguardava il “cosa fare dopo”. Quale sarebbe stato il loro futuro?
Uno dei discepoli gli pone una domanda: “ma perché ti manifesti solo a noi e non a tutti? Perché ti vedremo solo noi e non tutti?”
Domanda questa che non è solamente segno di curiosità, forse c’è pure dell’incomprensione del significato dell’insegnamento del Maestro, ma denota anche la preoccupazione riguardo alla loro vita.
In fondo sarebbe stato tutto molto più semplice se il Maestro, si fosse manifestato a tutti e non solo a loro.
Sarebbe stato più semplice se il Maestro, il Messia, si fosse reso visibile a tutti e non solo a loro.
La loro vita sarebbe stata facilitata, tutto avrebbe un senso più ampio, non ristretto alla loro piccola cerchia. Non avrebbero dovuto spiegare, bastava un semplice “l’hai visto anche tu”, una certezza visiva, una prova tangibile e non un evento raccontato.
Cosa fare dunque? Come comportarsi? Come affrontare il futuro, le sfide, il timore di essere perseguitati, come infatti lo furono, esclusi dalla comunità d’Israele, additati come blasfemi, come esaltati, come utopici, come strani o ubriachi di vin dolce come lo stesso racconto degli atti ci riporta.
In una sola parola emarginati e rifiutati, senza futuro, senza arte né parte.
L’emarginazione è un problema concreto ancora oggi presente nella nostra società: se non si è omologati al pensiero dominante, in fondo si è considerati come “strani”, quanto meno sospetti, nella migliore delle ipotesi, eccentrici oppure nella nuova vulgata, buonisti.
Se si è stranieri poi, si è guardati con diffidenza; se si è tra coloro che aiutano queste categorie di persone, stranieri, immigrati in genere, rom, in fondo si è guardati con un distacco che sovente rasenta la diffidenza: “c’è qualcosa di losco, di poco chiaro, chissà perché lo fanno, di sicuro ci guadagnano…”
Dunque l’interrogativo dei discepoli concretizzato proprio nella domanda posta a Gesù da uno di loro, da Giuda (non l’iscariota, precisa il testo): “perché solo a noi e non a tutti”, interroga anche noi nell’oggi della nostra quotidianità, della nostra fede e delle nostre azioni sociali che sono una conseguenza di essa.
Vivere la fede è da sempre un esercizio complesso, non di rado suscita ammirazione negli altri, ma spesso solo dopo la morte della persona; allora vengono ricordati gesti, azioni, parole o gli insegnamenti. In vita il trattamento sovente è differente.
Coloro che però non sono omologabili al pensiero religioso tradizionale della maggioranza, sono scartati, non sono nominati, ancora una volta emarginati anche post mortem.
Questo accadde ai valdesi e in generale ai protestanti, spesso visti non solo teologicamente come eretici ma anche come potenziali elementi di instabilità per il potere: il dissenso e la protesta non sono utili per la gestione del potere stesso. Sono componenti di destabilizzazione.
Come si può perciò coniugare la fede davanti alle tante difficoltà, tra le quali quelle appena descritte?
Come coniugare la fede davanti ad una società che accetta quasi passivamente l’ostentazione di simboli religiosi interpretati come espressione della fede stessa?
Le critiche tra cui anche la nostra, rimangono incomprensibili ai tanti.
Possiamo vedere l’opera dello Spirito in queste manifestazioni?
In questi casi, quasi certamente i dubbi rimangono e sono forti, esattamente come i dubbi e le paure dei discepoli sul loro futuro e sulla loro missione.
Cosa fare dunque? Come comportarsi?
Allora come oggi, seguendo la lettura del Vangelo, potremmo dire che Gesù comprese lo stato d’animo dei discepoli, così come comprende il nostro.
Egli fece loro delle promesse: la promessa del suo ritorno e la promessa del Paraclito, il Consolatore, lo Spirito Santo.
Una promessa cui segue l’evento gioioso e strabiliante di una predicazione espressa in diverse lingue, lingue comprese dagli ascoltanti, che sancirono e testimoniarono che l’allargamento del perimetro dovesse andare oltre la cerchia dei primi discepoli, che fosse di fatto quella la strada da percorrere.
Strada infatti che successivamente Paolo percorse e difese per tutta la sua vita. Lo Spirito Santo dunque come la Torah per il mondo ebraico, nel midrash che abbiamo citato all’inizio, ha la funzione di guida, sostegno, mezzo di forza e aiuto per ogni credente per la propria vita di fede. Un avvocato ma anche un tutore.
È l’evento promesso già dal profeta Gioele e che il testo del libro degli Atti letto oggi riporta; evento già previsto da Dio, evento che segna il punto di partenza di una comunità che crede che occorra propagare il messaggio ricevuto dal Maestro.
Ma Gesù ai discepoli aggiunge ancora dell’altro che potremmo tradurre così:
non solo ciò che al momento non capite vi sarà reso comprensibile proprio dall’intervento dello Spirito, ma questo Spirito è Colui che supplirà pienamente alla mia assenza terrena e corporale, ma rendendomi spiritualmente presente in mezzo a voi. Ecco perché voi mi vedrete e gli altri no!”
Non solo! Gesù non si limitò solo ad una promessa, Egli diede anche delle indicazioni precise: osservare i suoi insegnamenti, prendere in considerazione che senza l’osservanza della sua predicazione, sarebbe impossibile vivere l’esperienza fondante e fondamentale della relazione con il Padre (e con Lui stesso). Esperienza certamente personale ma che si concretizza nella relazione comunitaria dove la pace lasciata da Cristo prende consistenza e vede la sua applicazione pratica.
Osservare i suoi insegnamenti, equivaleva ad osservare i suoi comandamenti ma di fatto si trattava e si tratta di un solo comandamento, che racchiude qualunque altro: il comandamento dell’amore.
I discepoli continuarono, in quel momento, a non comprendere il suo messaggio; esso non fu chiaro per loro nemmeno dopo la sua resurrezione, iniziò ad apparire più comprensibile dopo la sua apparizione come Risorto, fu completo con la Pentecoste e la prospettiva che si schiudeva d’innanzi, fu palese subito dopo.
A quel punto, sapevano cosa fare, sapevano come fare, sapevano dove andare, sapevano cosa dire.
Il mistero fu sciolto definitivamente.
A quel punto era chiaro e sempre più chiaro sarebbe stato nel futuro: convincere gli esseri umani di questa bella notizia, di questa possibilità, di questa necessità.
E per noi oggi? Forse non ci è poi sempre così chiaro, spesso perdiamo l’orientamento e abbiamo bisogno di qualche momento di riflessione.
Ma ci accompagna la promessa ed insieme la certezza che il Signore è con noi, cammina con noi, ci supporta nelle nostre ansie, nelle nostre preoccupazioni, nei nostri quesiti, nei nostri dubbi, che Lui è lì, c’è, ci indica una strada, ci chiama di continuo, ci incita, ci ama incondizionatamente e chiede solo in cambio, la relazione, la nostra apertura.
Un messaggio dunque, è alla base di questa prospettiva, un messaggio da diffondere, ma soprattutto un messaggio da vivere: l’amore.
Quello di Dio per ciascuno e ciascuna di noi e il nostro, verso gli altri, all’interno di una dinamica relazionale.
Non è banale né banalizzabile come messaggio; certo si potrebbe dire che lo sanno anche i muri che bisogna amare, in fondo non è una scoperta.
Ma in realtà dietro questa parola che indica un sentimento, ci sono diverse emozioni, diverse manifestazioni, diversi modi di vivere questa sfera affettiva.
L’apertura che il libro degli Atti ci racconta, è un’apertura verso un mondo estraneo, che parla lingue differenti, che è portatore di culture differenti, modi di fare differenti, è di fatto, l’indicazione chiara che lo Spirito dà.
Il giorno di Pentecoste dunque è un’esperienza vera di vicinanza a Dio, e di Dio; una relazione che spezza ogni legame, ogni barriera, ogni muro, ogni recinzione di filo spinato (come ultimamente se ne vedono alle frontiere degli stati), e stabilisce l’apertura quale esperienza concreta di fede e liberazione.
L’esperienza della Pentecoste non è un mero rapporto teorico e nemmeno un espediente mnemonico, lo sterile ricordo di un avvenimento.
Essa è relazione!
Relazione con Dio, relazione con il prossimo, apertura e condivisione.
Il Signore ci ha chiamati a vivere quest’esperienza pienamente per mezzo dello Spirito, e a viverla con gioia.
E allora avendo noi, questa convinzione di fede, auguro a tutte e tutti una felice, buona e gioiosa Pentecoste.
Amen

domenica 2 giugno 2019

Predicazione di domenica 2 giugno 2019 su Efesini 3,14-21 a cura di Marco Gisola

14 Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre, 15 dal quale ogni famiglia nei cieli e sulla terra prende nome, 16 affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell'uomo interiore, 17 e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell'amore, 18 siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo 19 e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio.
20 Or a colui che può, mediante la potenza che opera in noi, fare infinitamente di più di quel che domandiamo o pensiamo, 21 a lui sia la gloria nella chiesa, e in Cristo Gesù, per tutte le età, nei secoli dei secoli. Amen.


1. Il brano di oggi è una preghiera che l’apostolo rivolge a Dio per la sua comunità. l’apostolo (e qui che la lettera sia davvero stata scritta dall’apostolo Paolo o da un suo discepolo non è così importante) prega per la sua comunità, prega per le donne e gli uomini che ne fanno parte. l’apostolo si rivolge a un “voi”, ha probabilmente in mente dei volti ben precisi.
Vorrei fermarmi un attimo su questo perché rischiamo di ritenere questo fatto troppo scontato. Quello che qui Paolo (o chi per esso) dice ci interpella, e mi interpella in modo particolare: non perché io pensi di potermi paragonare a un apostolo, ma comunque questo brano di oggi suggerisce che ogni ministro è chiamato a pregare per le proprie comunità, per i membri delle comunità a lui/lei affidate.
Ma questo non vale soltanto per i ministri, ovviamente. Questa parola di oggi invita tutti e tutte noi a pregare per la nostra comunità, per le sorelle e i fratelli di questa comunità; e ci chiede se lo facciamo.
Ci dice che in fondo la prima cosa che siamo chiamati a fare per la nostra chiesa e nella nostra chiesa è pregare gli uni per gli altri. Il cosiddetto sacerdozio universale inizia proprio qui, nella preghiera gli uni per gli altri.
Altro dettaglio su cui riflettere un istante: Paolo piega le ginocchia, si inginocchia per pregare. Noi sappiamo che non c’è bisogno di inginocchiarsi per pregare, non c’è bisogno di un luogo apposito per pregare, non c’è bisogno di candele, non c’è bisogno di simboli, ecc. ecc.
Possiamo pregare in cucina, sotto la doccia, sul treno, ovunque…; possiamo pregare seduti, in piedi, anche coricati, magari prima di dormire.
Tutto vero, ma questa affermazione dell’apostolo fa riflettere: a furia di “non c’è bisogno di questo, non c’è bisogno di quello...”, “possiamo pregare anche qui, possiamo pregare anche lì”… non rischiamo di banalizzare la nostra preghiera?
In fondo, pregare non è come andare a prendere un caffè, per quanto sia piacevole prendere un caffè… Il gesto dell’apostolo di inginocchiarsi esprime la volontà di affermare che quel momento non è uguale agli altri momenti delle nostre giornate, è un gesto per rendere quel momento diverso dagli altri.
Perché è un momento speciale, è un momento con Dio, e – se possibile, ovviamente – che sia un momento speciale deve anche vedersi. Con un gesto, un segno, un simbolo. Per esempio, l’inginocchiarsi coinvolge nella preghiera anche il nostro corpo.
Se ci pensate, istintivamente quando preghiamo tendiamo a chiudere gli occhi e a congiungere le mani. Già questo è un segno che il nostro corpo partecipa nella nostra preghiera. L'inginocchiarsi intensifica questi gesti in cui si dice anche con il proprio corpo che quel momento non è come gli altri, che quel dialogo che è la preghiera non è come altri dialoghi.
Non vi chiedo – e non chiedo nemmeno a me stesso – di inginocchiarmi da ora in poi ogni volta che preghiamo. Mi basta riflettere insieme a voi sul modo in cui preghiamo.


2. veniamo ora al contenuto della preghiera: l’apostolo per le sue sorelle e i suoi fratelli di Efeso a Dio chiede:
- che lo Spirito dia loro forza
- che Cristo abiti nei loro cuori
- che siano radicati nell’amore e possano essere «capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo» e di «conoscere» questo amore che «sorpassa ogni conoscenza».
- l’obiettivo finale è di essere «ricolmi di tutta la pienezza di Dio».
Un linguaggio non tipicamente paolino, e questo è una delle ragioni che spingono molti studiosi a dire che questa lettera non è di Paolo ma di un suo allievo, che appartiene a un’altra generazione che ha un suo proprio linguaggio, più vicino alle mentalità greca.


Le prime due richieste sono simili: si invoca l’azione dello Spirito chiamato a dare forza ai cristiani di Efeso e si chiede che Cristo abiti nei cuori dei credenti.
Tutta la preghiera intende rafforzare la fede di questi credenti, in particolare la richiesta che Cristo abiti nei loro cuori non è una richiesta che riguarda le emozioni o i sentimenti, come potrebbe far pensare a noi moderni la parola cuore.
Il cuore è nella cultura ebraica la sede non dei sentimenti, ma della volontà e dunque che Cristo abiti nei nostri cuori significa che la nostra volontà sia trasformata e resa sempre più simile a quella di Cristo.
Potremmo dire che l’apostolo prega affinché questi credenti arrivino sempre più a volere ciò che Cristo vuole, a far prevalere la volontà di Dio sulla loro volontà.
Questa è la loro forza, la fede che porta a volere ciò che Dio vuole.
La seconda richiesta è che gli Efesini conoscano l’amore che è stato rivelato in Cristo. Il termine conoscenza – in greco: gnosi – è tipico della filosofia greca, in cui c’erano alcune correnti che cercavano una sorta di salvezza nella propria conoscenza, nella conoscenza di certi misteri di cui solo essi sapevano.
È quindi importante che l’apostolo scriva qui che ciò che conta è conoscere l’amore di Cristo e tutta la sua «larghezza, la lunghezza, l'altezza e profondità» e che questa conoscenza, la conoscenza dell’amore di Cristo, sorpassa ogni altra conoscenza.
Questo è fondamentale che un cristiano conosca: l'amore di Cristo, l'amore che Dio ha avuto per lui mandando suo figlio Gesù Cristo. Tutto il resto è secondario. Questa è la conoscenza cristiana: la conoscenza dell’amore di Cristo.
Ma la conoscenza dell’amore di Cristo non è una conoscenza teorica; è conoscere, cioè sapere, di essere amati. La parola “amore” (agape) torna tre volte in pochi versetti e l’apostolo afferma che è necessario essere radicati e fondati in questo amore, ovvero questo amore è la radice e il fondamento della nostra vita e della nostra fede.
Dobbiamo ricordare che la lettera agli efesini è quella in cui il suo autore usa quella bellissima immagine dell’azione di Dio in Cristo come la demolizione del muro che separava ebrei e pagani. Per questo afferma che tutte le famiglie prendono nome o derivano dal padre, per affermare una unità di tutta l’umanità, che è stata creata da Dio.
In Cristo Dio ha amato tanto gli ebrei, il popolo che aveva scelto molti secoli prima, quanto i pagani, anch’essi destinatari dell’evangelo della grazia. L’amore di Dio in Cristo fa crollare muri, l’umanità senza amore costruisce muri.
È questo l’amore che gli Efesini conoscono, che hanno sperimentato in quanto ex pagani, hanno visto crollare quel muro che separava ebrei e pagani e hanno vissuto la nuova realtà che Dio ha realizzato in Cristo, «lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione», aveva detto al cap. 2.
Questa è la prima e essenziale conoscenza cristiana: che Dio ci ama, che questo amore non è un generico sentimento di Dio nei nostri confronti, ma è amore che fa crollare muri, che fa incontrare, che crea relazioni, di più: che crea comunione.
Questa conoscenza sorpassa ogni altra conoscenza, il che non vuol dire banalmente saperne più degli altri, ma significa che siamo chiamati a vivere secondo questa conoscenza, secondo questa fede potremmo dire, conoscendo che prima viene l’amore, l'amore di Dio per noi e per il prossimo, e quindi il nostro amore per il prossimo, perché il muro che mi separava da lui è crollato. E poi viene tutto il resto.
Chi sa questo è «ricolmo di tutta la pienezza di Dio», strana espressione che probabilmente significa che l’amore di Dio ci riempie, riempie la nostra volontà, i nostri sentimenti, la nostra intelligenza, la nostra cultura, la nostra fantasia… l’amore di Dio vuole riempire tutta la nostra vita e orientare tutta la nostra esistenza.
Prima l’amore: per la nostra fede significa: prima l’amore di Dio, cioè prima la grazia. E per la nostra vita quotidiana significa: prima l’amore per il prossimo e poi il resto.
L’apostolo scrive e crede questo e per questo conclude la sua preghiera con la lode: «Or a colui che può, mediante la potenza che opera in noi, fare infinitamente di più di quel che domandiamo o pensiamo, a lui sia la gloria nella chiesa, e in Cristo Gesù, per tutte le età, nei secoli dei secoli»
Dio può fare infinitamente di più di ciò che domandiamo e pensiamo. Il suo amore è infinitamente più grande di quanto pensiamo o meritiamo.
A lui che ci ama, e che ci insegna ad amare, sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen

Predicazione di giovedì 30 maggio 2019 - Ascensione di Gesù su 1 Re 8,22-30 a cura di Marco Gisola

22 Poi Salomone si pose davanti all'altare del SIGNORE, in presenza di tutta l'assemblea d'Israele, stese le mani verso il cielo, 23 e disse: «O SIGNORE, Dio d'Israele! Non c'è nessun dio che sia simile a te, né lassù in cielo, né quaggiù in terra! Tu mantieni il patto e la misericordia verso i tuoi servi che camminano in tua presenza con tutto il cuore. 24 Tu hai mantenuto la promessa che facesti al tuo servo Davide, mio padre; e ciò che dichiarasti con la tua bocca, la tua mano oggi adempie. 25 Ora, SIGNORE, Dio d'Israele, mantieni al tuo servo Davide, mio padre, la promessa che gli facesti, dicendo: Non ti mancherà mai qualcuno che sieda davanti a me sul trono d'Israele, purché i tuoi figli veglino sulla loro condotta e camminino in mia presenza, come tu hai camminato. 26 Ora, o Dio d'Israele, si avveri la parola che dicesti al tuo servo Davide, mio padre! 27 Ma è proprio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita! 28 Tuttavia, o SIGNORE, Dio mio, abbi riguardo alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica, ascolta il grido e la preghiera che oggi il tuo servo ti rivolge. 29 Siano i tuoi occhi aperti notte e giorno su questa casa, sul luogo di cui dicesti: Qui sarà il mio nome! Ascolta la preghiera che il tuo servo farà rivolto a questo luogo! 30 Ascolta la supplica del tuo servo e del tuo popolo Israele quando pregheranno rivolti a questo luogo; ascoltali dal luogo della tua dimora nei cieli; ascolta e perdona!


Oggi ricordiamo l’ascensione di Gesù, ovvero la salita di Gesù al Padre. Gesù risorto se ne va, torna al Padre, i discepoli, dopo la grande gioia di averlo rivisto risorto dopo la sua morte, ora devono definitivamente salutarlo e imparare a cavarsela da soli. In realtà non proprio da soli, perché Dio a Pentecoste manderà il suo Spirito.
Oggi il lezionario ci propone un brano dell’AT, che quindi leggiamo in parallelo al racconto dell’ascensione. Si tratta di una parte della preghiera che il re Salomone rivolge a Dio dopo aver costruito il tempio di Gerusalemme.
Dio aveva chiesto che gli fosse costruita una casa. La voleva fare Davide, il padre di Salomone, ma Dio gli aveva detto che l’avrebbe costruita suo figlio. Ed ecco dunque che Salomone costruisce il tempio e in questo brano c’è una sorta di dedicazione del tempio a Dio.
Possiamo trovare un punto comune nei due racconti in una domanda: il racconto dell’ascensione vuole rispondere alla domanda: “dove è Gesù?” e il racconto che abbiamo letto nel primo libro dei Re vuole rispondere alla domanda: “dov’è Dio?”.
Partiamo dal racconto del libro dei Re: i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere, dice Salomone nella sua preghiera.
Salomone sa bene che Dio non è nel Tempio, da buon ebreo sa bene che Dio è il creatore che sta al di fuori della sua creazione, che è più grande e più alto di ogni creatura.
I cieli, come sapete, è il luogo per definizione irraggiungibile, lontano dalla vita degli esseri umani e di tutte le creature, ma se tutto l’AT ci dice che Dio è nei cieli, qui Salomone dice che Dio è oltre, è più grande persino dei cieli.
Dio è oltre, ma ha deciso di far abitare la sua gloria nel Tempio. Pochi versi prima, all’inizio di questo capitolo, quando i sacerdoti portano l’arca dell'alleanza dentro il tempio, nel luogo detto santissimo (o santo dei santi), viene raccontato che «la nuvola riempì la casa del Signore» (la nuvola come quella che aveva accompagnato Israele nel deserto) e poi viene detto che «la gloria del Signore riempiva la casa del Signore» (v. 10-11).
E quindi, sono quindi vere entrambe le cose: è vero che Dio è immensamente più grande del tempio e più grande di tutti i cieli, che non lo possono contenere; ed è anche vero che Dio ha scelto il tempio per farvi abitare la sua gloria, un luogo quaggiù sulla terra, dove il suo popolo possa recarsi per adorare e per pregare.
Ma Dio non diventa prigioniero di quel luogo, non è sempre lì, e non per forza. Detto in altre parole: Dio non è lì fermo in un luogo, a disposizione del popolo. Dio non diventa un oggetto chiuso in un luogo dove il popolo sa che può trovarlo, sempre e comunque. Potremmo anche dire: Dio non si lascia usare da Israele, non diventa il servo di Israele, ma rimane il Signore di Israele.
Il tempio, potremmo dire, è il luogo in cui Dio e Israele si incontrano, perché Dio viene verso Israele, Dio viene dal suo popolo e fa abitare la sua presenza - o la sua gloria – nel tempio.
E quando la presenza di Dio – a volte chiamata “nome”, a volte chiamata “gloria” - scende nel tempio? Quando l’arca dell’alleanza è stata messa nel tempio.
E che cosa c’è nell’arca dell’alleanza? Ci sono le tavole della legge di Mosè, ci sono le tavole del patto. Il culto che si farà nel tempio di Gerusalemme sarà un culto celebrato davanti alle tavole dell’alleanza.
Dunque non è tanto il tempio in sé ad essere sacro, luogo sacro, ma è il patto ad essere sacro. Tra l’altro, oggi possiamo dire che è proprio così perché l'ebraismo vive da 19 secoli e mezzo la sua fede senza più avere alcun Tempio; ma il patto rimane valido ed è il patto che tiene gli ebrei legati a Dio e tra di loro.
Il Tempio è uno strumento di cui Dio e il popolo si servono per “incontrarsi”. Lì il popolo si recherà per invocare Dio, il quale ascolterà le sue preghiere “dalla sua dimora nei cieli” (8,30). Dio non è quindi chiuso nel Tempio, ma rimane libero nei cieli. Il Tempio è il luogo dove Dio dà appuntamento al popolo.
Dunque: dov’è Dio? Dio è nei cieli, Dio è libero, non si lascia catturare, Dio è dove vuole essere, e nella sua libertà cerca noi, ci viene incontro, ci dà appuntamento. Al suo popolo ha dato appuntamento nel tempio, ma prima ancora gli ha dato appuntamento nel patto, nelle tavole della Torah.
E veniamo dunque alla seconda domanda: dov’è Gesù? Che cosa ci dice il racconto dell’Ascensione? Ci dice che Gesù sale, torna da dove è venuto, torna a Dio. Potremmo dire che l’ascensione è il compimento della incarnazione: Gesù è venuto da Dio, è nato, ha vissuto guarito e insegnato, è morto ed è risorto, ma la sua opera è completa, è compiuta solo quando torna al Padre.
Il Credo dice che Gesù ora siede alla destra del padre, il che significa che Gesù regna insieme al padre, che il regno di Dio è iniziato con la sua venuta ma non è finito con la sua partenza. Il regno non è compiuto ma è iniziato.
E Gesù regna, dal cielo, dalla destra del Padre, attraverso la sua parola e attraverso lo Spirito, che verrà dato ai discepoli dieci giorni dopo, a Pentecoste.
È un regno apparentemente debole, ma forte per chi confida in lui, perché è il regno della fiducia e della speranza, è il regno della misericordia e dell’amore. È un regno debole, perché si serve dei discepoli per essere annunciato e vissuto. Quei discepoli che se ne stanno lì con il naso per aria a guardare il cielo, stupiti e sconcertati.
Perché i discepoli avrebbero senz’altro preferito che Gesù rimanesse con loro e che risolvesse tutti i loro problemi. Invece no. Gesù se ne va e dice loro: io ho compiuto il mio compito, ora tocca a voi. E il vostro compito è quello di annunciare e vivere quel regno. Perché non è ancora il momento del regno nei cieli, ma è il momenti che il regno dei cieli venga predicato sulla terra.
Non occupatevi troppo del cielo, occupatevi piuttosto della terra, e di tutta la terra fino alle sue estremità. Dunque, finita la missione di Gesù, inizia la missione dei discepoli. La conseguenza pratica dell’ascensione di Gesù è quindi l’inizio dell’annuncio del regno da parte dei discepoli.
Un regno debole, se guardiamo ai discepoli che sono chiamati a annunziarlo e a viverlo, ma forte per chi confida nel fatto che Gesù regna dall’alto dei cieli, attraverso la sua Parola e il suo Spirito.

La preghiera di Salomone termina con la richiesta a Dio di tenere gli occhi aperti sul suo tempio e di ascoltare le preghiere che il popolo gli rivolgerà, rivolti verso quel luogo. Possiamo chiedere anche noi la stessa cosa al Signore:
Tieni gli occhi aperti sul tuo povero mondo e sulla tua povera chiesa, che ti incontra nella tua parola e nel tuo Spirito. E ascolta le preghiere che i tuoi discepoli e le tue discepole ti rivolgono nel nome di quel Gesù che è tornato a te e che regna, nella sua parola e nel suo Spirito.
Ascoltali dal luogo della tua dimora nei cieli, dove accanto a te c’è il tuo figlio, che è il nostro Signore e salvatore; ascolta e perdona!