domenica 27 dicembre 2020

Predicazione di domenica 27 dicembre 2020 su Luca 2,25-38 a cura di Marco Gisola

 Domenica 27 dicembre 2020 – prima dopo Natale

Luca 2,(21) 25-38

21 Quando furono compiuti gli otto giorni dopo i quali egli doveva essere circonciso, gli fu messo il nome di Gesù, che gli era stato dato dall’angelo prima che egli fosse concepito. 22 Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore, 23 come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà consacrato al Signore»; 24 e per offrire il sacrificio di cui parla la legge del Signore, di un paio di tortore o di due giovani colombi.

25 Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest’uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d’Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; 26 e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. 27 Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, 28 lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo:

29 «Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola;

30 perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,

31 che hai preparata dinanzi a tutti i popoli

32 per essere luce da illuminare le genti

e gloria del tuo popolo Israele».

33 Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. 34 E Simeone li benedisse, dicendo a Maria, madre di lui: «Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione 35 (e a te stessa una spada trafiggerà l’anima), affinché i pensieri di molti cuori siano svelati».

36 Vi era anche Anna, profetessa, figlia di Fanuel, della tribù di Aser. Era molto avanti negli anni: dopo essere vissuta con il marito sette anni dalla sua verginità, era rimasta vedova e aveva raggiunto gli ottantaquattro anni. 37 Non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38 Sopraggiunta in quella stessa ora, anche lei lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme.



L’attesa è finita. Questo potrebbe essere il titolo di questo racconto. L’attesa è finita; il messia tanto atteso è giunto. Questo ci dicono questi due personaggi che Luca fa intervenire sulla scena quando Gesù viene portato al tempio di Gerusalemme per essere presentato, un uomo e una donna che compaiono qui e di cui poi non si parlerà più. Ma chi sono Simeone e Anna?

1. Sono due ebrei credenti, con una profonda fede nella venuta del messia, che attendono che si realizzino le promesse di Dio. Anzi: che attendavano che si realizzassero le promesse di Dio di inviare il messia, perché ora non lo attendono più, dato che lo vedono – il messia - in Gesù.

Simeone e Anna rappresentano l’Israele profondamente credente, in intensa attesa del messia. Sono nel tempio, luogo centrale e fondamentale del culto ebraico, la scena avviene nel cuore fisico e spirituale della fede ebraica, Anna sembra che viva nel tempio, qualcuno dice che forse faceva parte di una comunità femminile simil-monastica. In ogni caso vivono attendendo la venuta del messia.

2. Simeone e Anna sono nel cuore fisico e spirituale della fede ebraica, ma non sono persone che abbiano un potere o un ruolo particolare nella comunità ebraica. Sono persone che non fanno la storia, sono credenti molto ferventi e fedeli, ma sono persone comuni, sono appunto due persone che la Bibbia chiama per nome, senza titoli. Non fanno la storia che scrivono gli esseri umani, ma hanno un compito importante nella storia che Dio stesso scrive: quello di essere i primi a proclamare la venuta del messia.

3. Sono un uomo e una donna, e non è un dettaglio secondario, in una storia fatta quasi solo da uomini. E mentre Simeone è definito «giusto e timorato di Dio», quindi appunto un credente, uno che ci crede davvero, Anna è chiamata «profetessa», che non è un appellativo così scontato per una donna. In tutto l’AT sono solo quattro le donne chiamate profetesse (Miriam, Debora, Hulda, la moglie di Isaia).

Purtroppo mentre di Simeone ci sono riportate le parole che ha pronunciato, di Anna invece no, ci è solo detto che «lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme». Non ci sono riportate le parole che dice, ma Anna parla, parla del bambino Gesù, dunque predica, annuncia anche lei la venuta del messia, cioè: che il messia è venuto.

4. Sono due persone anziane, e anche questo non è scontato in una storia fatta anche qui prevalentemente da giovani. Anna e Simeone sono esseri umani che percepiscono che la loro morte non è molto lontana, e qui forse simboleggiano che Israele è alla fine dell’attesa, perché il messia è venuto.

O forse simboleggiano la saggezza e la profonda fede come possono avere solo persone che hanno creduto tutta la vita, o meglio, hanno vissuto tutta la loro vita credendo.


Questi i personaggi. Il nucleo del testo è il cantico di Simeone, che è il quarto canto che il vangelo di Luca ci presenta, dopo il cantico di Maria, il cantico di Zaccaria e il breve canto degli angeli nella notte di Natale. Qualcuno ha detto giustamente che il vangelo di Luca inizia cantando, perché nei suoi primi due capitoli contiene questi quattro canti.

Questo cantico è meno famoso, forse perché meno lungo di quelli di Maria e Zaccaria, meno esplicito nella lode e un po’ più malinconico, perché Simeone dice che ora Dio può lasciarlo andare, ovvero può morire, perché i suoi occhi hanno visto la salvezza.

Un po’ malinconico, certo, ma pensiamo alla portata e al significato di queste sue parole. Ora posso morire serenamente perché ho visto tutto quello che c’era da vedere. Ho visto il messia e questo mi basta, posso lasciare questa vita. È come se Simeone dicesse: non c’è altro che ho bisogno di vedere.

È quasi troppo questa affermazione, troppo perché possiamo condividerla così semplicemente. Chi di noi, anche i più anziani, non hanno ancora voglia di vedere qualcosa, i figli o i nipoti crescere, laurearsi, trovare lavoro… Simeone non avrà avuto il desiderio di vedere ancora qualcosa del genere?

Non dobbiamo pensare che Simeone non volesse bene a nessuno e che non desiderasse più nulla. La sua è un’affermazione di fede, non parla delle sue umane attese, ma della sua attesa di Dio, che supera tutte le altre attese.

Le sue parole esprimono questo paradosso della fede e lo esprimono non in astratto, ma nel concreto della sua vita e della sua morte, che non era lontana, ma per cui non era pronto. Ora è pronto perché ha visto il messia. Ha visto la promessa di Dio compiersi.

È questo infatti è il messaggio del testo: Dio ha mantenuto la sua promessa, il messia è giunto, non c’è più nulla da attendere.


Apriamo una parentesi su Giuseppe e Maria: Giuseppe e Maria dopo aver sentito il cantico di Simeone, «restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui». Non è sfiducia, è meraviglia, il che è ben diverso. Giuseppe e Maria sapevano che il loro figlio aveva un compito particolare datogli da Dio, ma probabilmente non si aspettavano che questo fosse riconosciuto pubblicamente da qualcuno quando il bambino era così piccolo.

È bella questa meraviglia che accompagna la fede. Una fede senza meraviglia, senza stupore è una fede a cui manca qualcosa, segnata dall’abitudine. Noi non siamo Maria e Giuseppe, il loro compito è unico nella storia, ma da loro possiamo imparare che Dio con la sua Parola, qui proclamata da Simeone, vuole stupirci, possiamo imparare che non c’è nulla di scontato quando si ha a che fare con Dio, che vuole sempre ancora sorprenderci.

Non mi fermo sulla parola rivolta da Simeone a Maria, una profezia dolorosa che dice che Maria parteciperà, da madre, al dolore del figlio, questo è probabilmente il senso della spada di cui parla Simeone.


Ma torniamo a Simeone: Dio ha mantenuto le sue promesse, il messia è arrivato, è qui, Simeone ce l’ha in braccio…

Però… non è ancora successo nulla! Gesù ha quaranta giorni di vita (era questo il tempo dopo cui una donna che aveva partorito doveva offrire il sacrificio per la sua purificazione), è un neonato, non parla, non cammina, non è ancora in grado di fare nulla… Non è ancora accaduto nulla, ma per Simeone è già accaduto tutto.

«I miei occhi hanno visto la salvezza»: che cosa vede Simeone? Un bambino, inerme, incapace di qualunque cosa e dipendente in tutto e per tutto dagli altri come tutti i bambini di quaranta giorni… Così piccolo che può tenerlo in braccio.

Non ha visto re, non ha visto cavalli e cavalieri, non ha visto forza, non ha visto prestigio, non ha visto ricchezza… Eppure Simeone sa che quello è il messia e che è lui la realizzazione delle promesse di Dio.

Ce l’ha nelle mani, come ce l’avranno nelle mani – in tutt’altro modo – coloro che lo manderanno a morire sulla croce. Vede un messia che si dà nelle sue mani, nelle nostre mani. E altre mani saranno molto meno tenere di quelle di Simeone.

Perché Gesù è segno di contraddizione, «posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele»: rubo l’esempio a un collega che tra i tanti segni di contraddizione che Gesù ha posto nel suo cammino cita il caso dell’adultera di Giovanni 8:

per la donna l’incontro con Gesù è stato il suo rialzamento, è stato ciò che ha fatto sì che potesse essere rialzata, che potesse vivere anziché morire; per gli uomini che volevano tirarle addosso le pietre e ucciderla Gesù è stato occasione di caduta, perché se ne sono dovuti andare con la coda tra le gambe.

Non è uguale essere da una parte o dall’altra, incontrare in Gesù la salvezza (come l’adultera) o la caduta come gli aspiranti giustizieri dell’adultera.

Ma torniamo al centro: Simeone e Anna vedono il compimento della promessa, la promessa è già compiuta in quel bambino, che è il messia, e che pure non ha ancora detto e fatto nulla. Ma è già compiuta, la salvezza è già venuta.

Davanti al “Già” compiuta, il “non ancora”, quello che ancora deve avvenire, diventa insignificante per Simeone e Anna. La promessa è già compiuta, il messia è già arrivato, la salvezza è già presente.

Questa è la fede di Simeone, che lo Spirito ha portato quel giorno nel tempio a prendere in braccio la sua salvezza, ed è la fede di Anna, che lo stesso Spirito – e non il caso - ha fatto sì che anche lei giungesse in quel momento per testimoniare di lui.

Questa è la loro fede, dono dello Spirito, per cui non hanno più bisogno di vedere nulla, perché hanno già visto tutto.

La Parola di Dio ci dice oggi che quel bambino, di cui abbiamo celebrato la nascita due giorni fa, è già tutto anche per noi. L’evangelo è davvero tutto lì in quel bambino inerme, in quel Dio fattosi uomo che si consegna nelle nostre mani per salvare e rialzare chi si affida a lui. Davvero per la nostra vita e la nostra fede in Gesù abbiamo già tutto.

venerdì 25 dicembre 2020

Predicazione di Natale 2020 su Giovanni 1,1-14 a cura di Marco Gisola

Giovanni 1,1-14

1 Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. 2 Essa era nel principio con Dio. 3 Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. 4 In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. 5 La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta.

6 Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli stesso non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. 

9 La vera luce che illumina ogni uomo stava venendo nel mondo. 10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l’ha conosciuto. 11 È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto; 12 ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, 13 i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio.

14 E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre.



«La Parola è diventata carne»: questo celebriamo a Natale, questo ci dicono i racconti a cui siamo così affezionati dei vangeli di Matteo e di Luca, con la mangiatoia, Giuseppe e Maria accanto al piccolo Gesù, gli angeli e i pastori, i magi, il re Erode che vuole uccidere Gesù appena è nato… 

Giovanni non ci racconta nulla di tutto ciò (e quindi possiamo dire: grazie a Dio che i vangeli sono quattro, perché abbiamo molto di più che se ce ne fosse uno solo…!). La storia del “Natale” del vangelo di Giovanni non inizia a Betlemme e non inizia duemila anni fa. Inizia nel cielo e inizia prima dell’inizio del mondo. 

La parola “Natale” va messa tra virgolette, ovviamente, perché Giovanni non racconta la nascita di Gesù, ma racconta – o meglio accenna in questa straordinaria poesia – l’incarnazione della Parola di Dio nella persona umana di Gesù di Nazaret.

E proprio questa Parola, ci dice Giovanni, era nel principio, potremmo dire prima del principio, c’era già ed era con Dio, ed era essa stessa Dio. Un’affermazione importantissima per la nostra fede. 

Dio si relaziona con il mondo e con gli esseri umani attraverso la sua Parola; tutto ciò che noi possiamo sapere di Dio e tutto ciò che Dio ci fa sapere di lui accade attraverso la sua Parola. Come possiamo conoscere Dio? Abbiamo solo un modo di conoscere Dio ed è quello che lui ha scelto, ovvero la sua Parola. 

Noi Dio non lo vediamo, non lo tocchiamo, ma lo ascoltiamo, lo possiamo ascoltare perché ha scelto di comunicare con noi, di rivelarsi come Parola. La Parola è Dio in relazione, ed è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Ed è così da sempre, ci dice Giovanni, e ce lo dice tutta la Bibbia; questa non è solo la fede cristiana, ma la fede ebraico-cristiana: Dio si rivela nella sua Parola. 

La Parola creatrice attraverso cui Dio crea il mondo, la Parola liberatrice dell’esodo, la Parola di giudizio e di salvezza dei profeti di Israele – questa Parola diventa carne, viene ad abitare un corpo esattamente uguale al nostro, diventa una vita umana, la vita di Gesù di Nazaret.

Egli ha vissuto una vita pienamente umana, e ne ha condiviso tutta la fisicità e tutte le emozioni: dolore e piacere, gioia e angoscia, allegria e rabbia, coraggio e paura. L’incarnazione è l’inizio di quel cammino che culminerà il venerdì santo con la croce. Un cammino percorso fino in fondo per amore: “Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio …” (3,16).

“Per l’essere umano non c’è altro volto di Dio all’infuori di quello di Gesù di Nazaret” ha scritto qualcuno commentando questi primi versetti del vangelo di Giovanni (J. Zumstein, Giovanni, vol. 1, p. 77). Non abbiamo bisogno di conoscere altro su Dio che quello che ci rivela Gesù di Nazaret. 

È umano farsi tante domande su Dio, perché Dio è per noi irraggiungibile, invisibile, ecc…  È umano farsi queste domande, ma non è indispensabile avere le risposte per credere. Per credere basta sapere quello che Dio ci viene a dire. 

Non è indispensabile sapere come Dio è in sé, è sufficiente conoscere la sua volontà così come ce la rivela Gesù, la sua parola incarnata.

«La Parola è diventata carne». In lui Dio ha preso su di sé l’umanità, e così facendo si è fatto fratello di ogni essere umano. Ogni nostro compagno e compagna in umanità diventa nostro fratello e sorella, perché Gesù si è fatto loro fratello. 

Nessun essere umano e nessun aspetto della nostra umanità sono esclusi dall’amore di Dio in Cristo e di conseguenza ogni essere umano e ogni aspetto della nostra umanità ci sono dati per essere amati anche da noi. 

Detto in altre parole: alla luce dell’incarnazione, il nostro amore per il prossimo non deve dipendere da altro che dalla sua umanità. Tutte le altre caratteristiche – provenienza, genere, ideali politici, anche la religione – passano in secondo piano. 

Questa è la sfida dell’evangelo dell’incarnazione: vivere cercando di mettere da parte giudizi e pregiudizi e guardare all’altro come colui che possiede la stessa umanità in cui la Parola di Dio si è incarnata, la stessa umanità di Gesù di Nazaret.

Non c’è dunque soltanto una fratellanza o sorellanza che nasce dalla fede in Gesù Cristo figlio di Dio e che coinvolge i credenti, ma anche una fratellanza o sorellanza che nasce dall’umanità di Gesù e che coinvolge tutti gli esseri umani.

«La Parola è diventata carne ed ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre».

La Parola di Dio fatta carne ha abitato tra noi, cioè in mezzo all’umanità, in Gesù di Nazaret «per un tempo», cioè dalla sua nascita, che celebriamo oggi, fino alla sua morte sulla croce, che ricordiamo il venerdì santo. 

La Parola di Dio fatta carne ha preso su di sé tutta la nostra umanità, con le sue gioie e i suoi dolori e ha condiviso il fatto che la nostra vita ha un termine. «Per un tempo» ha abitato tra di noi, e questo tempo non ha visto la sua conclusione per vecchiaia o per malattia ma per morte violenta, perché l’umanità lo ha rifiutato e crocifisso. 

Ma chi ha crocifisso Gesù ha ucciso la sua carne, ma non la Parola fatta carne, La Parola non la uccide nessuno, nel Risorto essa ha continuato a parlare e continua a parlare anche a noi.

La Parola fatta carne è «piena di grazia e di verità»: Gesù è venuto a dirci la verità su di noi e sulla nostra esistenza e la grazia è il contenuto della verità che è venuto ad annunciarci. 

La verità è la grazia ma anche il giudizio, la verità è che abbiamo bisogno della grazia per vivere e non solo sopravvivere, abbiamo bisogno della grazia per non essere schiacciati dal peso delle nostre colpe, che ci sono e non possiamo eliminare, e che solo la grazia di Dio può perdonare.

La verità è da un lato il giudizio: la Parola di Dio incarnata ci viene a dire che non siamo “buoni”, come spesso diciamo di essere, non siamo “innocenti” come spesso ci illudiamo di essere, non siamo “bravi credenti” come ci piacerebbe essere, perché spesso crediamo più in noi stessi che nella grazia di Dio.

Questa è la verità. Una brutta verità? Beh, il giudizio è la fotografia di ciò che siamo, è semplicemente la verità. Ma la verità di Dio non è mai senza grazia, la verità non è mai soltanto il giudizio, è sempre anche la grazia. 

Se la sua Parola ci mette a nudo (Ebrei 4,12), essa ci riveste anche con l’abito della grazia. La nostra nudità è la nostra verità, è quello che siamo; l’abito della grazia è quello che ci viene dato in dono dall’amore di Dio.  

Questa è la verità e la grazia di Dio, questa è la gloria di Dio che noi abbiamo «contemplato». E dove l’abbiamo contemplata? Che cosa abbiamo visto? Noi nulla, noi abbiamo solo i racconti dei testimoni.

E loro che cosa hanno visto? Hanno visto il neonato nella mangiatoia, hanno visto il torturato e il crocifisso, questo hanno visto perché è lì, nella mangiatoia e nella croce che si sono manifestate la grazia e la verità, dunque la gloria di Dio.

Solo gli occhi della fede vedono nel neonato e nel crocifisso la gloria di Dio, e andremmo fuori strada se pensassimo che la gloria di Dio si rivela solo nei miracoli e negli atti di potenza di Gesù. Quelli sono sì segni della sua gloria e soprattutto segni del suo amore, perché i miracoli hanno quasi sempre portato nuova vita a coloro che Gesù ha toccato con la grazia di Dio.

Ma la sua gloria c’è già tutta nella stalla di Betlemme, nella mangiatoia, e c’è tutta fino alla fine, nella passione e nella croce. Perché è la gloria della grazia, non la gloria del potere. È la gloria della verità, non la gloria del successo. È la gloria dell’amore, non la gloria del dominio. 

Non è la gloria di chi vince sugli altri, ma la gloria di chi vince per gli altri. E di chi vince non questo o quel nemico o avversario (e Gesù ne ha avuti molti) ma la gloria di chi vince anche per gli avversari e trionfa sull’ultimo nemico che è la morte.

Sì, noi l’abbiamo contemplata la sua gloria, la gloria dell’unigenito del Padre, di colui che Dio ha inviato in mezzo a noi come sua Parola incarnata. 

L’abbiamo contemplato non perché ci vediamo meglio degli altri, non perché siamo più bravi o intelligenti, ma perché Gesù è venuto ad aprirci gli occhi e continua a farlo nello Spirito che rende efficace la Parola letta, pregata e predicata, che annuncia la Parola incarnata.

Nell’essere umano Gesù c’è Dio, c’è tutta la gloria di Dio, tutta la verità su di noi, tutta la grazia che Dio ha pronunciato nella sua Parola incarnata, che nessuno può mettere a tacere e che continua a parlare al mondo e anche a noi. 

domenica 20 dicembre 2020

Predicazione di domenica 20 dicembre 2020 su Luca 1,26-28 a cura di Silvia Facchinetti

Luca 1,26-38

26 Al sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea, chiamata Nazaret, 27 a una vergine fidanzata a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria. 28 L'angelo, entrato da lei, disse: «Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è con te». 29 Ella fu turbata a queste parole, e si domandava che cosa volesse dire un tale saluto. 30 L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31 Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. 32 Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre. 33 Egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine». 34 Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?» 35 L'angelo le rispose: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà dell'ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio. 36 Ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese, per lei, che era chiamata sterile; 37 poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace». 38 Maria disse: «Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola». E l'angelo la lasciò.



Care sorelle e cari fratelli,

in quest’ultima domenica di avvento, il testo proposto per la predicazione è quello dell’annunciazione che, oltre a essere un testo cruciale del Nuovo Testamento, è anche un racconto molto poetico che ha ispirato nei secoli centinaia di artisti che l’hanno rappresentato in vari modi, ho scelto di mostrarvi molti dipinti suggestivi di varie epoche storiche accompagnati da una canzone e molti ancora ce ne sarebbero.

Credo che l’elemento comune che lega queste opere sia il tentativo di capire e rappresentare i sentimenti di Maria, che sono d’altronde anche presenti nel testo di Luca.

Ma c’è un’opera che non vi ho mostrato perché voglio farlo ora, che riprende in parte la visione di Maria che ha proposto De André nella Buona Novella basandosi sulle testimonianze dei vangeli apocrifi: un’opera letteraria, quella della scrittore portoghese José Saramago “Il vangelo secondo Gesù Cristo”.

Saramago immagina una Maria sedicenne, sposata a Giuseppe, la quale vive un’annunciazione particolare: riceve la visita di un angelo-mendicante che le svela che è rimasta incinta di Giuseppe e le lascerà una ciotola di terra luciccante segno della straordinarietà del bambino concepito.

La Maria di Saramago è molto realistica, conduce una vita tanto umile quanto dura, vive su di sè la subordinazione di potere e cultura che le impone la società patriarcale nella quale è nata, che la giudica inferiore, non la ritiene nè timorata né giusta perché le parole giusto e timorato nella lingua che parla semplicemente non hanno il femminile. Passa la giornata a svolgere i lavori di casa e poi va scalza al pozzo e a raccoglier legna, la notte adempie i suoi doveri coniugali in un modo quasi meccanico e distaccato, al mattino ringrazia Dio per averla creata così com’é, mentre il marito lo ringrazia per non averlo creato donna.

Possiamo immaginare che il racconto di Saramago non sia molto lontano dalla vicenda umana della Maria storica, della condizione di una donna ebrea nella società fortemente diseguale della Palestina di quel tempo.

La Maria di Saramago mi ha ricordato una serie tv che ho visto di recente, Unhorthodox, che mette in scena la vicenda di una donna appartenente alla comunità ebraica ortodossa di Brooklyn che vive una subordinazione simile e poi deciderà di lasciare il marito, la comunità, gli Stati Uniti e ricominciare gradualmente una vita libera in cui essere finalmente lei la protagonista delle proprie scelte.

Penso che queste storie lontane nei secoli ma non nelle emozioni e nelle esperienze vissute dalle donne, ci raccontino di un’oppressione di genere, che in modi differenti certo, ma anche oggi, in Occidente, nei nostri paesi, nelle nostre città, non è scomparsa del tutto.

Il tema della verginità stesso per secoli è stato uno strumento ideologico di controllo delle donne e del grande potere che scaturisce dal nostro ventre: quello di generare la vita.

In ambito cattolico nel culto mariano si è insistito molto su questo elemento: per definire Maria pura per eccellenza, è diventata La Vergine, che ha concepito senza essere contaminata dall’atto sessuale, concepita ella stessa in modo verginale secondo il dogma dell'immacolata concezione.

A me non dispiace immaginare la protagonista del nostro testo come la Maria di Saramago, e d’altronde la stessa analisi critica del testo ci dice che il termine vergine, con la quale viene presentata, parthénos, è la traduzione greca (nella versione della Bibbia in greco, la Settanta) di un termine che in ebraico significava semplicemente giovane donna.

Ma aldilà del dibattito sull’importanza della verginità di Maria, del tema del controllo della sessualità che tanta parte ha avuto nello sviluppo del cristianesimo, proviamo a concentrarci sui sentimenti di quella giovane donna, per nulla abituata a sentirsi considerata, degna di interesse, osserviamo la sua reazione alla notizia dell’angelo.

La vita di Maria, la sua dura quotidianità di donna, come tante altre, è stravolta infatti da un incontro.

L’angelo la visita e la saluta in modo particolare: nel testo italiano è tradotto “Ti saluto o favorita dalla grazia, il Signore è con te”, che sono proprio le parole che risuonano nella preghiera cattolica rivolta a Maria.

In realtà in greco il verbo è di forma passiva, a indicare che Maria è oggetto di grazia, la riceve da parte del Signore. Più in linea con il significato originario risulta la traduzione francese “Je te salue toi à qui une grace a été faite, le Seigneur est avec toi”.

A Maria viene donata la grazia da parte del Signore, il quale si propone come una presenza benevola che conosce e riconosce la giovane donna, le assegna un valore ed è al suo fianco.

Ella fu turbata”: inizialmente ciò che prova Maria è turbamento e l’espressione di Maria l’abbiamo vista in tanti dipinti: in alcuni sembra spaventata, si ristrae, si schernisce, è timorosa, vive questo stato emotivo di inquietudine a cui non sa dare ancora un segno preciso, positivo o negativo, si chiede appunto cosa stia succedendo.

La Parola di Dio che la raggiunge la sconvolge e le pone una domanda di senso. Cosa vuol dire questo saluto?

E’ come se il testo di Luca ci suggerisse Maria come esempio di credente, una credente che non rifiuta l’annuncio ma non è né incredula né ingenua, che non chiude la porta in faccia all’angelo ma che non crede acriticamente a ciò che le viene detto: lei s’interroga sul senso della chiamata che le è rivolta da Dio.

E’ turbata, non capisce, e proprio per questo chiede, entra in dialogo, richiede spiegazioni al messaggero del Signore anche solo con lo sguardo, con l'espressione del volto. Mi è piaciuta nei vari quadri anche la diversa rappresentazione dell’angelo: in alcuni aulico e ieratico, vestito di abiti sontuosi, arriva dall’alto, sovrasta Maria, in altri è al suo stesso livello, in altri ancora assume il corpo di donna, bello pensare a un messaggero al femminile, in un altro è solo una luce.

L’angelo rassicura Maria: “Non temere, dice perché il Signore ti ha già concesso la grazia e ti chiama ad accogliere la salvezza, anzi ti chiama a essere tu stessa protagonista del piano di salvezza, accogliendo il figlio di Dio nel tuo ventre, facendo nascere un grande re, colui che salverà tutta l’umanità.”

Ma ancora a Maria non basta questo per capire. Il turbamento si trasforma in stupore e, possiamo dire incredulità, rispetto a un messaggio così grande: perché proprio lei è stata scelta per dare alla luce un re così grande?

La fede di Maria è una fede adulta, che interroga e pone dubbi, che cerca di mettere in relazione il messaggio di Dio con la realtà che sta vivendo.

E noi donne e uomini di oggi non dovremmo forse fare altrettanto?

Cercare di superare l’incredulità e capire come il Signore, attraverso il testo biblico, parla alle nostre vite umane e provate con questo annuncio della nascita di un Dio che si fa bambino e uomo per darci la salvezza.

Oggi più che mai abbiamo bisogno, cari fratelli e sorelle, di riscoprire questo annuncio nella congiuntura pandemica mondiale che stiamo vivendo.

Oggi che quasi in ogni famiglia abbiamo vissuto esperienze dure e disperate di malattia, isolamento e mancato accompagnamento a persone care, abbiamo bisogno di sentire, di sapere che Dio è vicino a noi, che Dio sa cosa vuol dire vivere l’esperienza umana nel profondo di tutti i suoi sentimenti perché anche lui l’ha sperimentato in Cristo.

L’angelo allora continua a rassicurare Maria spiegandole che Dio interverrà e non la lascerà sola. Niente è impossibile a Dio che ha fatto avere un figlio anche a donne che erano sterili- Sara, come abbiamo sentito nel testo di Genesi, ed Elisabetta.

La parola di Dio è efficace e genera cose nuove, apre ciò che è chiuso come il ventre sfiorito di Elisabetta e riempirà di vita quello di Maria. La parola di Dio rassicura e propone una nuova strada da percorrere.

Alla fine Maria deve rispondere all’annuncio, scegliere se accettare o meno la chiamata.

E Maria, una donna come tante ma a cui il Signore ha dato la grazia, dopo aver ascoltato, chiesto, posto interrogativi, essere passata dal turbamento, allo stupore e al dubbio, accetta di mettere la sua vita a disposizione di Dio: “Ecco, la tua serva. Accetto di prendere parte al tuo progetto di salvezza per la mia vita e per tutti gli uomini e le donne del mondo. Sia fatta la tua volontà”

E allora proviamo fratelli e sorelle, come singoli e singole credenti, a essere come Maria in questo Natale che viene, proviamo ad ascoltare l’annuncio della nascita di Cristo, di colui che viene a portare la luce nelle tenebre e la salvezza nella paura e nella solitudine, e proviamo a metterci in dialogo con la Parola, con il testo biblico, con Dio nella preghiera, interrogandolo su come potrà avvenire questa salvezza nel concreto e nell’attualità delle nostre vite anche se ci sembra impossibile, su come anche noi possiamo partecipare a questo progetto di salvezza.

E come chiesa, proviamo a essere come l’angelo, capaci di portare il messaggio del Signore, di annunciare il Dio vivente che si fa carne, un messaggio di liberazione e salvezza, mettendoci in dialogo con chi ci sta di fronte, rassicurando il fratello malato, dando speranza alla sorella in ascolto.

In questo tempo di Avvento ci affidiamo a Te, Signore, rispondiamo come Maria: sia fatto secondo la tua parola.

Amen

lunedì 14 dicembre 2020

Predicazione di domenica 13 dicembre 2020 (terza domenica di Avvento) su Luca 1,67-79 a cura di Marco Gisola

Luca 1,67-79


Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò, dicendo:
«Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo,
e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo,
come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti;
uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano.
Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto,
del giuramento che fece ad Abramo nostro padre,
di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura,
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo,
perché andrai davanti al Signore per preparare le sue vie,
per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati,
grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio; per i quali l’Aurora dall’alto ci visiterà
per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte,
per guidare i nostri passi verso la via della pace».
in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita.



«Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele». Il brano di oggi è pura lode ed invita anche noi ad esprimere la nostra lode pura e semplice. All’espressione della lode «Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele», segue un «perché» e seguono tutte le ragioni per cui Zaccaria è spinto a lodare il Signore. Per che cosa Zaccaria loda il Signore, di che cosa lo ringrazia? Per la venuta di Gesù, ovviamente, di cui suo figlio, appena nato, Giovanni che sarà detto il battista, sarà il precursore, il profeta che andrà «davanti al Signore per preparare le sue vie».

Già, ma Gesù non è ancora nato! È appena nato Giovanni e la bocca di Zaccaria che era rimasta chiusa per lunghi mesi si è riaperta e Zaccaria ha potuto parlare, e le prime parole che Zaccaria pronuncia sono quelle di questo bellissimo inno. Ma Gesù non è ancora nato. Se tornate indietro di una pagina, vedete che anche Maria loda – anzi «magnifica» – il Signore prima che Gesù nasca, quando ha appena ricevuto l’annuncio dall’angelo.

Questi due personaggi delle prime pagine del vangelo di Luca lodano Dio per Gesù, prima che Gesù nasca, prima che Gesù venga. Si può lodare Dio per la venuta di Gesù prima che Gesù ci sia, si può lodare Dio per la venuta di Gesù senza “avere” ancora Gesù. Perché basta la promessa, basta l’annuncio che Gesù verrà, per lodare Dio. Maria e Zaccaria credono senza vedere, ma non come noi, che non abbiamo più visto Gesù perché siamo venuti dopo, ma perché sono venuti prima e non l’hanno ancora visto. La loro fede davvero riposa tutta e soltanto sulla promessa, sull’annuncio. Un bell’esempio di pura fede che porta alla pura lode.

E chi è Zaccaria? Zaccaria è un sacerdote di Israele, uno dei tanti che erano in servizio al tempio di Gerusalemme, a cui, insieme a Elisabetta sua moglie, è toccato un ruolo particolare nella storia di Dio con l’umanità: è appena diventato padre di Giovanni il battista, colui che precede e annuncia la venuta di Gesù. E in questo canto è lui stesso profeta, perché annuncia quello che sta per accadere, ciò che Dio ha già deciso e benedice Dio perché «ha visitato e riscattato il suo popolo e ci ha suscitato un potente salvatore nella casa di Davide suo servo».

Fermiamoci un attimo su un particolare, che però è importante: se noi non sapessimo che questo brano si trova in un Vangelo, se avessimo solo il cantico di Zaccaria e non sapessimo da quale libro della Bibbia è tratto, dalle parole di Zaccaria non potremmo capire se siamo nell’Antico o nel Nuovo Testamento

Zaccaria canta e loda con il linguaggio e nel modo tipici dell’AT, il suo è un vero e proprio salmo, densissimo e ricchissimo di contenuti, un salmo in cui è espressa e lodata la fedeltà di Dio alla promessa che ha fatto ai padri e che esprime nella sua misericordia.

D’altra parte il nome che Zaccaria ed Elisabetta danno al loro figlio (in questo caso non è solo il padre a dare il nome al figlio, anzi, qui è prima la madre a dare il nome perché Zaccaria è muto!), il nome Giovanni, significa “Dio fa grazia”.

Il pastore Daniel Attinger, monaco di Bose e biblista, nel suo commento al vangelo di Luca scrive che il Cantico di Zaccaria appare “come la benedizione pronunciata dalla chiesa sull’Antico Testamento”. In una delle prime pagine del Nuovo Testamento c’è questa benedizione della chiesa sull’AT; potremmo definirla uno sguardo benedicente all’indietro e in avanti al tempo stesso. Perché Zaccaria guarda indietro e vi scorge le promesse che Dio ha fatto ai padri; e guarda avanti, perché queste promesse si compiono in Gesù che sta per nascere.

Zaccaria guarda indietro e vi vede la grazia di Dio che ha accompagnato il popolo d’Israele fino a quel momento e vede la promessa del messia; guarda avanti e vi vede ancora la grazia di Dio che realizza in Gesù questa promessa e che accompagnerà tutti quelli che crederanno in Cristo. Lo stesso Dio e la stessa grazia, che si è manifestata tante e tante volte e ora si manifesta nella venuta del figlio stesso di Dio.

Qualcuno ha detto che i racconti evangelici della nascita di Gesù sono una cerniera tra l’Antico e il Nuovo Testamento e mi sembra una bella immagine, perché una cerniera unisce due parti che sono distinte, che rimangono distinte e unite allo stesso tempo.

E d’altra parte senza Antico Testamento non esisterebbe il Nuovo, senza Israele non sarebbe esistito Gesù Cristo, non ci sarebbe cristianesimo, noi non saremmo cristiani e non saremmo qui stamattina. Israele è il tronco, come dice Paolo, da cui Cristo è nato e su cui noi siamo stati innestati.

Proprio perché questo inno è molto ricco, vorrei fermarmi solo su una affermazione, la prima frase cantata da Zaccaria: «Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo».

Visitare e riscattare sono i due verbi che l’AT usa per parlare degli interventi liberatori di Dio. Il Signore «visita» Sara, moglie di Abramo e la libera dalla sterilità, cosicché ella possa concepire un figlio. Visita poi il suo popolo schiavo in Egitto e lo libera dalla schiavitù. Ogni “visita” del Signore è una liberazione.

E riscattare era il verbo tecnico con cui si indicava l’azione di pagare i debiti di qualcun altro che non può pagarli. Dio riscatta il suo popolo che non può salvarsi da solo, in Gesù riscatta tutti noi che non possiamo salvarci da soli. Riscattandoci ci libera da coloro a cui siamo debitori e ci rende suoi.

E alla fine del suo inno Zaccaria usa di nuovo il verbo “visitare”: «l’Aurora dall’alto ci visiterà». L’aurora dall’alto è Gesù, che viene dall’alto, cioè da Dio, è lui che Dio manda a visitarci, anzi in Gesù è Dio stesso che viene a visitarci.

Gesù ha visitato il suo popolo e anche persone che non ne facevano parte, e ogni visita è stata davvero una liberazione, dal male fisico e morale, da schiavitù che tenevano prigioniero il corpo o la mente, dal peccato che tiene prigioniero tutto il nostro essere. E le persone che sono state da lui visitate sono state liberate, perdonate, guarite e hanno iniziato una vita nuova.

In Gesù Dio viene a visitarci di persona, nella persona del suo figlio, dunque in una persona ben precisa, con un volto – che non conosciamo più – con una voce – anche questa non ne abbiamo nessuna registrazione… - una persona che ha compiuto gesti e detto parole ben precise, e queste invece le conosciamo grazie alla testimonianza degli apostoli.

Viene a visitarci, sì, viene a visitare anche noi, ogni volta che ci mettiamo in ascolto della sua parola, perché è la sua parola che perdona che ci libera dal peso del peccato, è la sua parola che converte che ci libera dall’ingiustizia che commettiamo se lasciati a noi stessi, è la sua parola che guarisce che può aiutarci a risanare le relazioni ferite.

Questa «Aurora dall’alto» viene a visitarci «per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace». L’alba sorge e rompe il buio, e il giorno che la luce di Gesù ha iniziato non tramonta più.

Gesù viene per quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, la morte fisica, che ha toccato così tante persone in questo triste anno e la morte spirituale e morale che ognuno di noi rischia di sperimentare.

Davvero possiamo unirci anche noi alla pura lode di Zaccaria e dire con lui “benedetto sia il Signore, il Dio di Israele» e padre di Gesù Cristo, che in Cristo ci ha visitati, che in lui ha fatto sorgere l’aurora della speranza sulla nostra esistenza, e che continua a visitarci nella sua Parola.


lunedì 7 dicembre 2020

Predicazione di domenica 6 dicembre 2020 - rielaborazione degli interventi delle pastore Letizia Tomassone e Lidia Maggi pubblicate sul quaderno della FDEI in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre 2020)

GENESI 1,26-31

Poi Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbiano dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l'uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra». Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento. A ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo e a tutto ciò che si muove sulla terra e ha in sé un soffio di vita, io do ogni erba verde per nutrimento». E così fu. Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. Fu sera, poi fu mattina: sesto giorno.



GALATI 3,26-31

[…] siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù. Se siete di Cristo, siete dunque discendenza d'Abraamo, eredi secondo la promessa.



                                                        MATTEO 5,20-24

Poiché io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel regno dei cieli.

«Voi avete udito che fu detto agli antichi: "Non uccidere: chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale"; ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: "Raca" sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: "Pazzo!" sarà condannato alla geenna del fuoco. Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all'altare, e va' prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta.



Una sedia vuota, con appoggiato un capo di abbigliamento femminile, rosso, e una borsetta, occupa un posto in molte delle nostre chiese. Un gesto simbolico, nominato come “il posto occupato”, pensato da sorelle e fratelli consapevoli che il fenomeno della violenza contro le donne riguarda tutti noi.

La violenza è un ingrediente che non vorremmo trovare nello spazio della fede, eppure la Bibbia, proprio nel raccontare la fede di un popolo chiamato ad essere benedizione per gli altri popoli, la mette insistentemente in scena, quasi un controcanto alla storia della salvezza: non solo la violenza subita da un popolo nomade, precario, chiamato di continuo a fare i conti con l’ostilità e la diffidenza dei popoli che incontra nel suo peregrinare; ma anche la violenza messa in atto dagli stessi figli di Israele, quella che rimarrebbe nascosta se la narrazione non si insinuasse, come uno soffio di vento (anche questo è lo Spirito) nelle fessure delle porte chiuse per farci ascoltare, vedere, sapere e riflettere.

La Scrittura non ritiene che basti negare o rimuovere la violenza per poterla superare. Al contrario, va narrata, ricordata, denunciata, per permettere a chi legge di riconoscerla ed elaborarla. Sorvolare sulle pagine violente della Bibbia per frequentare solo quelle che narrano storie edificanti significa banalizzare il male, sottraendosi a quella radicale intelligenza dell’umano che osa guardare l’abisso del cuore. Significherebbe non avere occhi per vedere un problema sociale che segna tutte le relazioni, anche – purtroppo - le più intime. Le donne, come parte più debole della società, sono il metro di misura della decadenza e della corruzione di una società.

Le figlie di Lot, offerte alla folla perché fosse placata la violenza dei sodomiti, la figlia di Jefte, sacrificata per un voto, Dina, violentata da Sichem, Tamar, violentata dal fratellastro. E tante altre donne senza nome vittime di abusi e prevaricazioni nelle guerre tra Israele e i popoli confinanti.. Dov’è Dio in queste storie? Non parla, non agisce. E’ silente. Come queste donne, anche Dio viene usato, abusato dai figli di Giacobbe per compiere il male. Per difendere il nome di Dio si sono commesse guerre e genocidi.

E si continua ancora oggi a farlo. Non per mano di barbari, ma come mossa astuta del popolo eletto; non altrove, ma qui da noi, in nome della nostra fede. Dio rimane muto, ma il fatto che queste storie siano giunte fino a noi, come Parola di Dio, ci può far scorgere la sua presenza proprio nel tenere viva questa memoria: una narrazione che parla degli orrori di un popolo dimentico della Torah.

La parola di Dio, che si fa carico di custodire una memoria scomoda, è un grido che non si limita a rompere il silenzio per denunciare i responsabili di atti violenti, ma vuole anche essere un monito per prevenire violenze future. E’ un segnale di pericolo che mette in guardia dall’abisso del cuore umano.

Riconoscere e fare memoria quindi, per riportare alla luce è il primo passo per un cammino di perdono, gli uni verso le altre ma anche verso se stessi. In gioco, dunque, non c’è solo un problema di giustizia, di denuncia sociale, ma anche la possibilità di vivere relazioni felici, sane, liberandoci da tutto ciò che può deformare l’amore e la cura.

Come chiese predichiamo amore e perdono, ma le nostre parole sulla necessità di perdonare possono essere difficili da ascoltare per una persona che è stata ferita gravemente: perché il perdono può anche essere anche un concetto ambiguo e difficile, può trasformarsi in un mezzo di umiliazione di chi è schiacciata in una sorta di mantenimento dello stato delle cose: il violento perdonato viene riammesso nella sua posizione e velocemente riprende il suo comportamento violento.

Questo tipo di perdono non è trasformativo bensì umiliante e legittima le gerarchie fra le persone, legittima la società violenta.

Non è questo il perdono di cui parlano le Scritture e Gesù stesso.

È necessario essere consapevoli che il perdono è un processo che richiede tempo e preghiera. Ci possono volere anni e decenni per arrivare a un perdono che permette alla ex vittima di lasciar andare quanto accaduto, di far sì che la violenza passata non incida più sulle sue relazioni nel presente, di lasciar guarire le ferite fino a che non siano più che una cicatrice. È un processo che fa uscire dal condizionamento che il passato opera sul presente, e permette a chi è sopravvissuta agli abusi di vivere esperienze di gioia nonostante la memoria del male.

Noi siamo chiamati quindi a questo: essere attenti a chi scompare nel silenzio, interrogarci tutti e tutte per portare alla luce le nostre stesse oscurità, promuovere cammini di consapevolezza e di perdono.

Siamo certi infatti, perché abbiamo fede nel Signore, che la sua opera trasforma il male e la violenza: sia quella subita che quella compiuta, per cammini a volte tortuosi e misteriosi

In Isaia 53,7 leggiamo: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Come l’agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca”.

Apparentemente questo testo ci parla di accettazione passiva dell’abuso e della violenza, ma in realtà, di chi parla qui il profeta? Del Servo del Signore, di quella figura messianica che trasforma una realtà di miseria e oppressione, resistendo, per ottenere un bene più grande, in questo caso la benedizione di Dio e la giustizia per molti (v. 11). Il canto del Servo non è certo un invito a tollerare la violenza, quanto un invito alla speranza nell’opera di Dio che salva e apre prospettive diverse e più ampie per tutte le generazioni.

Quando predichiamo il perdono, conosciamo la distanza tra il perdono di Dio che tutto abbraccia e che ci restituisce dignità di creatura amata, e il nostro perdono, che è una forza nella relazione, ma resta limitato perché umano e richiede lo sforzo continuo di cambiare prospettiva e posizione.

Si tratta certamente della risorsa più grande che riceviamo nel donarsi di Gesù, che tutte e tutti perdona e a tutti e tutte chiede di perdonare, grazie alla forza della resurrezione, del passaggio dalla morte alla vita.

Per concludere, perdonare non è una virtù imposta al credente, ma uno stile di vita da discepolo o discepola in cui vanno insieme perdono ricevuto e dato, riconciliazione e capacità di sottrarsi e di opporsi alla violenza. È la ricerca continua di vivere il vangelo di Gesù Cristo, che giorno dopo giorno trasforma le nostre relazioni, condanna ogni forma di violenza domestica e sociale, ogni abuso del corpo e della coscienza, ma infine salva e solleva chi ha subito la violenza e porta lei o lui a uscire dal silenzio e dall’invisibilità.

Il perdono apre il cammino alla speranza.


domenica 29 novembre 2020

Predicazione di domenica 29 novembre 2020 (1 di avvento ) su Matteo 21,1-11 a cura di Marco Gisola

 1 Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero a Betfage, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, 2 dicendo loro: «Andate nella borgata che è di fronte a voi; troverete un’asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e conduceteli da me. 3 Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà». 4 Questo avvenne affinché si adempisse la parola del profeta: 5 «Dite alla figlia di Sion: "Ecco il tuo re viene a te, mansueto e montato sopra un’asina, e un asinello, puledro d’asina"». 6 I discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato; 7 condussero l’asina e il puledro, vi misero sopra i loro mantelli e Gesù vi si pose a sedere. 8 La maggior parte della folla stese i mantelli sulla via; altri tagliavano dei rami dagli alberi e li stendevano sulla via. 9 Le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: «Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!». 10 Quando Gesù fu entrato in Gerusalemme, tutta la città fu scossa, e si diceva: «Chi è costui?» 11 E le folle dicevano: «Questi è Gesù, il profeta che viene da Nazaret di Galilea».



«Chi è costui?» questa è la domanda che il testo di oggi ci pone. «Chi è costui?» chi è Gesù? Il testo che ci è proposto per questa prima domenica di avvento è un testo che non ci parla della venuta di Gesù nel mondo, ma della venuta di Gesù a Gerusalemme, dell’avvicinarsi di Gesù alla sua passione. L’ingresso a Gerusalemme è l’inizio della fine, è l’ultima tappa, la più dura del cammino di Gesù verso la croce.

Il nostro lezionario mette insieme, potremmo dire incrocia, l’inizio e la fine. Incrocia la nascita di Gesù con la sua morte, o almeno con quello che prelude, che prepara la sua morte sulla croce.

Perché questa scelta? Forse perché si vuole mostrare la coerenza dell’inizio della storia di Gesù con la sua fine. La coerenza e la continuità che legano la mangiatoia di Betlemme alla croce di Gerusalemme. Questa coerenza è la coerenza della rivelazione di Dio in Cristo, è la coerenza del “come” Dio ha voluto rivelarsi nella persona di Gesù di Nazaret.

E questa coerenza sta in due affermazioni che accompagnano Gesù dall’inizio alla fine: la prima è che Gesù è il re, ovvero il messia: lo dice in questo racconto la folla, citando il profeta Zaccaria: «Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te». E lo dicono i magi quando cercano Gesù e dicono «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo» (Matteo 2,2).

All’inizio e alla fine Gesù è proclamato re, all’inizio dai magi d’oriente, alla fine dalla folla dei pellegrini che sale a Gerusalemme.

E la seconda affermazione è che questo re è mansueto ed umile: dalle condizioni in cui nasce – la stalla o grotta di Betlemme a, di nuovo, la profezia di Zaccaria: «Ecco il tuo re viene a te, mansueto e montato sopra un’asina».

L’asino è la cavalcatura scelta da Gesù, è l’animale che veniva usato per viaggiare e per lavorare, dalla gente comune, era una risorsa preziosa dunque per viaggiatori e per contadini. Era l’animale del tempo di pace, mentre il cavallo è l’animale che si usa per fare la guerra.

Un re nell’antichità – ma pensate ancora a Napoleone due secoli fa – era non solo colui che comandava su un popolo, ma colui che guidava il suo popolo in guerra, era il capo dell’esercito. Inoltre, un re ha un palazzo e una corte.

Gesù è un re che cavalca un asino (che non è nemmeno suo, lo ha preso in prestito...), che non ha un palazzo e nemmeno una casa, ma è perennemente viandante, che non ha un esercito e come “corte” ha i suoi sgangherati dodici discepoli, e come unica arma la sua Parola.

Un re è colui che dispone della vita e della morte dei suoi nemici e persino dei suoi sudditi. Gesù è il re che dà la sua vita non solo per i suoi “sudditi”, che non ha – ma diciamo per i suoi amici – ma darà la sua vita persino per i suoi nemici.

La tentazione è quindi di dire: allora Gesù è un finto re. I veri re sono qualcos’altro, quelli che appunto comandano e guidano il popolo in guerra, uno che non comanda, non ha un palazzo e una corte, che non guida il popolo in guerra non è re.

E invece no: Gesù non è un finto re, è un vero re. È anzi il vero re. È un re umile e mansueto, così umile che – come dice la lettera ai Filippesi – non ha considerato disdicevole prendere su di sé l’umanità ed abbassarsi così tanto fino alla morte sulla croce. Così umile che è nato in una stalla. È così umile e mansueto ma è re.

Dobbiamo tenere insieme queste due cose, altrimenti perdiamo un pezzo di Gesù, o meglio perdiamo un pezzo costitutivo della nostra fede.

Se Gesù fosse solo mansueto e non è re, sarebbe un bellissimo esempio di un’umanità mite e generosa, pacifica e nonviolenta – e ce ne vorrebbero tanti di esseri umani così! - ma non sarebbe il nostro Signore. Sarebbe uno di noi, un po’ meglio o molto meglio di noi, ma uno di noi. Non sarebbe il figlio di Dio che il Padre ha mandato nel mondo.

E se Gesù fosse solo re e non mansueto, di nuovo non sarebbe il figlio di Dio che il Padre ha mandato nel mondo, perché Dio ha scelto di rivelarsi proprio così, proprio come re mansueto, ha deciso proprio di regnare attraverso la mansuetudine di Gesù, che si è fatto così umile fino a donarsi per noi, e d’altro canto ha proprio scelto di regnare davvero attraverso la mansuetudine di Gesù.

Perché la mansuetudine di Gesù, ovvero la grazia di Dio, l’amore che Dio ci ha manifestato in Gesù, ha il potere di trasformare i cuori e le coscienze, ha il potere di indicare nuove strade all’umanità, strade su cui si può scegliere la riconciliazione anziché il rancore, il servizio anziché il dominio, il dono anziché il possesso.

Ha questo potere questo re mansueto, potere che non si impone ma si propone, che non costringe ma vuole convincere, cioè convertire. E che può essere respinto, come è avvenuto pochi giorni dopo, quando la stessa folla che qui grida “osanna!” griderà “Crocifiggilo!”. Quindi è mansueto ed è re. È re ed è mansueto.

Forse la parola “re” non ci piace, non piace nemmeno a me, non la usiamo quasi mai nella nostra liturgia, preferiamo invocarlo come “Signore”, ma in fondo è la stessa cosa.

E sappiamo che di Dio si può parlare solo per immagini e per metafore e questa immagine del re esprime bene la relazione che può esserci tra noi e Dio, ci dice che lui è lassù e noi quaggiù (anche lassù e quaggiù sono metafore, ovviamente), e che noi da quaggiù non possiamo salire lassù, e dunque, in Cristo, lui è sceso in mezzo a noi, per regnare.

Per regnare senza palazzo, senza trono, senza corte, senza esercito, ma a regnare, su di noi che siamo i suoi sgangherati e contraddittori discepoli e discepole di oggi. A regnare con l’unica arma che continua ad avere: la sua parola.

C’è ancora una cosa che possiamo aggiungere a proposito della folla: la folla fa proprio quell’errore che dicevamo prima: vuole un re, un re tradizionale, non il re mansueto che è Gesù. Lo acclama, sì, con le parole di Zaccaria, che parla del re mansueto, ma poi vuole un re vero secondo i criteri umani, non un re vero secondo Dio.

Vuole un re che instauri un regno, che cacci i romani, vuole un re che trionfi. Gesù non instaurerà un regno, non caccerà i romani, non trionferà ma – ad occhi umani – soccomberà. Il suo trono sarà la croce. Il suo “potere” sarà manifesto solo a Pasqua, ma anche lì solo a coloro a cui il risorto vorrà rivelarsi. Non sarà evidente a tutti.

Ma anziché criticare la folla, dobbiamo imparare a non fare lo stesso errore. La folla riconosce in Gesù il messia, il re e il profeta, ma non il messia e il re che Dio ha mandato in Gesù. Cioè si può dire la cosa giusta e pensare e credere quella sbagliata.

Si può acclamare la mansuetudine di Gesù ma desiderare il trionfo di Gesù; e chi desidera il trionfo di Gesù, desidera in fondo il proprio trionfo.

Si può dire la cosa giusta e pensare e credere quella sbagliata. E dunque non riconoscere chi è veramente Gesù.

Chi è costui? Questa è la domanda che ci pongono i vangeli e tutto il Nuovo Testamento dalla prima all’ultima pagina.

Anche il neonato Gesù di cui attendiamo la venuta in questo tempo di avvento è il re. Re mansueto, debole, in pericolo appena nato, a causa della gelosia del “vero” re secondo gli esseri umani, Erode.

Questo re mansueto desidera regnare su di noi e per farlo ha percorso la strada fino alla croce. Lo ha fatto per noi, per la folla che lo acclamava, l’ha fatto anche per la folla che gridava “Crocifiggilo!”, ed anche per chi lo ha crocifisso.

Il re mansueto è il re crocifisso, è il re nato non nel palazzo di Gerusalemme ma nella stalla di Betlemme. Questo re desidera regnare su di noi; e poiché non è il re che la folla voleva ma è il re che Dio vuole non ci chiama sudditi, ma ci chiama amici e ci chiama fratelli e sorelle.

Vuole regnare su di noi con la sua parola e ci chiede di seguirlo per fede sulla strada della mansuetudine, non ci dona potere e non ci dona trionfi, ma ci dona amore e ci dona speranza. Ecco chi è costui.