lunedì 28 settembre 2020

Predicazione di domenica 27 settembre 2020 su 2 Timoteo 1,7-10 a cura di Marco Gisola

2 Timoteo 1,7-10

7 Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo. 8 Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio. 9 Egli ci ha salvati e ci ha rivolto una santa chiamata, non a motivo delle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la grazia che ci è stata fatta in Cristo Gesù fin dall'eternità, 10 ma che è stata ora manifestata con l'apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo



Non vergognarti di testimoniare Gesù Cristo e soffri per l’evangelo! Queste le parole che l’apostolo Paolo rivolge a Timoteo, suo allievo e collaboratore. Deve essere un momento difficile per Timoteo e per le comunità cristiane di questo periodo, le ostilità, se non vere e proprie persecuzioni, sono quotidiane.

La tentazione di chiudersi in se stessi per evitare difficoltà e sofferenze è molto umana e anche comprensibile. Ma – dice Paolo – Dio ci ha rivolto una santa chiamata, la chiamata a vivere e ad annunciare il suo evangelo, la buona notizia della grazia di Dio, che in Gesù Cristo ha distrutto la morte. Questa fede è quindi più forte delle sofferenze e della paura di soffrire. Anche Timoteo ha evidentemente paura di soffrire, che è una cosa molto umana. E quindi Paolo lo incoraggia, facendo appello alla vocazione che gli è stata rivolta e alla vittoria di Gesù sulla morte.

Qui siamo alla seconda generazione cristiana, ma è una situazione in cui si trovano più o meno tutte le generazioni cristiane: il dover scegliere se vivere la loro fede in modo privato o pubblico, se la fede vada vissuta – per così dire - in salotto o in piazza, se il cristianesimo sia una casa confortevole dove ci si trova tra amici o una frontiera dove si incontrano le altre persone, che magari sono diverse da noi. In altre parole: se stare soltanto dentro, oppure anche fuori. Abbiamo certo bisogno di un “dentro”, di una casa in cui trovarci per leggere insieme la Bibbia, pregare e discutere. Abbiamo bisogno di sostegno reciproco e di consolazione. Abbiamo bisogno di rinforzare la nostra fede e la speranza e l’amore che ne nascono. Ma non si può stare sempre dentro: «Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore». C’è una santa chiamata a cui bisogna rispondere. Non con presunzione o con arroganza, ma nemmeno con timidezza, perché lo Spirito che il Signore ci dona è di forza, d’amore e di autocontrollo.

La nostra testimonianza al Signore passa attraverso la forza, l’amore e l’autocontrollo. La forza, di cui Paolo parla a Timoteo, è la forza di resistere al male e di non soccombervi; non è la nostra forza, ma é la forza che viene dall’evangelo o dallo Spirito stesso, potremmo quasi dire che è la forza dei deboli, perché è la forza che Dio dona a chi chiama e che non ha forza. È la forza di non rinunciare, di non rassegnarsi, di non spaventarsi davanti alle difficoltà e all’arroganza altrui. È la forza di non chiudersi dentro la casa, ma di uscire nella piazza. È la forza dell’amore.

E infatti dopo la forza, Paolo menziona l’amore. La forza a cui esorta Timoteo non è forza senza amore, ma è la forza dell’amore. Quale migliore testimonianza dell’amore? Ma anche qui non è in primo luogo il nostro amore, l’amore di cui noi siamo capaci, ma l’amore che abbiamo ricevuto, di cui siamo stati amati da Dio. La nostra testimonianza al Signore non è in primo luogo “io ti amo”, ma “Dio ti ama”, la «santa chiamata» è la vocazione ad andare a dire al nostro prossimo “sei amato/a”, sei amato/a da Dio e per questo, per quel che posso e sono capace, anche da me, perché so che Dio ti ama. Ma non vengo a testimoniare me stesso, non vengo ad annunciarti il mio amore, che è debole e fragile e contraddittorio quanto il tuo, ma l’amore di Dio, che non viene meno, nemmeno quando non è ricambiato.

E poi l’autocontrollo (la Bibbia della Riforma dice: “assennatezza”). Forse non ci aspetteremmo di incontrare questa parola in una lettera apostolica. Che cosa avrà voluto dire l’apostolo con questa parola? L’apostolo invita forse a controllare le proprie emozioni? Penso piuttosto che sia un invito a non diventare orgogliosi, a non credere che – come dicevamo prima – si tratti della nostra forza e del nostro amore, ma un invito a testimoniare con sobrietà la forza del perdono e dell’amore di Dio. Non siamo noi al centro della nostra testimonianza, non testimoniamo di noi stessi, ma di Gesù Cristo. E non testimoniamo nemmeno della nostra chiesa o della nostra storia, ma – appunto - di Gesù Cristo. Per quanto amiamo la nostra storia e ci teniamo alla nostra chiesa non sono la storia e la chiesa al centro della testimonianza, ma solo Gesù Cristo come rivelazione di Dio.

Due dettagli di questo brano sono importanti: il primo è quando Paolo scrive «Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore» e aggiunge «né di me, suo carcerato». Sono importanti queste parole “suo carcerato” perché in realtà Paolo è stato incarcerato dai romani (qualcuno dice a Roma, ma non è rilevante dove). Nel secondo capitolo scrive infatti «io soffro fino ad essere incatenato come un malfattore» (2,9). E alcuni fratelli per questo lo hanno abbandonato, dice poco dopo, evidentemente qualcuno si vergogna del fatto che Paolo sia in prigione, o ha paura. Ed esorta Timoteo a non fare come loro, a non vergognarsi e non spaventarsi.

Quella frase “suo carcerato” riferita a Gesù, vuol quindi dire che Paolo, pur essendo materialmente incatenato dai romani, spiritualmente è carcerato di Gesù, è incatenato soltanto a lui e a nessun’altra catena. E chi è incatenato, legato a Gesù è libero. Le catene di Paolo non possono imprigionare la sua fede e non possono togliergli la sua vera libertà. Perché questa libertà gli è stata guadagnata dal salvatore Gesù Cristo, che ha vinto la morte.

L’altro dettaglio importante è il fatto che Paolo chiama Gesù “salvatore”, termine che per noi è scontato, usiamo questa parola per parlare di Gesù da quasi duemila anni. Ma ai suoi tempi non era consueto: “salvatore” per gli ebrei era Dio, che li aveva liberarti dall’Egitto e salvati infinite volte. E per i romani, che lo tenevano prigioniero il salvatore era Cesare, era l’imperatore. Questa frase “salvatore Gesù Cristo” inserita qui, dice quindi molto: le catene di Paolo gli sono state messe nel nome del salvatore Cesare, ma in realtà lui – benché sia in catene - è libero grazie al suo salvatore Gesù Cristo. Timoteo non deve vergognarsi di testimoniare questa libertà, libertà donata da Dio in Cristo, libertà grazie alla quale è libero anche chi è in catene per Cristo come Paolo.

Questa parola di Dio, questo invito, questa esortazione è rivolta oggi a noi: non vergogniamoci di testimoniare. Di testimoniare la libertà che Cristo ci dona, di testimoniare che è lui il salvatore e che non vogliamo affidaci ad altri sedicenti salvatori. Testimoniamo, non con presunzione, non con arroganza, non come quelli che hanno capito tutto, perché così facendo saremmo testimoni di noi stessi e non di Cristo e del suo evangelo. Testimoniamo invece con forza, perché la testimonianza dell’evangelo può causare ostilità e sofferenza, con amore, ovvero nel rispetto degli altri, e con autocontrollo per non cadere appunto nella presunzione.

Un’ultima cosa: abbiamo detto fin dall'inizio che Paolo incoraggia Timoteo a fare queste cose. Ciò vuol dire che Timoteo ha bisogno di essere incoraggiato. Non c’è nulla di male ad aver bisogno di essere incoraggiati. Persino uno stretto collaboratore di Paolo come Timoteo ne ha bisogno.

E anche noi abbiamo bisogno di essere incoraggiati, spinti, di essere aiutati a vincere le nostre ritrosie, le nostre paure, la nostra timidezza. Questo vuole fare oggi la Parola di Dio con noi: ci incoraggia ad affidarci a Gesù, nostro salvatore, che per noi ha vinto la morte e ci chiede di vivere per lui e con lui.

domenica 13 settembre 2020

Predicazione di domenica 13 settembre 2020 nell'ambito della Giornata di Fra' Dolcino su Luca 19,1-10 a cura di Marco Gisola

 

Biella, Margosio – 13 settembre 2020

festa di Fra’ Dolcino

Luca 19,1-10

1 Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. 2 Un uomo, di nome Zaccheo, il quale era capo dei pubblicani ed era ricco, 3 cercava di vedere chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura. 4 Allora per vederlo, corse avanti, e salì sopra un sicomoro, perché egli doveva passare per quella via. 5 Quando Gesù giunse in quel luogo, alzati gli occhi, gli disse: «Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua». 6 Egli si affrettò a scendere e lo accolse con gioia. 7 Veduto questo, tutti mormoravano, dicendo: «È andato ad alloggiare in casa di un peccatore!» 8 Ma Zaccheo si fece avanti e disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo». 9 Gesù gli disse: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abraamo; 10 perché il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto».



«il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto». Il testo biblico di oggi è un racconto che ci dice chiaramente che cosa è venuto a fare Gesù: a cercare e a salvare. A cercare e a salvare ciò che era perduto, ovvero chi era perduto, in questo caso Zaccheo. E, con Zaccheo, tutti e tutte noi. Cercare e salvare. Partiamo dal cercare. E partiamo dagli sguardi, dagli occhi dei personaggi di questo racconto; in ogni racconto che si rispetti – dalle fiabe ai grandi romanzi e vale anche per la Bibbia – i dettagli sono importanti.

Zaccheo vuole vedere Gesù; quali siano le sue intenzioni profonde il racconto non ce lo dice, se sia solo curiosità, se pensa che quell’uomo possa significare qualcosa per la sua vita… il testo dice solo che vuole vederlo, forse gli basta vederlo da lontano. Zaccheo è molto determinato, sale persino sopra un albero di Sicomoro, perché è basso di statura e c’è molta gente che impedisce al suo sguardo di arrivare dove vuole arrivare, cioè a Gesù. Comunque in questo voler “vedere” è lui, Zaccheo, il soggetto e Gesù è l’oggetto.

Gesù è l’oggetto del suo sguardo, è lui – Zaccheo - che decide che vuole vederlo e come vuole vederlo, forse, appunto solo vederlo, senza lasciarsi troppo interpellare da lui, vederlo un attimo mentre passa e via… Il testo dice «cercava di vedere chi era Gesù», chi era questo strano tipo che faceva parlare molto di sé, di cui si diceva che a volte condivideva la tavola con i suoi colleghi pubblicani, gli esattori delle tasse, che erano odiati dal resto della popolazione, perché lavoravano per conto degli occupanti romani, e si arricchivano sulla pelle del popolo.

Zaccheo poi era il capo dei pubblicani di Gerico ed era molto ricco, era potente e ricco e quindi molto odiato. Nessuno lo avrebbe fatto passare per permettergli di assistere al passaggio di Gesù, per questo sale sul sicomoro.

Ma il suo sguardo incontra lo sguardo di Gesù, o meglio: è trovato dallo sguardo di Gesù: «Quando Gesù giunse in quel luogo, alzati gli occhi, gli disse: “Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua”». È detto di passaggio, ma è un dettaglio importante: Gesù alza gli occhi e non lo fa per caso, non perché incuriosito da quell’uomo arrampicato su un albero… No, non è un caso, lo sguardo di Gesù cerca Zaccheo. «È venuto a cercare e salvare ciò che era perduto»…Lo chiama persino per nome: «Zaccheo scendi presto….!» Chi glielo aveva detto come si chiamava? Chi gli aveva detto che questo Zaccheo era sull’albero?

È chiaro che è un racconto che non è logico, ma teo-logico, che non segue la logica umana, ma la logica di Dio. Tu sei lì a cercare di vedere Gesù, per capire chi è, per decidere poi, forse, se ti interessa, se vuoi lasciarti coinvolgere, o se ti basta vedere che faccia abbia… e lui ti sorprende, ti chiama per nome, ti dice: io cercavo te! Altro che vedermi passare, altro che vedere chi sono…

No, non sei tu che vedi me, sono io che guardo te, che cerco te, che sono qui per te: «devo fermarmi a casa tua». Passiamo da un Zaccheo che voleva vedere Gesù a un Zaccheo che è guardato da Gesù, che è cercato da Gesù, il quale ora gli dice che vuole entrare in casa sua, cioè nella sua vita. Gesù vuole entrare nella casa e nella vita di un impuro, di un perduto. Di uno che voleva vederlo passare, per vedere chi fosse. E Gesù gli fa capire chi è: è colui che è mandato da Dio a cercare e salvare ciò che è perduto.

E Zaccheo scende subito e conduce Gesù a casa sua, dove lo accoglie con gioia. Di nuovo i dettagli sono importanti: la fretta e la gioia.

La fretta perché davanti a Gesù, davanti alla grazia non c’è tempo da perdere, non c’è da pensare. La fretta – Gesù che dice «scendi presto» e Zaccheo che scende effettivamente subito - esprime che quel momento è cruciale, unico. Ma non nel senso che bisogna fare in fretta, perché bisogna fare qualcosa in fretta, bensì nel senso che è già tutto stato fatto, che la grazia ha già fatto tutto, e si può – Zaccheo può – cominciare subito una vita nuova.

Zaccheo scende dall’albero diverso da come vi è salito, perché tra il momento in cui è salito e il momento in cui ne è sceso è stato trovato dallo sguardo di Gesù, è stato trovato dallo sguardo della grazia di Dio. È salito sull’albero un Zaccheo perduto, ne scende un Zaccheo ri-trovato, salvato. Perché Gesù è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto, e oggi è venuto per lui, per Zaccheo, che era perduto e ora è salvato, che il suo sguardo – lo sguardo della grazia di Dio - ha cercato, trovato, salvato.

E dopo la fretta la gioia. E qui entriamo nel secondo verbo importante: Gesù è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto: il primo frutto del salvare è la gioia di Zaccheo.

Gioia, perché è stato trovato; gioia, perché è stato salvato; gioia, perché davanti a lui si spalanca una possibilità nuova, impensabile fino a pochi minuti prima, impensabile prima che quello sguardo lo trovasse. Lo sguardo di Gesù, lo sguardo della grazia.

Gioia, perché Gesù entra in casa sua; nessuno entrava in casa sua, forse qualche collega pubblicano come lui, ma il resto del suo popolo non sarebbe mai entrato in casa sua; gli uomini di Dio, i “veri credenti”, non sarebbero mai entrati in casa sua, perché era un impuro, un perduto.

E infatti Gesù è criticato per il fatto di entrare in casa sua: «tutti mormoravano, dicendo: “È andato ad alloggiare in casa di un peccatore!”». Eh, certo, perché Gesù cerca e trova chi è perduto ed entra nella casa e nella vita dei peccatori.

Gioa, dicevamo, perché davanti a Zaccheo si apre una nuova vita, una nuova possibilità e questa possibilità si chiama giustizia. Se il primo frutto della grazia, dell’incontro con lo sguardo di Gesù, è la gioia, il secondo – ma bisognerebbe dire il primo a pari merito – è la giustizia.

Salvezza è giustizia. È anche molto altro, è anche appunto gioia, speranza, fede, amore… ma non si può prescindere dalla giustizia. Zaccheo era oggettivamente ingiusto, oggi sarebbe un piccolo mafioso, ricco e potente grazie alla sua ingiustizia.

La novità, il cambiamento, la conversione sta qui: nel rinunciare all’ingiustizia e nel praticare la giustizia. Nel restituire il maltolto: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo». E restituire il maltolto vuol dire implicitamente riconoscere la propria colpa e chiedere perdono.

Zaccheo è cambiato, quello sguardo lo ha trasformato tutto, nell’intimo (la gioia, la fede, la speranza…) ma anche nel portafoglio (la giustizia): non può più vivere e godere delle ricchezze ingiuste che ha accumulato taglieggiando la povera gente, deve restituire.

Questo racconto da un lato ci mostra ancora una volta come nella Bibbia la salvezza sia strettamente legata alla giustizia, cosa che spesso lungo i secoli si è dimenticata. E d’altro lato, ci dice che non vi è ingiustizia così grande – e quella di Zaccheo era grande – che lo sguardo di Gesù non possa trasformare.

Lo sguardo della grazia di Dio trasforma Zaccheo e lo converte dall’ingiustizia alla giustizia e trasforma anche noi e ci converte dall’ingiustizia alla giustizia. La giustizia è conseguenza della grazia, insieme alla gioia, alla fede, alla speranza e all’amore.

Che tutto ciò sia frutto dello sguardo di Gesù, che è venuto a cercare e salvare ciò che è perduto, che è venuto a cercare e salvare anche noi, è una cosa meravigliosa di cui possiamo essergli grati per tutta la nostra vita.

giovedì 10 settembre 2020

Domenica 13 settembre il culto si terrà nel corso festa di fra’ Dolcino e Margherita

 

CENTRO STUDI DOLCINIANI 

 

Via Vercellotto 3 13836 Cossato Bi

Tel. 015 94271 – 015 703465 e-mail perodijvalentin@libero.it

 

Festa di Fra Dolcino e Margherita 

2020

Piazzale Margosio lungo Panoramica Zegna Trivero Bi

 

Domenica 13 settembre

 

PROGRAMMA

 

Ore 10: Culto Valdese tenuto dal pastore di Biella Marco Gisola

 

Ore 11: Assemblea annuale del Centro Studi Dolciniani 

 comunicazione del segretario Piero Delmastro

relazione del presidente Aldo Fappani

apertura dibattito e intervento della 

scrittrice Alessandra Sebastiani

 

ore 12: salita al cippo sulla cima del Monte Mazzaro: tra bandiere e canti si terrà un breve discorso

 

ore 13: discesa all’Alpe Margosio per il pranzo, o appoggio presso il   chiosco per uno spuntino



In ottemperanza alle disposizioni vigenti, i partecipanti dovranno garantire il distanziamento interpersonale e adottare adeguate prestazioni individuali (mascherine)



lunedì 7 settembre 2020

Predicazione di domenica 6 settembre 2020 su Atti 16,23-34 a cura di Giuseppe Sgroi

Atti degli Apostoli 16,23-34

23 E, dopo aver dato loro molte vergate, li cacciarono in prigione, comandando al carceriere di sorvegliarli attentamente. 24 Ricevuto tale ordine, egli li rinchiuse nella parte più interna del carcere e mise dei ceppi ai loro piedi. 25 Verso la mezzanotte Paolo e Sila, pregando, cantavano inni a Dio; e i carcerati li ascoltavano. 26 A un tratto, vi fu un gran terremoto, la prigione fu scossa dalle fondamenta; e in quell'istante tutte le porte si aprirono, e le catene di tutti si spezzarono. 27 Il carceriere si svegliò e, vedute tutte le porte del carcere spalancate, sguainò la spada per uccidersi, pensando che i prigionieri fossero fuggiti. 28 Ma Paolo gli gridò ad alta voce: «Non farti del male, perché siamo tutti qui». 29 Il carceriere, chiesto un lume, balzò dentro e, tutto tremante, si gettò ai piedi di Paolo e di Sila; 30 poi li condusse fuori e disse: «Signori, che debbo fare per essere salvato?» 31 Ed essi risposero: «Credi nel Signore Gesù, e sarai salvato tu e la tua famiglia». 32 Poi annunciarono la Parola del Signore a lui e a tutti quelli che erano in casa sua. 33 Ed egli li prese con sé in quella stessa ora della notte, lavò le loro piaghe e subito fu battezzato lui con tutti i suoi. 34 Poi li fece salire in casa sua, apparecchiò loro la tavola, e si rallegrava con tutta la sua famiglia, perché aveva creduto in Dio.



Care sorelle e cari fratelli, il testo di oggi è un testo che ci racconta avvenimenti straordinari, al limite dell’incredibile; è pieno di paradossi, di domande, di certezze incrollabili e deboli sicurezze, fragili convinzioni pronte a cadere al primo scossone; e chiaramente è anche un testo dove si possono trovare delle risposte.

Proviamo allora a ripercorrere le tappe di questo racconto:

Paolo e Sila vengono arrestati e messi in prigione a causa della loro predicazione nella città di Filippi, in Grecia, dove in seguito una grossa comunità cristiana nascerà; e che fosse una grossa e importante comunità, è dimostrata dal fatto che, tra gli scritti canonici del NT, vi è una lettera di Paolo indirizzata proprio a quella comunità; una lettera piena d’affetto e di elogio in alcune sue parti.

Ma a quel tempo, la predicazione di Paolo e Sila, come abbiamo ascoltato nella lettura, e la loro azione nei confronti di alcune persone della città, “datori di lavoro” di un’indovina, che portava loro del guadagno con la sua arte divinatoria, aveva procurato dei tumulti tra i cittadini, ben fomentati dagli interessati; un po’ come accade oggi in certe situazioni sia sociali che politiche.

Proviamo dunque ad immaginare di ritrovarci in mezzo ad una folla inferocita che cerca di linciarci, ci vengono strappati i vestiti, veniamo malmenati con dei manganelli da parte di chi “amministra la giustizia”; immaginiamo di essere poi incatenati e messi in celle piccole, maleodoranti e magari sovraffollate; il sovraffollamento delle carceri è cosa antica, si potrebbe dire…..

Sembra un film dell’orrore, oppure una storia “politicamente orientata”.

Ma se solo pensiamo alle situazioni che accadono ancora oggi in diverse parti del mondo, anche nel nostro mondo, nel nostro occidente civile, basti pensare cosa sta accadendo in America, come dall’altra parte del mediterraneo e in tante altre parti del mondo, sono situazioni queste, ancora e purtroppo all’ordine del giorno; ancora oggi ai nostri giorni: ancora oggi soprusi, ancora oggi lager, ancora oggi persone ridotte in schiavitù, picchiate, stuprate, chiusi in luoghi sovraffollati, in “celle sicure” potremmo dire…. quando non sono uccise per strada…

Potremmo anche aggiungere che “è proprio bravo Luca a costruire storie verosimili alla realtà, anche dopo duemila anni...”

Noi, e per nostra buona sorte, solo con le parole, possiamo pensare di provare quella sensazione che Paolo e Sila provarono, come anche quella che i tanti “Paolo e Sila” dei nostri giorni, provano!

E allora una domanda che potremmo porci è: quale sarebbe la nostra reazione in una simile situazione? Quali sarebbero i nostri sentimenti?

La prima reazione e il primo pensiero sono quelli della paura, del terrore che scorrerebbe sulla nostra pelle; paura di essere torturati, paura per la potenziale perdita della nostra vita. Forse i più forti nella fede (come si diceva un tempo), in questo spavento, potrebbero ritrovare il conforto della preghiera; pregherebbero il buon Dio che faccia passare in fretta questo momento oscuro, chiederebbero la liberazione da una situazione oggettivamente complicata. Esattamente come fecero in fondo Paolo e Sila, pregavano e cantavano inni; un’immagine iconica e certamente molto bella.

Si! Cantavano, e questo è il primo dei paradossi che ritroviamo nel testo.

È facile cantare quando si festeggia con gli amici, magari dopo una bella serata passata in buona compagnia.

Ma chiaramente, cantare dopo essere stati malmenati ed essendo per conseguenza pieni di lividi, chiusi in una prigione con le catene alle caviglie, non è la stessa cosa.

Il testo dunque ci racconta, mettendola in risalto, la profonda fede e abbandono in Dio da parte di questi due uomini. D’altronde a quel momento Paolo e Sila non avevano alcuna idea di come si sarebbe potuta evolvere la situazione.

Dall’altra parte della storia abbiamo il carceriere, questa guardia penitenziaria, che vive anch’esso in prigione, forse la sua è una doppia prigionia: una prigione fisica, il suo luogo di lavoro; una prigione intima, quella dei propri sentimenti e della propria interpretazione della vita.

Lui era sicuro di ciò che deve esser fatto: obbedire senza alcun dubbio agli ordini ricevuti. Punto! Non ci sono difficoltà!

E quindi proprio per obbedire all’ordine di custodire bene questi uomini molto pericolosi, li rinchiude nella cella più sicura; per non sbagliarsi, li incatena. Ecco, semplice in fondo! Non è difficile obbedire agli ordini, è semplice, è chiaro, è sicuro! Gli ordini non si discutono né si giudicano, gli ordini sono fatti per essere eseguiti. Ed è ciò che il carceriere fa. In fondo è un atteggiamento antico ma sempre ripetuto per scaricare le proprie responsabilità: “ho eseguito gli ordini”, frase purtroppo tristemente famosa.

Nel confronto dunque, ritroviamo due certezze: quella di Paolo e Sila completamente basata su Dio e quella del carceriere, basata sugli ordini dei suoi superiori.

La parola del Signore rende libera l’umanità ed il primo elemento di questa libertà è proprio la fiducia in Dio, quella stessa fiducia che permette a Paolo e Sila, pur se malmenati e malconci, di cantare nel bel mezzo della notte. Al contrario invece, l’asservimento ai pensieri altrui, è rappresentato dalla rinuncia ad avere un proprio pensiero. Questa è la prigione dell’umanità!

Altro paradosso, anche se non molto dettagliato nel racconto, riguarda gli altri prigionieri; non è difficile pensare che, con molta probabilità, fossero sbalorditi di sentire cantare due uomini, prigionieri come loro e apparentemente senza speranza di poter uscire da quel luogo. Ma il vero elemento sensazionale, come vedremo, è rappresentato dalla mancata fuga di costoro: non scappano pur avendone la possibilità, secondo il racconto.

Ad un certo momento tutto cambia: arriva il sisma.

Una scossa talmente forte che persino tutta la struttura fu danneggiata e persino le porte delle celle, anche quelle ritenute più sicure, si aprirono!

Un terremoto che dà la possibilità d’avere uno sguardo differente sulla situazione, che riguarda tutte le persone del nostro racconto: Paolo, Sila, gli altri prigionieri e … il carceriere

L’improvviso accadimento dimostra tutta la debolezza degli elementi di sicurezza umani, come anche questa pandemia ci ha dimostrato: il carceriere pensa che i prigionieri siano scappati, il proprio onore di soldato, l’onore di colui che aveva sempre eseguito (e bene) tutti gli ordini che gli erano stati impartiti, è irrimediabilmente leso.

Questo lo rende pronto anche ad un atto estremo, il suicidio.

Ma è paradossale che, in tutta quella confusione, lui pensasse ai prigionieri che gli erano stati assegnati!

Ed è altrettanto straordinario che Paolo, in mezzo a quella confusione, comprenda ciò che il carceriere intende fare e si mette a gridare: “non farti alcun male, siamo tutti qui…”

Ebbene qui si produce il cambiamento nella visione del carceriere e la sua domanda è in fondo lo scopo dell’intero racconto: “cosa devo fare per essere salvato”. A quel punto, gli ordini per i quali prima era pronto a morire, non sono più importanti; un cambiamento totale s’è prodotto in lui, è cambiato radicalmente l’ordine delle sue priorità: la salvezza della sua anima! È questo l’imperativo; tutto il resto diviene secondario.

Certo si può supporre che forse, i canti di Paolo e Sila, abbiano prodotto un effetto pure nello stesso carceriere come negli altri carcerati.

La conversione, fratelli e sorelle, porta con sé la possibilità di un cambiamento radicale del modo di pensare, del modo di vedere la vita e gli avvenimenti che la vita stessa produce, a volte anche quelli imponderabili come un terremoto.

E tutto questo non viene da un obbligo, è spontaneo, è la fede che produce questo. Pensare in modo differente, è dunque la questione centrale!

Ma occorre chiedersi se qualcuno può oggettivamente definirsi alla sequela del Cristo risorto e allo stesso tempo, appiattire il proprio pensiero a quello comune, senza alcun senso critico. Spesso si assiste ad una “pubblicizzazione” della propria fede, anche tramite l’ostentazione di simboli religiosi vari e in parallelo viene accettato o utilizzato un linguaggio e un atteggiamento escludente, delimitante e indicante chi è diverso dalla maggioranza, additandolo. È possibile includere quest’atteggiamento nel quadro di un “cambiamento”? È identificabile come segno di “conversione”?

La paura delle sanzioni o della perdita dell’onore, porta il carceriere al suicidio esattamente come la paura del diverso, del critico, della voce fuori dal coro, la paura degli altri insomma, porta al suicidio di una società.

Conversione (μετάνοια in greco) non significa l’adesione a dei precetti definiti; significa piuttosto un cambiamento profondo del modo di pensare, di sentire, di valutare e giudicare ciò che ci circonda, compresa la nostra stessa visione della vita. La libertà in Cristo, porta dunque cambiamento, la libertà in Cristo, apre un mondo di possibilità e un mondo aperto alle possibilità: della vita, della gioia, dell’amore.

E questo è il significato del canto di Paolo e Sila nel bel mezzo della notte, una notte che poteva essere sorgente di grande tristezza, diventa invece una notte di liberazione, di gioia vera e d’amore.

È ciò che il carceriere sperimenta nella sua vita e a seguire, in quella della sua famiglia, proprio a partire dal terremoto che la conversione ha prodotto. Si!, è la conversione che produce un terremoto…. nella vita di ognuno e ognuna!

E il primo gesto del carceriere convertito, è quello di prendere con sé i prigionieri, di prendersi cura delle loro ferite, di condividere la tavola, il pane e il vino, per noi simboli della Cena, di riconoscerne il principio liberatore: il Signore Gesù Cristo. Questo è ciò che l’ha portato ad aprire la sua casa, ad aprirsi agli altri: coloro che prima custodiva per ordine, adesso cura per amore.

Parlando di prigionieri, vorrei portare alla memoria la figura, e alcune delle parole, di Sophie Scholl, giovane donna tedesca protestante (anche se molto vicina ai circoli cattolici), che faceva parte del movimento di resistenza al nazismo soprannominato “La Rosa Bianca”. Questa giovane donna, suo fratello e un altro amico, furono uccisi per la loro attività di resistenza alla barbarie. Nel suo diario sono riportate queste parole: “l’anima mia è arida come la sabbia, quando voglio pregare. Dio mio, trasforma questo suolo in una terra feconda in modo che il tuo seme non cada invano, lascia che in questa terra possa nascere il desiderio di te, suo Creatore. Te ne prego Dio mio, io grido a te”.

Queste sono le parole di questa giovane donna, che chiede a Dio il cambiamento dei suoi sentimenti. Ma forse potrebbero essere anche le nostre parole, come anche le parole di tutti e tutte coloro che cercano Dio e chiedono a Lui un cambiamento profondo. Questo, se vogliamo, è ciò che il Signore ci dice con questa sua Parola oggi, e sempre se vogliamo, questo è anche ciò che lo stesso Signore ci domanda.

Amen