giovedì 30 dicembre 2021

Predicazione di domenica 26 dicembre 2021 su Isaia 7,10-14 a cura di Marco Gisola

 Isaia 7,10-14

Il SIGNORE parlò di nuovo ad Acaz, e gli disse: «Chiedi un segno al SIGNORE, al tuo Dio! Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!» Acaz rispose: «Non chiederò nulla; non tenterò il SIGNORE».  Isaia disse: «Ora ascoltate, o casa di Davide! È forse poca cosa per voi lo stancare gli uomini, che volete stancare anche il mio Dio? Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.


Il Signore stesso vi darà un segno”. Questa antica promessa fatta da Dio al suo popolo attraverso il profeta Isaia è l’evangelo di questa domenica dopo Natale. Il segno che Dio vuole dare al suo popolo è che la “giovane” partorirà un figlio cui sarà dato nome Emmanuele. E proprio questo brano di Isaia è ripreso dal vangelo di Matteo che dice che questa profezia si adempie con la nascita di Gesù. È lui l’Emmanuele, il Dio con noi.

Il testo ci presenta un breve dialogo tra Dio e il re Acaz, re di Giuda. Il re Acaz è in una brutta situazione, c’è una guerra alle porte ed è tentato di allearsi con l’Assiria, un regno grande e potente. Ma allearsi con l’Assiria significa sottomettersi a questo grande regno e anche sottomettersi alle sue divinità.

Dio non vuole questo e invita Acaz a chiedere un segno, un segno a sua scelta: “Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!”. Insomma Dio è disposto a dare un segno straordinario perché Acaz torni a fidarsi di lui.

Acaz però rifiuta di chiedere un segno, e trova una scusa molto pia, dice che non vuole tentare il Signore. Ma in realtà è perché non si fida di Dio, o meglio si fida di più dell’Assiria che di Dio. Dio ovviamente non è contento e manda Isaia a chiedere al popolo se, non contenti di stancare gli uomini, vogliano ora stancare anche Dio, cioè provocarlo con la loro mancanza di fiducia.

E Dio, attraverso Isaia, proclama che un segno lo darà lo stesso. E il segno sarà un bambino che nasce: una giovane partorirà un bambino. Probabilmente questo bambino è il re che avrebbe sostituito il re Acaz e che sarebbe stato, questa volta, un re giusto e fedele.

Dio aveva proposto ad Acaz di chiedere un segno straordinario, un segno che voleva lui, Acaz ha rifiutato e ora Dio sceglie di dare lo stesso un segno.

Però qui c’è qualcosa di strano: questo segno non è straordinario, è un segno molto ordinario: una donna che partorisce, un bambino che nasce, cose che accadono ogni giorno centinaia di volte.

Questo racconto ha degli echi nei racconti della nascita di Gesù. In Matteo come abbiamo detto è citato esplicitamente per dire che la nascita di Gesù è la realizzazione di questa promessa di Dio.

Nel vangelo di Luca non è citato, ma nel racconto di Luca troviamo la parola “segno” detta dall’angelo ai pastori: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”.

In Luca è proprio come in Isaia: il segno è un bambino appena nato. Per di più, coricato in una mangiatoia, in un riparo di fortuna perché i genitori erano in viaggio e non hanno trovato altro riparo che una stalla.

Quel bambino – dice l’angelo – è il “salvatore che è il Cristo, il Signore”, ma per ora è solo un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia. Non è un condottiero, non è un uomo forte e potente, non è un re. È un neonato.

È veramente “il salvatore, il Cristo, il Signore”, ma non si vede. Il segno che Dio dà – in Isaia come in Luca – non è ciò che vorremmo vedere, non è evidente, non è straordinario.

Che cosa è un segno? Un segno non è una dimostrazione, una prova, ma è appunto un “segno”, qualcosa che significa, che segnala, che indica qualcos’altro. Un segno chiede la nostra fede.

Chiede la nostra fede perché vedendo il segno siamo invitati a credere a ciò che quel segno ci indica. E questo segno chiede la nostra fede anche perché è un segno debole e fragile. Come tutta la storia della nascita di Gesù.

Luca ci racconta la storia del censimento, del viaggio di Giuseppe e Maria, del fatto che non c’è posto per loro nell’albergo, della mangiatoia che si trova in una stalla o in una grotta adibita a stalla… e poi i pastori, uomini impuri a causa del loro mestiere che sono i primi a visitare Gesù e ad adorarlo.

Matteo ci racconta la storia della strage degli innocenti, cioè dei bambini che il re Erode fa uccidere perché è geloso e vuole eliminare colui che pensa possa essere il suo rivale. E poi la storia dei Magi, uomini saggi, astronomi che vengono da lontano ad adorare Gesù… Insomma una storia di persone marginali, che stanno alla periferia della società e della storia.

Un segno fragile, che in sé non ha nulla di straordinario, un bambino che non si distingue da tutti gli altri bambini che sono nati, che nascono oggi e che nasceranno in questo mondo.

Gesù sarà un segno fragile dall’inizio alla fine, e soprattutto alla fine, nella passione e nella croce, verrà fuori tutta la sua fragilità. È un segno volutamente fragile, perché Dio ha voluto con l’incarnazione rivelarsi attraverso la fragilità umana per portare perdono e speranza ai noi fragili esseri umani.

Ma rivelarsi attraverso la fragilità umana non vuol dire per Dio essere meno Dio. Dio, in Gesù di Nazaret, nel neonato nella mangiatoia, è altrettanto Dio di quando separava le acque del Mar Rosso per portare Israele fuori dall’Egitto, altrettanto Dio di quando faceva trovare la manna nel deserto e faceva scaturire acqua dalla roccia per dissetare il suo popolo.

Nella fragilità di Gesù sta la forza di Dio, sta la forza del regno che Gesù porta in prima persona. Forza del regno che molte delle persone che Gesù ha incontrato hanno sperimentato: coloro che Gesù ha guarito, coloro a cui ha portato il perdono di Dio. Tutte le persone che erano a terra – fisicamente e spiritualmente - e Gesù ha rialzato con la forza della sua parola.

E a Pasqua la forza del regno vincerà persino la morte, e vincerà non annientando chi lo aveva ucciso, ma perdonando i suoi carnefici. È la forza di chi vuole vincere senza sconfiggere, senza annientare, è la forza dell’amore e del perdono.

Vera forza, ma non come la intendiamo noi, cioè come forza da usare contro altri esseri umani, bensì forza come la intende Dio, forza per il bene e la gioia degli esseri umani.

E se ci pensiamo bene, anche la resurrezione – cioè la più grande opera che Dio abbia compiuta – non è evidente, molti non ci crederanno, diranno che il corpo di Gesù è stato rubato. Anche lì, a parte i pochi che hanno incontrato il risorto, tutti gli altri hanno solo un segno, che è la tomba vuota. La tomba vuota è un segno altrettanto debole quanto il neonato coricato nella mangiatoia.

La forza di Dio si incarna nella fragilità umana del neonato di Betlemme, segno della sua presenza in mezzo a noi.

Segno che chiede la nostra fede, che ci chiede di riconoscere nel neonato coricato nella mangiatoia il “salvatore, Cristo e Signore”, che ci chiede di riconoscere nel crocifisso non la sconfitta di Dio ma la vittoria del suo amore, che ci chiede di riconoscere nella tomba vuota non un inganno ma la forza della sua resurrezione.

Gesù nasce, Gesù viene in mezzo a noi; nel neonato coricato nella mangiatoia abbiamo un segno, un segno delle grandi cose che Dio ha promesso di fare per noi e che ha fatto nella vita, morte e resurrezione di suo figlio. Il Signore è fedele e mantiene le sue promesse.

Questo segno ci è dato, la promessa di Dio ci è data. Ciò che è iniziato quella notte a Betlemme nessuno ha potuto fermarlo, nemmeno la croce ha potuto fermarlo, perché non può essere fermato.

In questo segno e in questa promessa si fondano tutta la nostra fede, tutta la nostra speranza e tutta la nostra gioia.

Predicazione del giorno di Natale 2021 su 1 Giovanni 3,1-2 a cura di Marco Gisola

 1 Giovanni 3,1-2

(culto insieme alla chiesa avventista)

1 Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. 2 Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è.


Oggi, care sorelle e fratelli, siamo qui per celebrare la nascita di Gesù, la venuta del figlio di Dio nel mondo. Il brano proposto per oggi dal nostro lezionario non è un classico brano natalizio, come quelli che abbiamo ascoltato nelle altre due letture, ma è un brano della prima lettera di Giovanni che, scrivendo alle comunità a cui manda questa lettera, dice ai membri di quelle chiese che Dio ci ha manifestato il suo amore al punto di darci di “essere chiamati figli di Dio”.

Il giorno in cui celebriamo la nascita del Figlio di Dio (con la F maiuscola!), la Scrittura ci viene a dire che noi siamo per grazia chiamati figli di Dio (con la f minuscola). Per dirla con un’immagine: nel giorno in cui nasce Gesù, nasciamo anche noi. In Gesù, diventiamo figli anche noi. L’apostolo Paolo parlerà di “adozione”: “avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: «Abbà! Padre!»” (Romani 8,15). Adozione, perché Gesù è il figlio di Dio, e noi lo siamo – o lo diventiamo – soltanto in lui e attraverso di lui.

È attraverso Gesù e grazie a Gesù che possiamo chiamare Dio nostro padre, come Gesù stesso ci ha insegnato a fare nel Padre Nostro. Non perché ce lo meritiamo o ce lo guadagniamo, ma per pura grazia. In Cristo siamo figli adottivi, figli che il Padre di Gesù ha deciso di adottare, per amore e solo per amore: “Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio”. Non è un nostro diritto essere figli di Dio, e non è un nostro merito: dipende esclusivamente dall’amore di Dio, dalla scelta di Dio di mandare il suo figlio nel mondo.

E infatti, probabilmente a noi viene spontaneo reagire dicendo: ma io non mi merito di essere chiamato figlio di Dio, è troppo per una persona piccola come me, con tutti i miei difetti e i miei peccati! E in effetti è troppo! Non ce lo meritiamo, non potremmo mai osare chiamarci figli di Dio, di definirci così davanti agli altri. Sarebbe estremamente presuntuoso. Noi non possiamo chiamarci figli di Dio. Dio invece sì, lui può, solo lui può chiamarci così. Se lo diciamo noi è presunzione, è orgoglio. Se lo dice lui è dono, è grazia. È una cosa che non possiamo dirci da noi stessi, ma che possiamo solo sentirci dire da Dio, attraverso la sua parola.

Oggi il Signore, attraverso la sua parola rivelata nella scrittura, ci dice questo, che siamo suoi figli, perché lui ci ha fatti diventare suoi figli, in Cristo, nella sua morte e resurrezione. E dunque è pura grazia, dono al cento per cento. Dio ci considera suoi figli e ci ama come figli. Essere figli di Dio non è un premio, non è uno status, non è un onore, non vuol dire entrare a far parte di una categoria privilegiata. Essere figli di Dio – o per essere più precisi: essere stati resi figli di Dio da Dio stesso – è una relazione e una vocazione.

È una relazione, una relazione padre-figlio, padre-figlia. È ovvio che questa immagine non ci vuol dire che Dio è di sesso maschile, perché Dio è Dio e i generi appartengono all’umanità. Dio è padre nostro in quanto padre di Gesù e in Gesù ci adotta come suoi figli e figlie. Una relazione che sicuramente nella società del tempo di Gesù non era paritaria; padre e figlio in quella società non sono sullo stesso piano. Il figlio dipende dal padre ed è tenuto ad ascoltare il padre e a seguire la sua volontà. E allo stesso modo noi dipendiamo da Dio, che ci ha dato la vita e che in Cristo ci da la nuova vita. E siamo chiamati ad ascoltare la sua parola e a seguire la sua volontà per costruire e orientare la nostra vita.

È una relazione fatta di dialogo e di fiducia; perché noi siamo chiamati ad ascoltare Dio, ma anche Dio ascolta noi, suoi figli e figlie, e ascolta le nostre preghiere. Il Dio biblico è un Dio che parla, ma anche un Dio che ascolta. Ed è in questo dialogo che la relazione cresce e si approfondisce.

E poi l’essere figli è una vocazione, cioè un compito: l’essere figli prevede delle responsabilità. La parola responsabilità viene dal verbo rispondere: siamo chiamati a rispondere con la nostra vita all’immenso dono dell’amore di cui Dio ci ama e grazie al quale ci chiama suoi figli e figlie. Spesso nella storia i credenti si sono ritenuti superiori agli altri, a volte persino al punto da disprezzare gli altri.

Ma l’unica cosa che abbiamo “in più” rispetto agli altri è la responsabilità di ascoltare la parola di Dio, di testimoniarla con le nostre parole e con le nostre scelte.

Questo significa essere figli e figlie di Dio: il dono di questa relazione che Dio crea con noi, adottandoci come figli e figlie in Cristo, relazione che dona gioia e speranza, e il compito di ascoltare la sua parola e viverla nelle nostre scelte quotidiane. Questa relazione con Dio, che dà senso e speranza al nostro presente, guarda anche al futuro, contiene una promessa: ora siamo figli, “ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è”.

Queste parole dell’apostolo osano guardare oltre la nostra realtà, e gettare lo sguardo alla realtà del regno. Qui, in questa nostra vita terrena siamo figli, siamo stati adottati per grazia, ma nel regno saremo addirittura “simili a lui”. Simili a Dio è un’espressione enigmatica, che si riferisce al fatto che con Dio avremo una piena comunione, che noi saremo con lui e lui sarà con noi. Qui l’apostolo cerca di dire l’indicibile, di esprimere l’inesprimibile.

Da voce alla promessa che è rivolta ai figli e alle figlie. Una promessa che da senso, gioia e speranza alla nostra vita qui ed ora. Non è manifesto quel che saremo, non si sa, non lo sappiamo ed è in fondo inutile saperlo. Ciò che è invece fondamentale che sappiamo è che saremo simili a Dio, cioè saremo con Dio e non vivremo più immersi nelle domande e nei dubbi, ma vedremo Dio faccia a faccia.

Oggi, care sorelle e fratelli, siamo qui per celebrare la nascita di Gesù, la venuta del figlio di Dio nel mondo. Siamo qui per celebrare un inizio. Ma il testo di oggi ci fa guardare alla fine, al regno. Perché la fine è già contenuta in quell’inizio.

In quell’inizio, in quel bambino coricato nella mangiatoia, in quel bambino che nasce durante un viaggio e appena nato è già profugo, perché i suoi genitori devono fuggire in Egitto per salvare la vita di Gesù, in quell’inizio c’è già il nostro presente e il nostro futuro.

Quell’inizio cambia la storia, cambia la nostra storia personale. Pensate a che cosa saremmo oggi se Gesù non fosse nato, se il figlio di Dio non fosse venuto nel mondo.

In quell’inizio c’è il nostro presente di figli e figlie, nel suo figlio Gesù Cristo Dio rende noi figli e figlie adottivi. Un dono e una vocazione, un dono che dà gioia e una vocazione che dà senso alla nostra vita.

E in quell’inizio c’è il nostro futuro, che non è ancora manifesto, perché è nelle mani di Dio ed è più grande di quello che possiamo immaginare.

Tra parentesi, visto che oggi siamo qui a celebrare questo culto insieme membri di chiese diverse, trovo che il messaggio che ci viene dalla Parola di Dio di oggi sia molto adatto al nostro essere insieme. Noi siamo oggi qui insieme avventisti e valdesi, ma Dio non vede in noi degli avventisti e dei valdesi, Dio vede in noi “soltanto” dei figli e delle figlie.

Non vede in noi ciò che la storia, la teologia, gli eventi storici hanno fatto di noi, ma vede in noi ciò che lui ha fatto di noi: figli e figlie, niente di più (perché di più non c’è…!) e niente di meno.

Perché l’azione della grazia di Dio è più grande delle nostre realtà storiche, più grande delle nostre chiese, che pure amiamo e di cui siamo membri attivi. E il nostro futuro, di tutti noi, che siamo avventisti o valdesi, è nelle sue mani, per tutti noi vale la parola: non è ancora manifesto ciò che saremo.

Ciò che siamo – figli e figlie – e ciò che saremo è nelle mani di Dio e della sua immensa grazia.

E tutto ha avuto inizio in quella notte a Betlemme, inizio che contiene già tutto ciò che Gesù farà per noi, tutto il nostro presente e tutto il nostro futuro.

Ci dia il Signore di essere figli e figlie che lo ascoltano, lo seguono, lo lodano, e che vivono, gioiscono e sperano in lui che ci ha amati così tanto da chiamarci suoi figli.

domenica 5 dicembre 2021

Predicazione di domenica 5 dicembre 2021 (2a di avvento e Domenica della Diaconia) su Rut 1,1-17 a cura di Marco Gisola

 Rut 1,1-17

1 Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia, e un uomo di Betlemme di Giuda andò a stare nelle campagne di Moab con la moglie e i suoi due figli. 2 Quest'uomo si chiamava Elimelec, sua moglie, Naomi, e i suoi due figli, Malon e Chilion; erano efratei, di Betlemme di Giuda. Giunsero nelle campagne di Moab e si stabilirono là.

3 Elimelec, marito di Naomi, morì, e lei rimase con i suoi due figli. 4 Questi sposarono delle moabite, delle quali una si chiamava Orpa, e l'altra Rut; e abitarono là per circa dieci anni. 5 Poi Malon e Chilion morirono anch'essi, e la donna restò priva dei suoi due figli e del marito. 6 Allora si alzò con le sue nuore per tornarsene dalle campagne di Moab, perché nelle campagne di Moab aveva sentito dire che il SIGNORE aveva visitato il suo popolo, dandogli del pane. 7 Partì dunque con le sue due nuore dal luogo dov'era stata, e si mise in cammino per tornare nel paese di Giuda.

8 E Naomi disse alle sue due nuore: «Andate, tornate ciascuna a casa di sua madre; il SIGNORE sia buono con voi, come voi siete state con quelli che sono morti, e con me! 9 Il SIGNORE dia a ciascuna di voi di trovare riposo in casa di un marito!» Le baciò; e quelle si misero a piangere ad alta voce, 10 e le dissero: «No, torneremo con te al tuo popolo». 11 E Naomi rispose: «Tornate indietro, figlie mie! Perché verreste con me? Ho forse ancora dei figli nel mio grembo che possano diventare vostri mariti? 12 Ritornate, figlie mie, andate! Io sono troppo vecchia per risposarmi; e anche se dicessi: "Ne ho speranza", e anche se avessi stanotte un marito, e partorissi dei figli, 13 aspettereste voi finché fossero grandi? Rinuncereste a sposarvi? No, figlie mie! Io ho tristezza molto più di voi, perché la mano del SIGNORE si è stesa contro di me». 14 Allora esse piansero ad alta voce di nuovo; e Orpa baciò la suocera, ma Rut non si staccò da lei. 15 Naomi disse a Rut: «Ecco, tua cognata se n'è tornata al suo popolo e ai suoi dèi; torna indietro anche tu, come tua cognata!» 16 Ma Rut rispose: «Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; 17 dove morirai tu, morirò anch'io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!»



Questa domenica si intrecciano nel nostro culto due aspetti importanti della vita della nostra chiesa: il primo è il tempo liturgico, il tempo di avvento che è iniziato domenica scorsa, e che ci accompagna alla nascita di Gesù. Il secondo aspetto è il tema di questa domenica, che è la domenica della diaconia, una domenica in cui si vuole riflettere su ciò che la nostra chiesa fa nel mondo a servizio degli ultimi; “diaconia” come sapete significa servizio; e in modo particolare oggi il tema della domenica è quello delle migrazioni e la colletta di oggi è destinata ai progetti di accoglienza della Diaconia valdese, sopratutto i progetti per i minori non accompagnati. Ed è proprio la Diaconia valdese che ha scelto il testo su cui riflettere insieme oggi nelle nostre chiese. È l’inizio della storia di Rut, storia che c’entra con il tema delle migrazioni e che c’entra anche con l’avvento e con Gesù, perché Rut è una delle antenate di Gesù ed è nominata nel vangelo di Matteo proprio per questo motivo. Il libro di Rut finisce infatti con la nascita di suo figlio che sarà il nonno del re Davide e sappiamo che Giuseppe è un discendente del re Davide, e che era tra i discendenti di Davide che doveva venire il messia. Potremmo dire che la storia biblica, come accade sempre, si intreccia con la nostra storia. Vediamo allora la storia di Rut. Essa è una storia di migrazioni: il suo libro inizia col racconto di una famiglia di israeliti che emigra.

Dobbiamo tenere presente che le migrazioni hanno sempre due punti di vista: ciò che noi chiamiamo immigrazione è prima di tutto sempre emigrazione. A volte rischiamo di dimenticare che un immigrato - di oggi o di ieri - è prima di tutto un emigrato, una persona che ha lasciato il proprio paese, forse la propria famiglia, la propria cultura, la propria lingua e così via. Così accade alla famiglia di Noemi ed Elimelech, che emigrano nel paese di Moab, paese pagano ai confini di Israele, perché in Israele non c’è pane. Betlemme, che significa casa del pane, non è più fedele al suo nome, non dà più pane ai suoi abitanti. La storia l’abbiamo sentita: Noemi ed Elimelec hanno due figli, che sposano due donne moabite, ma la tragedia colpisce questa famiglia e tutti gli uomini muoiono, lasciando tre donne vedove. Nel cuore di questa tragedia, che vede tre donne vedove, succede però una cosa positiva, c’è una svolta. E la svolta ha due nomi strettamente intrecciati tra di loro: i due nomi sono pane e Dio. Dio ha visitato Israele e ha dato di nuovo il pane al suo popolo; la carestia è finita, ora Betlemme è di nuovo Betlemme, la casa del pane. Noemi decide quindi di tornare a casa. Questo ci fa anche riflettere sul fatto che le emigrazioni, potrebbero, almeno qualche volta, concludersi con un ritorno in patria. Ma bisogna che in patria cambi qualcosa e in Israele qualcosa è cambiato perché Dio lo ha visitato e la carestia è finita.

Per ritornare bisogna che cambi qualcosa e se le cose non cambiano non si può ritornare; se la vita nei paesi di partenza non cambia, se continua ad esserci guerra o miseria, chi emigra non torna, a meno che vi sia costretto, come nel caso dei respingimenti; ma in quel caso molto probabilmente tenterà di partire un’altra volta. La nostra storia ci presenta invece un ritorno; e non solo: ci presenta Rut che emigra per amore della suocera, non vuole abbandonarla; anche l’altra nuora, Orpa, non voleva abbandonarla, ma poi si lascia convincere dalla suocera e torna dalla sua famiglia di origine. Di lei non sappiamo più nulla, ma dobbiamo sottolineare il fatto che il racconto non dà nessun giudizio su Orpa, la nuora che rimane nel paese di Moab. Rut e Orpa compiono due libere scelte, entrambe possibili.

Nel racconto biblico è ora Rut l’emigrante che dovrà vivere in un paese straniero, che per fortuna l’accoglierà. E come Rut viene accolta è molto interessante: Israele la accoglie innanzitutto con le sue leggi a favore dei poveri. La legge di Mosè prevede che i poveri possano andare a spigolare, cioè a raccogliere quello che rimane nei campi dopo il raccolto. E anzi, la legge prescriveva espressamente che non si raccogliesse tutto quello che c’era, ma se ne lasciasse un po’ per chi non aveva campi e non aveva da mangiare. La legge che Dio aveva data a Mosè prevede questo arcaico e semplice “stato sociale”: un po’ di pane per chi non ha pane. E poi Rut viene accolta dalla bontà di un uomo, Boaz, che la sposerà e dalla loro unione nascerà il nonno del re Davide. È interessante che in questa antica storia di Rut, con tutti i limiti della società del tempo, la Bibbia ci mostri come l’accoglienza passi sia attraverso una legge giusta, che garantisce il minimo per sopravvivere, sia attraverso la generosità degli esseri umani. Per essere accolti in un paese straniero c’è bisogno di leggi che diano dei diritti, ma non bastano le leggi, ci vuole anche la generosità delle persone che vi abitano. E del resto non basta la generosità delle persone, ma c’è bisogno anche di leggi giuste.

La storia di Rut s’intreccia anche con la storia della nascita di Gesù, perché come abbiamo detto Rut è citata nel vangelo di Matteo nell’elenco delle antenate di Gesù. In questo elenco ci sono solo quattro donne e c’è anche Rut la moabita, dunque una straniera, immigrata in Israele. Anche il tema delle migrazioni si intreccia con la storia della nascita di Gesù, perché nel vangelo di Matteo Gesù, Maria e Giuseppe devono fuggire in Egitto, perché Erode vuole uccidere Gesù. Qui si tratta di una migrazione dovuta alla persecuzione, come accade a tante donne e uomini anche oggi. Grazie a Dio, Gesù e i suoi genitori potranno tornare nel loro paese quando Erode non ci sarà più. Quindi anche Gesù è stato, per un po’ di tempo, un emigrato, e una emigrata è la sua antenata Rut.

Abbiamo detto che la svolta sta nel pane che a Betlemme c’è di nuovo, perché è finita la carestia; si può di nuovo vivere a Betlemme e che questo pane è dono di Dio, che ha visitato il suo popolo. Il pane, cioè il cibo per nutrirsi è ovviamente il bisogno essenziale per ogni essere umano, per sopravvivere. Ma per vivere serve qualcosa di più del pane, che serve appunto a sopravvivere. A questo proposito trovo interessante ciò che sul pane ha scritto Lutero, commentando la richiesta del Padre nostro “dacci oggi il pane quotidiano” nel suo “Piccolo catechismo”. Lutero si chiede che cosa significa pane quotidiano e la risposta che si da è: “tutto ciò che fa parte del nutrimento e delle esigenze del corpo, come mangiare, bere, vestiti, scarpe, casa …” e poi aggiunge altre cose tra cui “buon governo, buon tempo, pace, salute…”. Il pane è essenziale ma non basta, si può avere pane e non avere la libertà, non vedere rispettati i propri diritti. Si può avere il minimo per sopravvivere ma non una scuola dove mandare i propri figli, o ospedali dove curare le persone malate. Chi emigra non lo fa solo perché a casa propria non ha da mangiare o una casa, ma anche perché nel suo paese non può avere, come dice Lutero, “buon governo, buon tempo, pace, salute…”.

Dove sta Dio in questa storia, nella storia di Rut e Noemi? Abbiamo detto che Dio sta nella svolta che porta Noemi a decidere di tornare in Israele, Dio sta nel pane che torna ad esserci a Betlemme, dove prima scarseggiava a causa della carestia. Ma, come dicevo poco fa, Dio sta anche nella legge che ha dato a Mosè, che prevede il diritto per i poveri di andare a spigolare. E visto che oggi parliamo di diaconia, penso che dobbiamo chiederci dove stiamo noi nel mondo, qual è il nostro posto e il nostro compito, come discepoli e discepole di Gesù, che appena nato fu costretto a emigrare per salvarsi la vita e che è discendente di Rut la moabita, immigrata in Israele.

Noi siamo chiamati a stare dove anche Dio sta, ovvero dalla parte del pane e delle buone leggi. Davanti al fenomeno delle migrazioni, oltre a sperare e a lavorare affinché le cose nei paesi di partenza cambino e non ci sia più bisogno di emigrare, qui dove siamo, nel nostro paese, ora possiamo testimoniare l’evangelo di Gesù Cristo lavorando sul pane e sulle leggi. Quello sulle leggi è un discorso complicato che non può entrare in una predicazione. Quello del “pane” – nel senso di Lutero, cioè tutto ciò che fa sì che una vita sia dignitosa - è l’ambito in cui lavora la nostra Diaconia e per cui è destinata la colletta di oggi.

La colletta è destinata ai progetti a favore dei minori non accompagnati, quelli cioè che arrivano in Italia soli, senza genitori o altri adulti che si occupino di loro.

La loro vita non è dignitosa ed è anche a rischio: rischio della vita e rischio di cadere nelle mani di trafficanti. Con questi progetti la Diaconia valdese tenta di fare qualcosa per alcuni di loro. Questo non deve renderci orgogliosi o metterci in pace la coscienza. Possiamo casomai essere grati al Signore che – come chiesa - ci dà la possibilità di fare qualcosa per tentare di essere dalla parte dove anche lui sta.

Gesù nasce a Betlemme, Rut migra insieme a Noemi a Betlemme, la casa del pane. Dio ha dato pane sufficiente per tutta l’umanità. In questo tempo di avvento e nel lungo avvento che ci separa dal ritorno di Gesù, chiediamo a Dio di aiutarci a far sì che questo mondo che egli ci ha dato sia Betlemme, sia casa del pane, dei diritti, della dignità, per tutti gli esseri umani, come lui vuole che sia.

lunedì 29 novembre 2021

Predicazione di domenica 28 novembre 2021 (prima domenica di avvento) su Geremia 23,5-8 a cura di Marco Gisola

 Geremia 23,5-8

5 «Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò sorgere a Davide un germoglio giusto, il quale regnerà da re e prospererà; eserciterà il diritto e la giustizia nel paese.

6 Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con il quale sarà chiamato: SIGNORE-nostra-giustizia.

7 Perciò, ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui non si dirà più: “Per la vita del SIGNORE che condusse i figli d’Israele fuori dal paese d’Egitto”,

8 ma: “Per la vita del SIGNORE che ha portato fuori e ha ricondotto la discendenza della casa d’Israele dal paese del settentrione, e da tutti i paesi nei quali io li avevo cacciati”; ed essi abiteranno nel loro paese».


1. “Ecco, i giorni vengono”: così inizia il brano che ci viene proposto per la prima domenica di avvento. I giorni vengono, cioè c’è un tempo che non è nelle nostre mani, un tempo che ci è preparato, donato da Dio. Un tempo che non dipende da noi, in cui non siamo noi i protagonisti e non siamo a decidere che cosa e quando deve accadere. Un tempo di grazia, in cui è Dio ad agire. L’Avvento è in fondo l’attesa di questo tempo che ci è promesso. Un tempo che ci è annunciato e promesso. “Ecco i giorni vengono” è una promessa, è Dio che annuncia una sua decisione, è Dio che annuncia che ha deciso di fare qualcosa: “farò sorgere a Davide un germoglio giusto”.

Dio annuncia e promette che verrà un re “che eserciterà il diritto e la giustizia nel paese”. Verrà un re a cambiare le cose, a iniziare un tempo nuovo per il popolo di Israele. Per Israele, la buona notizia che Geremia gli sta annunciando è la fine dell’esilio in Babilonia, il ritorno in patria, l’inizio di un tempo nuovo in cui saranno finalmente di nuovo a casa. Israele è stato esiliato a causa della sua ingiustizia, dell’abuso di potere fatto dai suoi re; ora il nuovo re sarà giusto, anzi sarà chiamato “Signore-nostra-giustizia”. Questa profezia riguardava la storia del popolo di Israele, ma è poi stata interpretata in senso messianico, come attesa del messia di Israele.

Ed è quindi naturale che i primi cristiani lo abbiano letto come profezia della venuta di Gesù ed è per questa ragione che questo testo ci viene proposto la prima domenica di avvento, tempo liturgico in cui ci prepariamo alla venuta Gesù nel mondo e riascoltiamo – oggi attraverso le parole di Geremia – la promessa che “Signore-nostra-giustizia” viene, nel neonato Gesù che fa il suo ingresso nel mondo, nel re-messia crocifisso e risorto.

2. Ma noi veniamo dopo che Gesù è venuto, dopo che ha operato, guarito, insegnato, dopo che è morto e risorto per noi. Per noi cristiani che veniamo dopo Pentecoste i “giorni” di cui parla Geremia, sono già venuti, il Germoglio giusto è già sorto. Quel re che si chiama “Signore-nostra-giustizia” è venuto in mezzo a noi nella carne di Gesù di Nazaret, ci ha portato la giustizia di Dio e rivelato quale giustizia chiede da noi. E ci ha lasciato altre promesse, ci ha lasciato il suo Spirito e la promessa del suo ritorno. Noi, quindi, possiamo dire che viviamo in mezzo a due promesse, una che si è compiuta e una che si compirà; tra la venuta di Gesù e il suo ritorno, in un tempo che sta tra i tempi, tra un tempo in cui “Signore-nostra-giustizia” si è già manifestato e un tempo che deve venire, in cui si manifesterà pienamente.

Ma se guardiamo bene, anche nella promessa di Geremia è così: Dio porta una grande, nuova liberazione, ma questa novità non nasce dal nulla. Dio aveva già operato una grossa liberazione per Israele, liberandolo dalla schiavitù di Egitto; ora ne porta una ancora più grande: la liberazione dall’esilio: il Dio che libera è il Dio che ha già liberato. Questo è il senso degli ultimi versetti di questo brano: “i giorni vengono … in cui non si dirà più “Per la vita del SIGNORE che condusse i figli d’Israele fuori dal paese d’Egitto”, ma: “Per la vita del SIGNORE che ha portato fuori e ha ricondotto la discendenza della casa d’Israele dal paese del settentrione,e da tutti i paesi nei quali io li avevo cacciati”. Cioè: ci si rivolgerà a Dio non più come il liberatore dalla schiavitù di Egitto, ma come il liberatore dall’esilio in babilonia.

Israele invoca il Signore come il Dio che ha compiuto una liberazione, e lo invocherà – dice Geremia - come il Dio che ha compiuto una seconda liberazione, ancora più grande ancora della prima. Dio ha liberato nel passato e libererà ancora nel futuro, libererà ancora presto. Viviamo, crediamo e operiamo tra una promessa mantenuta e una ricevuta. Anche la nostra fede sta tra un passato e un futuro, tra ciò che Dio ha fatto e ciò che ha promesso di fare e farà. Lo esprime bene il Credo nel quale confessiamo che Gesù “fu crocifisso, morì e fu sepolto. Discese nel soggiorno dei morti, il terzo giorno risuscitò…” (al passato) e poi confessiamo anche che “Di là verrà a giudicare i vivi e i morti”, al futuro.

Viviamo e crediamo, speriamo e operiamo nel tempo che sta tra i tempi, tra ciò che Dio ha fatto e ciò che farà.

3. I giorni che vengono sono dono di Dio, opera di Dio. È un tempo di grazia e anche un tempo di giustizia. Il re promesso da Dio si chiama “Signore-nostra-giustizia” ed eserciterà diritto e giustizia. Insieme al termine “misericordia” l’altro termine biblico che più caratterizza Dio è “giustizia”. La legge di Mosè aveva questo scopo, di mantenere la giustizia – e dunque la libertà – tra il popolo d’Israele; i profeti richiamano continuamente il popolo, e soprattutto i re, alla pratica della giustizia. Il re-messia che Dio manda al suo popolo instaurerà diritto e giustizia.

Gesù, di cui celebreremo la venuta nel mondo a Natale, viene come messia, come Signore nostra giustizia. Nel doppio senso: che porta la giustizia di Dio a noi peccatori, a noi che ne siamo privi, e nel senso che viene a instaurare la giustizia nel mondo. Sì, Gesù viene anche come il re promesso da Dio per instaurare la giustizia. Lo dice il racconto dell’ingresso a Gerusalemme che abbiamo letto prima, che è l’ingresso del re nella sua città.

E che Gesù viene a fare giustizia lo aveva capito Maria, quando nel suo cantico ha detto che Dio “Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del loro cuore; ha detronizzato i potenti, e ha innalzato gli umili; ha colmato di beni gli affamati, e ha rimandato a mani vuote i ricchi”. Non nel senso che gli oppressori diventano oppressi e gli oppressi diventano oppressori, ma nel senso che gli oppressi non sono più oppressi e gli oppressori non sono più oppressori. Questa è la rivoluzione di Gesù, questa è la giustizia di Dio. Nel regno il cui re è Gesù, tutti sono uguali e non ci sono né oppressi, né oppressori.

Solo che il re Gesù non governa con la forza, ma solo con la forza della sua Parola. Mentre i potenti del mondo spesso cercano la forza e usano la forza, Gesù, il figlio di Dio, che si è fatto debole essere umano, ha rinunciato alla forza e, anzi, ha subito la forza degli esseri umani: un re – Erode – ha cercato di eliminarlo appena nato, per paura di quel neonato in fasce; Pilato, il rappresentante del re a quel tempo più potente del mondo, cioè l’imperatore romano, lo ha condannato alla crocifissione, la morte che Roma riservava ai suoi nemici.

Oggi inizia l’avvento che è un tempo liturgico, per preparaci al Natale. Ma per noi è sempre tempo di avvento, sarà tempo di avvento fino al ritorno di Gesù. Un tempo tra i tempi, tra la venuta di Gesù e il suo ritorno. In questo tempo fra i tempi siamo chiamati a seguire il Signore-nostra-giustizia, a costruire la nostra vita e a orientare le nostre scelte seguendo Gesù, lavorando affinché gli oppressi non siano più oppressi e gli oppressori non siano più oppressori.

C’è davvero bisogno che venga Signore-nostra-giustizia, che venga nelle nostre menti e nei nostri cuori, che la sua giustizia che ci ha rivelato in Cristo diventi un po’ anche la nostra. Che c’è davvero bisogno di giustizia che lo dice il dramma dei femminicidi, che abbiamo ricordato il 25 novembre, ma che non dobbiamo dimenticare mai. Ce lo dicono i drammi che accadono ai confini dell’Europa, dove l’Europa “cristiana” che si prepara al Natale contemporaneamente permette che ai suoi confini dei bambini muoiano di freddo dietro a un filo spinato o che donne e uomini in fuga anneghino nel mediterraneo perché nessuno li salva. Tutti questi drammi e molti altri ci mostrano quanti esseri umani hanno bisogno di giustizia.

Era infatti una parola rivolta agli esiliati quella di Geremia. Persone che avevano perso tutto e a cui il Signore promette un tempo nuovo, di libertà e giustizia. L’evangelo è rivolto a tutti, ma in modo particolare per gli esiliati, gli oppressi e gli emarginati è promessa di liberazione.

Agli esiliati di ogni luogo e di ogni tempo è promesso un tempo nuovo, un tempo di giustizia e di riscatto, un’opera che può compiere solo il Signore, Signore-nostra-giustizia, un tempo che è iniziato con la venuta di Gesù, che ci chiede di vivere la sua giustizia e di annunciare al mondo il riscatto degli esiliati e degli oppressi.

Ecco i giorni vengono…” è il tempo che Dio prepara per noi, il tempo tra i tempi, il germoglio giusto viene nel mondo. Dio viene e in Cristo ci porta la sua giustizia, affinché noi la riceviamo con gratitudine e la pratichiamo con passione.

domenica 21 novembre 2021

Predicazione di domenica 21 novembre 2021 su Isaia 65,17-25 a cura di Marco Gisola

Isaia 65,17-25

«Poiché, ecco, io creo nuovi cieli e una nuova terra; non ci si ricorderà più delle cose di prima; esse non torneranno più in memoria. Gioite, sì, esultate in eterno per quanto io sto per creare; poiché, ecco, io creo Gerusalemme per il gaudio, e il suo popolo per la gioia. Io esulterò a motivo di Gerusalemme e gioirò del mio popolo; là non si udranno più voci di pianto né grida d’angoscia; non ci sarà più, in avvenire, bimbo nato per pochi giorni, né vecchio che non compia il numero dei suoi anni; chi morirà a cent’anni morirà giovane e il peccatore sarà colpito dalla maledizione a cent’anni. Essi costruiranno le case e le abiteranno; pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto. Non costruiranno più perché un altro abiti, non pianteranno più perché un altro mangi; poiché i giorni del mio popolo saranno come i giorni degli alberi; i miei eletti godranno a lungo l’opera delle loro mani. Non si affaticheranno invano, non avranno più figli per vederli morire all’improvviso; poiché saranno la discendenza dei benedetti del Signore e i loro rampolli staranno con essi. Avverrà che, prima che m’invochino, io risponderò; parleranno ancora, che già li avrò esauditi. Il lupo e l’agnello pascoleranno assieme, il leone mangerà il foraggio come il bue, e il serpente si nutrirà di polvere. Non si farà né male né danno su tutto il monte santo» dice il Signore.



Oggi è l’ultima domenica dell’anno liturgico; domenica prossima sarà la prima domenica di avvento, con cui comincia un nuovo anno liturgico. L’anno liturgico è un aiuto che la chiesa si è data per ripercorrere le tappe della storia biblica, tappe scandite dalla grandi feste cristiane: Natale, Venerdì Santo – Pasqua e Pentecoste. Abbiamo bisogno di ripercorrere, tappa per tappa i grandi eventi della storia della salvezza e della storia di Gesù perché non possiamo considerare sempre tutto e tutto insieme.

Oggi dunque è l’ultima domenica, quella che il nostro lezionario chiama la “domenica dell’eternità”. Perché questo nome per l’ultima domenica dell’anno liturgico? Perché se nell’anno liturgico dopo la fine di un anno ne comincia un altro, nel tempo di Dio – nel tempo che Dio ci regala – dopo la fine… non c’è la fine! C’è l’eternità. Anzi: dopo la fine, nel senso della fine anche del tempo, c’è Dio. Per noi “eternità” è un concetto astratto, è sinonimo di un tempo che dura per sempre, che dura in eterno, che non finisce. Per la Bibbia mi sembra che più che un tempo, l’eternità – o vita eterna – sia una realtà totalmente nuova, una vita nuova, una nuova creazione che Dio crea. L’eternità è Dio con noi e noi con Dio.

Ecco, io creo nuovi cieli e una nuova terra”. Così inizia il nostro testo di oggi. Un brano di Isaia, uno dei grandi profeti dell’AT, che non parla della vita eterna, ma parla di una nuova vita, che Dio promette al popolo di Israele per il suo futuro. Un futuro totalmente nuovo in questo mondo, è ciò che promette Dio per bocca di Isaia: non vita eterna, ma vita lunga: non vi saranno più bambini che muoiono, anche i peccatori avranno tempo fino a cent’anni per convertirsi. Persino gli animali che tradizionalmente sono nemici – il lupo e l'agnello – saranno amici. Si lavorerà e si faticherà, ma si godrà il frutto delle proprie fatiche. Potremmo dire che Dio promette una vita lunga, buona e giusta.

Noi però non possiamo non leggere questo brano di Isaia “da cristiani”, cioè non possiamo leggerlo senza Cristo, come se Gesù non fosse venuto e non avesse “incarnato” le promesse di Dio. Quella di Isaia è allo stesso tempo una profezia e una promessa. Per noi, questa profezia ha iniziato a compiersi in Cristo e questa promessa ha iniziato a realizzarsi in Cristo. Lui è la “nuova creatura”; e in lui – ci dice l’apostolo – siamo anche noi nuove creature: “Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove” (2 Cor 5,17). La nuova creazione per noi cristiani da un lato deve ovviamente ancora venire e verrà con il ritorno di Gesù e l’inizio del Regno di Dio. D’altro lato essa è già iniziata con la venuta di Gesù e, in modo frammentario ma reale, nella nuova relazione che Gesù ha creato tra Dio e noi e nelle nuove relazioni che ha reso possibili anche tra di noi.

Come Israele, come il popolo che ascoltava le parole di Isaia, viviamo anche noi della promessa di Dio che Gesù ci ha portato, promessa che ci fa guardare al futuro. Ma viviamo non solo della promessa di Dio in Cristo, ma viviamo anche nella promessa, e vivere nella promessa, dentro la promessa, significa già vivere una nuova realtà, che si scontra sempre con il nostro peccato, ma che tuttavia in Cristo è possibile. Se quindi da un lato la promessa che Isaia rivolge a Israele non è la stessa di cui e in cui viviamo noi in Cristo, d’altro lato la sostanza di ciò che è promesso a Israele per bocca di Isaia è la stessa che Dio promette a noi in Cristo e nel suo regno. Con la differenza che anziché una vita lunga, buona e giusta, in Cristo ci è promessa una vita sì buona e giusta ma non lunga, bensì eterna, dove la morte non c’è più e noi siamo con il Signore.

La caratteristica fondamentale della nuova creazione che promette Isaia, e anche di quella che ci è promessa in Cristo, è la gioia: “Gioite, sì, esultate in eterno… io creo Gerusalemme per il gaudio”. Dio vuole la nostra gioia, al punto che crea le condizioni perché possiamo vivere nella gioia. E quali sono queste condizioni?



1. La prima è che non ci si ricorderà più delle cose passate. Inizia un tempo nuovo, si ricomincia. Per Israele è il dramma dell’esilio in Babilonia e tutte le sofferenze che ha portato con sé che viene dimenticato. Per noi è il tempo nuovo del regno che ci è promesso che non sarà soltanto un luogo, ma un tempo nuovo, dove tutto ricomincia, dove dolore, fatiche, ingiustizie e i drammi della vita e della storia saranno dimenticati, nel senso che inizierà un tempo nuovo senza le conseguenze di ciò che è stato. Il ricordo di certi drammi – sopratutto di chi ha subito violenze – spesso fa male quando torna alla memoria, molto male. Ecco, questo non accadrà.

Ma ciò che è promessa per il futuro è anche vocazione per il presente. Quel tempo nuovo lo può portare e e creare soltanto Dio, lo può fare soltanto lui. Ma dei piccoli frammenti di quel tempo li possiamo già vivere nella fede in Cristo: il perdono è un ricominciare, un ricominciare una relazione che è stata ferita e che il perdono può guarire. Certo un umanissimo ricominciare, non paragonabile a quello di Dio, ma pur sempre un ricominciare. Perdonare è anche fare in modo che le “cose di prima” – che sono accadute e non possiamo cancellare, spesso nemmeno dalla memoria – non incidano più sulle cose presenti, sulle relazioni attuali. È appunto ricominciare.

Nella profezia di Isaia c’è questa curiosa affermazione che dice che “il peccatore sarà colpito dalla maledizione a cent’anni”. Il peccatore non verrà punito subito, ma solo quando sarà molto vecchio. Che cosa vuol dire? che io penso voglia dire che il peccatore ha molto tempo per chiedere perdono, che questo lungo tempo serve – deve servire - per chiedere e per dare perdono. Anche il nostro tempo – lungo o breve che sia – è – in Cristo - tempo, cioè occasione, per chiedere e per dare perdono. In questo senso può essere un frammento del tempo nuovo che Dio ci dona.

2. Una seconda realtà della nuova creazione è che “non si affaticheranno invano”. “Costruiranno le case e le abiteranno; pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto. Non costruiranno più perché un altro abiti, non pianteranno più perché un altro mangi”. Sono immagini che parlano di libertà, perché è lo schiavo che costruisce case che altri abitano, è lo schiavo che pianta piante perché altri ne mangino il frutto. E trovo molto bello che in questa profezia di nuova creazione il lavoro vada a braccetto con la libertà.

La nuova creazione non implica per forza di non lavorare o di non fare nulla, ma implica di non lavorare da schiavi e di non lavorare in modo alienante, questo sì. Anche nel giardino di Eden l’essere umano doveva lavorare per cogliere i frutti di cui nutrirsi e per coltivare e custodire il giardino. Ma era un bel lavoro, di cui si godevano i frutti con gioia, e dove i frutti non erano banconote, ma cibo buono e sufficiente per tutti e da mangiare con gioia. Se, di nuovo, ogni promessa è anche una vocazione, quanta strada c’è ancora da fare nel nostro mondo industriale e post industriale perché ogni essere umano abbia un lavoro libero e dignitoso e che dia frutti sufficienti per tutti e da condividere con gioia.

3. Una terza realtà della nuova creazione è l’assenza di violenza: “il lupo e l’agnello pascoleranno assieme… Non si farà né male né danno su tutto il monte santo”. Esseri umani e animali non saranno più violenti nei confronti gli uni degli altri. Quindi persino i lupi saranno vegetariani! L’immagine ci vuole dire che tra tutte le creature regnerà la pace, tutta la creazione sarà rinnovata e trasformata. E ci dice qualcosa sulle relazioni tra esseri umani e anche tra esseri umani e il creato. La violenza che regna tra esseri umani e la violenza degli esseri umani su animali e natura in genere è evidente. Questa settimana cade la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sempre attualissima, da ciò che ci dice la cronaca. Anche qui ciò che Dio ci promette è anche la vocazione che ci rivolge: se la violenza, che è insita in ciascuno di noi, sparirà solo nel regno di Dio, siamo chiamati già qui ed ora a dominarla e a cercare di eliminarla dalle nostre relazioni, personali e sociali.

4. Infine c’è una realtà della nuova creazione che riguarda il nostro rapporto con Dio: “Avverrà che, prima che m’invochino, io risponderò; parleranno ancora, che già li avrò esauditi”. Questa bellissima promessa implica ovviamente che chi si rivolge a Dio gli chieda soltanto ciò che davvero corrisponde alla sua volontà e non semplicemente ai nostri desideri. Oggi ci confrontiamo con la preghiera non esaudita, con tante cose che non riusciamo ad afferrare di Dio. Ci confrontiamo con la realtà del mistero, cioè della distanza che c’è tra Dio e noi. Allora questa distanza non ci sarà più, ma come dice l’apocalisse, Dio abiterà con noi. Ma se ci pensiamo bene almeno una cosa – e la più importante di tutte – Dio ha fatto prima che noi gliela chiedessimo: ha mandato suo figlio in mezzo a noi senza che noi glielo chiedessimo. Ci ha donato la fede senza che noi gliela chiedessimo e senza che ne sapessimo nulla. Ci ha chiamato a seguirlo e ci ha dato tutte queste promesse senza che noi glielo chiedessimo e senza che facessimo nulla per riceverle.

In Cristo questa antica promessa che aveva fatto al suo popolo per mezzo di Isaia è vera anche per noi. È promessa per il nostro futuro – futuro i cui modi e tempi sono nelle mani di Dio – e allo stesso tempo vocazione per il nostro presente. Solo Dio può creare nuovi cieli e nuova terra. Noi possiamo solo essergliene grati e vivere di questa promessa e in questa promessa, cercando di viverne dei frammenti, nella certezza che Dio mantiene ciò che ha promesso.

 

domenica 7 novembre 2021

Predicazione di domenica 7 novembre 2021 sul Salmo 85 a cura di Marco Gisola

1 Al direttore del coro.Salmo dei figli di Core.
O SIGNORE, tu sei stato propizio alla tua terra, hai ricondotto Giacobbe dalla deportazione.

2 Hai perdonato l’iniquità del tuo popolo, hai cancellato tutti i suoi peccati.
3 Hai placato il tuo sdegno, hai desistito dalla tua ira ardente.

4 Ristoraci, o Dio della nostra salvezza, fa’ cessare la tua indignazione contro di noi.
5 Sarai adirato con noi per sempre? Prolungherai la tua ira d’età in età?

6 Non tornerai forse a darci la vita, perché il tuo popolo possa gioire in te?
7 Mostraci la tua bontà, SIGNORE, e concedici la tua salvezza.

8 Io ascolterò quel che dirà Dio, il SIGNORE: egli parlerà di pace al suo popolo e ai suoi fedeli, purché non ritornino ad agire da stolti!

9 Certo, la sua salvezza è vicina a quelli che lo temono, perché la gloria abiti nel nostro paese.

10 La bontà e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate.
11 La verità germoglia dalla terra e la giustizia guarda dal cielo.

12 Anche il SIGNORE elargirà ogni bene e la nostra terra produrrà il suo frutto.

13 La giustizia camminerà davanti a lui, e seguirà la via dei suoi passi.


I salmi, più di altri testi biblici, sono veramente un intreccio tra Parola di Dio e parola umana, perché da un lato sono preghiera, quindi parola umana, a volte preghiera del singolo, individuale, a volte del popolo e quindi collettiva. Ma al tempo stesso sono Parola di Dio, preghiera diventata Parola di Dio, e che quindi non esprime soltanto il punto di vista umano, ma anche quello di Dio. E in questo bellissimo salmo questo si vede molto bene. Ma molti salmi sono anche dei percorsi, dei cammini di preghiera e di fede composti da diverse tappe, come in questo salmo 85. proviamo allora a percorrere questo cammino, a fare anche noi il percorso che fa il salmo.

1. Il salmo inizia con quella che potremmo chiamare una confessione di fede per ciò che Dio ha fatto nel passato: O SIGNORE, tu sei stato propizio alla tua terra, hai ricondotto Giacobbe dalla deportazione. Hai perdonato l’iniquità del tuo popolo, hai cancellato tutti i suoi peccati. Hai placato il tuo sdegno, hai desistito dalla tua ira ardente.

Dio ha fatto, ha fatto tutte queste cose, che il salmista conosce bene. Il salmista, colui cioè che prega, prega perché conosce Dio, sa quello che Dio ha fatto per lui e per il popolo. In particolare qui il salmista si riferisce al ritorno di Israele dall’esilio in babilonia: hai ricondotto Giacobbe dalla deportazione. Il salmista prega il Dio che ha liberato il popolo, magari non lui personalmente, ma la generazione precedente, non sappiamo. Il salmista prega perché Dio ha agito. La preghiera nasce da questa conoscenza di Dio e delle sue opere, perché Dio si è rivelato nelle sue opere, come la liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto e dall’esilio in Babilonia.

Questo vale anche per la nostra preghiera. Anche noi preghiamo perché conosciamo ciò che Dio ha fatto per noi nel suo figlio Gesù. La preghiera nasce dalla fiducia e la fiducia nasce dalla conoscenza delle opere che Dio ha compiute. Ho detto: opere che Dio ha compiute”, cioè nel passato. Avrete notato che tutti i verbi di questa prima parte del salmo sono al passato: hai ricondotto, hai perdonato ecc. Il percorso che questo salmo descrive in tre tappe, è caratterizzato da tre tempi diversi: il passato, il presente e il futuro. E infatti i verbi della prima parte sono al passato, quelli della parte centrale al presente e quelli dell’ultima parte al futuro.

Ciò che Dio ha fatto nel passato porta alla confessione della fede e dunque alla gratitudine. La preghiera nasce dalla gratitudine per ciò che Dio ha fatto e dalla fiducia che Dio che ha operato nel passato, opera anche nel presente e nel futuro.

2. La seconda parte del salmo, cioè la seconda tappa del percorso è proprio il presente. E nel presente le cose non vanno molto bene. Dio ha perdonato, Dio ha ricondotto il popolo dall’esilio nella sua terra, ma ora le cose non vanno bene e c’è di nuovo bisogno di perdono, e infatti la preghiera è: Ristoraci, o Dio della nostra salvezza, fa’ cessare la tua indignazione contro di noi. Il popolo ha di nuovo bisogno del perdono di Dio. Il salmista prega perché il Dio che ha perdonato nel passato perdoni nuovamente nel presente. Prega perché sa che Dio può perdonare di nuovo nel presente.

E quindi, dopo la confessione di fede in Dio per ciò che ha fatto, viene ora la richiesta vera e propria, formulata con verbi al presente e all’imperativo: ristoraci! Fa’ cessare la tua indignazione… Ma in mezzo alla preghiera di richiesta, incontriamo delle domande: “Sarai adirato con noi per sempre? […] Non tornerai forse a darci la vita?”. Ecco un esempio della parola umana intrecciata alla Parola di Dio: la domanda è uno dei modi umani, molto umani, di rivolgersi a Dio.

La preghiera nasce dalla confessione di fede, è per fede che si può chiedere, ma poiché la fede è una relazione, a Dio non facciamo soltanto richieste, ma anche domande, tante domande. Questo salmo ci insegna quindi che nella nostra preghiera trovano posto anche le domande.

Il presente è dunque fatto di richiesta di perdono e di domande, domande che sono in fondo un altro modo di esprimere la preghiera di richiesta: la domanda “Non tornerai forse a darci la vita?”, vuol dire in fondo: torna a darci la vita! Nella prima tappa si confessa la fede e quella fede fa sì che nella seconda tappa del percorso si possa chiedere e domandare.

3. Poi nel salmo avviene una svolta. Nella parte finale del salmo – dunque nell’ultima tappa del percorso - i verbi sono al futuro, e il verbo al futuro indica la promessa di Dio. Ma prima dello sguardo verso il futuro, cioè verso le promesse di Dio, c’è una frase che dà la vera e propria svolta alla preghiera del salmista: “io ascolterò quel che dirà Dio, il SIGNORE”. Altri traducono “voglio ascoltare ciò che dice il Signore”.

Che cos’è che fa passare dal presente al futuro? Che fa passare dalla richiesta, dalla supplica, nuovamente alla fede nelle promesse di Dio? È l’ascolto di ciò che Dio ha da dirci, l’ascolto della Parola di Dio. Il salmista ascolta Dio e che cosa dice Dio? “egli parlerà di pace al suo popolo e ai suoi fedeli. Dio parla di pace. Dio parla di pace al suo popolo, la pace di Dio, che prevede che Israele mantenga il patto che si è preso con lui.

Dio vuole la pace con e per il suo popolo, ma il popolo deve ovviamente fare la sua parte. Per questo il salmista chiede perdono, perché il popolo non ha fatto la sua parte e si è allontanato da Dio. E infatti quando il salmista si mette in ascolto di Dio, Dio parla di pace, ma poi aggiunge: “purché non ritornino ad agire da stolti!”. Se il popolo torna ad agire da stolto, se cioè cerca la pace dove non la si può trovare, nelle alleanze militari con i paesi vicini più forti, nell’idolatria…. Allora rischia di perdere la pace, come sembra sia successo, visto che il salmista deve chiedere a Dio di intervenire.

In questa parte del salmo è Dio che parla; si suppone che il salmo fosse letto nella liturgia del culto e che un’altra voce, diversa da chi ha pronunciato la prima parte del salmo, riferisca queste parole di Dio. Un po’ come quando nel nostro culto leggiamo l’annuncio del perdono, che viene pronunciato da chi presiede il culto ma vuole comunicare e annunciare la Parola di Dio. Quindi qui non si tratta di saggi consigli di un fratello o di una sorella ma di Parola di Dio. Il popolo è posto davanti all’alternativa tra l’ascoltare la Parola di Dio e l’agire da stolti, cioè l’ascoltare qualcun altro.

Chi sceglie di ascoltare ciò che Dio ha da dire, può andare avanti nell’ascolto del salmo.

4. E la prima cosa che ascolta è “Certo, la sua salvezza è vicina a quelli che lo temono”. Se il salmista supplica Dio è perché lo sentiva lontano e chiede perdono perché sa che è il popolo che si è allontanato da Dio. La risposta è che la salvezza di Dio invece è vicina per quelli che lo temono, cioè che si affidano a lui.

La frase è preceduta dall’espressione “Certo”. È certo, è una certezza, quello che questo salmo sta dicendo al popolo – e a noi – da parte di Dio: la salvezza è vicina per chi lo teme, ovvero si affida a lui. È una certezza fondata sulle promesse di Dio.

E poi incontriamo quel bellissimo verso che dice “La bontà e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate”. Sono le parole che in tutto l’AT esprimono la fedeltà di Dio e le sue promesse: bontà, verità, giustizia e pace, le parole d’oro che ci descrivono Dio, quello che Dio è e fa. E anche se ovviamente il salmo non parla di Gesù, per noi cristiani è difficile non vedere come questo incontro tra bontà e verità e questo bacio tra giustizia e pace sono avvenuti per noi in Cristo, che ci ha rivelato la bontà e la verità di Dio e ci ha portato la giustizia e la pace di Dio.

Il salmo rappresenta quindi un’ottima scuola di preghiera, che per noi sarà rivolta a Dio in Cristo; è nel suo nome, infatti, che noi ci rivolgiamo a Dio in preghiera. Questa scuola di preghiera, questo salmo, ci dice che la preghiera nasce dalla fede in Dio e dalla riconoscenza per ciò che Dio ha fatto per noi – e per noi lo ha fatto nel suo figlio Gesù.

La preghiera non può poi non mettere nelle mani di Dio il nostro allontanamento da lui e chiedergli perdono, perché Dio ha perdonato e vuole e può perdonare. E infine nella preghiera ci si mette in ascolto della Parola di Dio, ascolta la voce di Dio che rinnova le sue promesse.

Così anche noi cristiani impariamo a pregare dal salmo dell’antico Israele e siamo grati a Dio per averci donato questa scuola di preghiera, attraverso la voce del salmista che ha pregato con fiducia il Signore ed ha creduto nelle sue promesse.