domenica 28 febbraio 2021

Predicazione di domenica 28 febbraio 2021 su Isaia 5,1-7 a cura di Marco Gisola

Isaia 5,1-7

1 Io voglio cantare per il mio amico il cantico del mio amico per la sua vigna.
Il mio amico aveva una vigna sopra una fertile collina.
2 La dissodò, ne tolse via le pietre, vi piantò delle viti scelte,
vi costruì in mezzo una torre, e vi scavò uno strettoio per pigiare l’uva.
Egli si aspettava che facesse uva,invece fece uva selvatica.
3 Ora, abitanti di Gerusalemme e voi, uomini di Giuda, giudicate fra me e la mia vigna!
4 Che cosa si sarebbe potuto fare alla mia vigna più di quanto ho fatto per essa?
Perché, mentre mi aspettavo che facesse uva, ha fatto uva selvatica?
5 Ebbene, ora vi farò conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna:
le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata.
6 Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine;
darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia.
7 Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele,
e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta;
egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!


Che cosa avrei potuto fare di più per voi? Questo viene a dirci oggi il Signore attraverso questa antica parola rivolta a Israele per bocca del profeta Isaia. Questa parola detta allora per Israele è detta oggi anche a noi. Così è la Parola di Dio, è radicata nella storia, viene pronunciata in un momento preciso a persone precise, ma poi è pronunciata in ogni tempo a tutti coloro che la vogliono ascoltare.
Che cosa avrei potuto fare di più per voi? Questo viene a chiederci oggi il Signore attraverso questa antica parola, che è una parola di giudizio. Una parola di giudizio che arriva a Israele sotto forma di parabola, di racconto, che vuole portare il popolo a pronunciare lui stesso il giudizio su di sé, come aveva fatto il profeta Natan con Davide.
È un racconto che a prima vista potrebbe essere un canto di amore, di un uomo che descrive la sua amata come una vigna: «Il mio amico aveva una vigna sopra una fertile collina. La dissodò, ne tolse via le pietre, vi piantò delle viti scelte, vi costruì in mezzo una torre, e vi scavò uno strettoio per pigiare l’uva. Egli si aspettava che facesse uva, invece fece uva selvatica…». Un canto di amore, ma di un amore deluso. 
La parola ebraica che qui è tradotta con uva selvatica è in realtà una parola molto rara che ha a che fare con qualcosa che puzza…! Dunque potremmo dire uva marcia, del marciume; doveva nascere uva pregiata e invece ecco che è marcia…!
Dopo i primi due versetti, prende la parola l’amico del profeta, cioè il proprietario della vigna ed è qui che quello che poteva sembrare un canto d’amore si trasforma in parola di giudizio, anzi in una richiesta che il proprietario della vigna fa a chi l’ascolta di giudicare: giudicate voi tra me e la mia vigna! Tra me che ho fatto tutto per lei e lei che produce frutti marci. 
E poi, poco più avanti, è chiaro che il padrone della vigna è Dio, perché solo lui può dare «ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia». E infine è detto esplicitamente che «la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele».
Che cosa si aspettava il padrone della vigna? Il padrone della vigna, cioè Dio, dalla vigna, che è Israele, si aspettava che facesse uva, uva buona ovviamente. Non si aspettava che la vite producesse angurie, non si aspettava cioè qualcosa che la vigna non poteva fare. Si aspettava uva, l’uva che quel tipo di vite era perfettamente in grado di produrre.
E invece produce uva marcia. L’ultimo versetto esce dall’immagine e ci dice chiaramente che cosa sta succedendo in mezzo al popolo: Dio «si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!». C’è violenza che fa scorrere sangue e fa gridare le vittime di angoscia. Questa è l’uva marcia.
Tutto l’ Antico Testamento – e poi anche tutto il Nuovo Testamento – ci dice che Dio non tollera l’ingiustizia; che Dio, che ha liberato il suo popolo, non tollera che nel suo popolo qualcuno tolga questa libertà agli altri. Che Dio, che ha nutrito il suo popolo nel deserto, non tollera che qualcuno venga ridotto alla fame. Anche oggi Dio guarda il mondo e vede scorrere sangue e ascolta le grida di angoscia di tutte le vittime. 
Dio non tollera l’ingiustizia, non tollera che la vigna faccia il contrario di ciò che dovrebbe fare. E il giudizio consiste nel fatto che Dio non si occupa più della vigna, non la guarda più, non la cura più, lascia il terreno in balìa degli animali che ne faranno il loro pascolo. 
Il giudizio è che se Israele abbandona Dio, Dio abbandona Israele. Certo vi sono molti brani nell’Antico Testamento in cui Dio dice che non abbandonerà mai il suo popolo, che se anche una madre dovesse, per assurdo, abbandonare suo figlio, non così si comporterà Dio. Ma qui il giudizio c’è e non possiamo cancellarlo.
Forse davanti a questa parola di giudizio rimaniamo interdetti, sconcertati. E nel nostro sconcerto corriamo due rischi:  il primo è quello della rassegnazione, di pensare che noi in fondo non siamo meglio di Israele, e che questo giudizio è rivolto oggi proprio anche a noi. 
Dio ha fatto molto per noi, anzi ha fatto tutto e per noi cristiani questo tutto è arrivato al dono di suo figlio per la nostra salvezza… e noi come gli rispondiamo? Forse che Dio vuole abbandonarci, come con la vigna del racconto di Isaia? 
Il secondo rischio è quello opposto, di sminuire questo testo, magari dicendo che non è rivolto a noi. In fondo è rivolto a Israele… oppure potremmo pensare che noi abbiamo Gesù che in lui il giudizio è superato dalla grazia e che quindi queste parole non sono per noi.
A me pare che questi due letture opposte non rendano ragione del testo così com’è. Nel primo caso o veniamo sopraffatti dalla rassegnazione davanti a queste parole oppure strappiamo via la pagina della Bibbia e non lo consideriamo. Nel secondo caso, se sminuiamo questo testo, diciamo in pratica che Dio oggi non ci parla, non sta parlando a noi.
Evitando questi due estremi, vorrei provare a leggere questo testo prendendolo così com’è e provando a entrarci dentro. Prenderlo così com’è vuol dire riconoscere che – sì - è una parola di giudizio; e che – sì - è rivolta a noi, non solo all’antico Israele allora, ma anche a noi oggi.
E entrarci dentro vuol dire provare a mettersi nei panni dell’ascoltatore di allora. Che cosa sente l’Israelita che ascolta Isaia pronunciare queste parole? Facciamo attenzione ai tempi dei verbi: 
«Che cosa si sarebbe potuto fare alla mia vigna più di quanto ho fatto per essa?» Dio ha fatto, ha già fatto, tutto quello che era possibile per la sua vigna, cioè per il suo popolo, cioè per noi. Per noi ha fatto tutto ciò che poteva, fino a mandare per noi Gesù, di più proprio non poteva fare… 
Nel momento in cui questa parola viene pronunziata da Isaia, Dio ha già fatto, fino a quel giorno Dio ha fatto tutto il possibile. E questo vale anche nel momento in cui noi ascoltiamo questa parola, che non è più soltanto detta allora a Israele, ma viene detta ora a noi. Oggi noi ascoltiamo questa parola, fino a oggi Dio ha fatto tutto il possibile per noi, di più non poteva fare.
E poi Dio fa dire a Isaia: «ora vi farò conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata. Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine; darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia».
Questo è ciò che Dio sta per fare. Ma non lo ha ancora fatto: tutti i verbi sono al futuro: toglierò la siepe, abbatterò il muro, ne farò un deserto…. Sono le intenzioni del contadino deluso dalla sua vigna che produce solo uva marcia.
Tra questo passato e questo futuro c’è il presente in cui la Parola di Dio raggiunge Israele attraverso Isaia. E raggiunge anche noi. 
In questo presente è vero ciò che dice l’ultimo versetto che abbiamo letto: «Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta; egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!»
In questo presente in cui la parola di Dio raggiunge Israele e raggiunge noi «la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta», Israele è ancora la vigna del Signore, gli uomini di Giuda sono ancora la sua piantagione prediletta. Dio non l’ha ancora tolta la sua vigna; è ancora lì. 
E anche oggi, Israele è ancora lì. Nonostante tutto quello che ha subito nella sua lunga storia il popolo di Israele è ancora lì. E anche noi siamo ancora lì. Siamo ancora qui, Dio non ci ha ancora abbandonati, siamo ancora coloro che lui ha chiamati alla fede e inviati a praticare la giustizia. Siamo ancora qui e siamo ancora sotto il suo giudizio, perché non facciamo i frutti che Dio vorrebbe da noi. Ma siamo ancora qui e siamo ancora davanti a Dio.
Con linguaggio giuridico, potremmo dire: il giudizio è stato emesso, ma la sentenza non è ancora stata eseguita. 
Siamo qui in questo presente in cui il giudizio è stato emesso ma non ancora eseguito. È il tempo dell’ascolto e della possibile conversione. Il giudizio è sempre appello, è sempre invito a tornare a Dio, c’è un tempo in cui possiamo ancora ascoltare e riconoscere che Dio ha ragione, che il suo giudizio è giusto.
Le parole di giudizio ci fanno paura non vorremmo sentirle, perché il giudizio di Dio dice la verità su di noi. Ma senza giudizio non c’è verità e senza verità non c’è grazia. E dunque senza giudizio non c’è grazia. Perché Dio è misericordioso, ma è anche giusto. E come ha scritto Paolo Ricca commentando il Catechismo di Heidelberg, “solo Dio riesce ad essere al tempo stesso misericordioso e giusto” (p. 40).
Dio non passa sopra all’uva marcia della sua vigna, non può fare finta che sia uva buona. Dio non passa sopra alle nostre ingiustizie, non può fare finta che non ci siano, che noi non le abbiamo commesse. Quindi va ad accusare la sua vigna che non fa quello che dovrebbe fare. Questo fa il Dio giusto, che è anche il Dio misericordioso, ma che è anche il Dio giusto che non tollera l’ingiustizia.
C’è una buona notizia in questo brano di giudizio? La buona notizia c’è, ed è che Dio va a parlare alla sua vigna prima di abbandonarla, va a parlare al suo popolo prima di abbandonarlo, va a parlare al suo popolo che lo ha abbandonato, prima di lasciarlo andare al destino che si è scelto.
No, proprio spargimenti di sangue e grida di angoscia Dio non li tollera. Ma il suo popolo è ancora in tempo per estirpare l’ingiustizia, la vigna è ancora in tempo per tornare a produrre uva prelibata. 
Per fare questo bisogna tornare a Dio. Il giudizio è il modo in cui Dio viene a cercarci quando è deluso di noi, dalla nostra ingiustizia. Per vincere l’ingiustizia bisogna tornare a Dio, e Dio è lì che ci aspetta, anzi è venuto lui a cercarci, perché anche il giudizio è un modo in cui Dio viene a cercarci. 
È davvero il canto di un amore deluso, non d un uomo per una donna, ma di Dio per il suo popolo, per noi. È amore deluso, ma è amore. Per questo Dio viene a cercarci. Anche quando è deluso viene a cercarci e lo fa solo per amore. 

domenica 21 febbraio 2021

Predicazione di domenica 21 febbraio su Giovanni 13,12-17 a cura di Marco Gisola

 Giovanni 13,12-17

12 Quando dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe ripreso le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: «Capite quello che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15 Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io. 16 In verità, in verità vi dico che il servo non è maggiore del suo signore, né il messaggero è maggiore di colui che lo ha mandato. 17 Se sapete queste cose, siete beati se le fate.


Libertà. La libertà è ciò che celebriamo nella festa del 17 febbraio, i diritti civili e politici che re Carlo Alberto concesse ai valdesi nel 1848. Diritti civili, quindi, ma, come sapete, non libertà di culto: l’editto del re affermava chiaramente che “nulla è però innovato riguardo all’esercizio del loro culto e alle scuole da essi dirette”.

Libertà che però i valdesi si sono presi, approfittando del clima liberale che c’era, andando a predicare l’evangelo in tutta l’Italia, man mano che veniva unificata.

Libertà. E il testo di oggi ci parla di libertà? Sono le parole che Gesù dice ai suoi discepoli subito dopo aver lavato loro i piedi, un gesto che – se vogliamo leggerlo così - ci parla della libertà di Gesù. Libertà di Gesù di spogliarsi, cioè di togliersi le sue vesti, e di mettersi in ginocchio per lavare i piedi dei suoi discepoli. 

Libertà di lavare i piedi di Pietro, che protesta scandalizzato a vedere il suo maestro lì per terra davanti a lui; libertà di lavare i piedi di Giuda, che poco dopo intingerà il boccone nel piatto di Gesù e poi uscirà, quando è già notte, per andare a consegnare Gesù a chi lo metterà n croce.

Gesù dice ai suoi discepoli: avete capito che cosa ho fatto? Avete capito che questo gesto che ho compiuto non solo per voi, ma a voi, toccando i vostri piedi, è un esempio? Un esempio che voi dovete imitare, lavandovi i piedi gli uni agli altri?  Ma non è ovviamente solo il gesto di lavarsi i piedi gli uni gli altri che dovete imitare, ma il diventare servi gli uni degli altri.

E avete capito che questo gesto, che ho compiuto a voi e per voi, rimanda alla croce che mi aspetta? Avete capito che il mio farmi servo mi porterà fino là, fino alla croce? 

Forse la prima cosa – che quel gesto Gesù lo ha compiuto per lasciare loro un esempio – lo hanno capito, ma che quel gesto preludeva alla croce, che era una tappa del cammino verso la croce, questo probabilmente no, difficilmente lo avranno capito; capiranno tutto solo dopo, dopo la croce e dopo Pasqua. 

Capire e fare, questo è ciò che Gesù chiede ai suoi discepoli, e a noi. E questa è la beatitudine che Gesù pronuncia qui e che è il culmine del racconto della lavanda dei piedi: «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

«Se sapete… se fate…» nel sapere e nel fare sta la nostra beatitudine. Perché nel sapere e nel fare sta la nostra fede e nel sapere e nel fare sta anche la nostra libertà. Non soltanto nel sapere e non soltanto nel fare. Ma nel sapere e nel fare insieme.

Che cosa è che devono sapere – e dunque credere - i discepoli? Che Gesù è loro maestro e Signore. E questo lo sanno, Gesù dice loro: «Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono». Dunque sembra che i discepoli sappiano ciò che c’è da sapere su Gesù. 

Ma forse invece non sanno tutto o non sanno tutto nel modo corretto. Forse pensano di sapere: di sapere che Gesù è un Signore glorioso e un maestro degno di onore. E allora Gesù si spoglia e si china ai loro piedi per lavarli loro.

Devono sapere anche questo. Non basta che sappiano che Gesù è il Signore; devono anche sapere che Gesù è il Signore che si china e si fa servo e che lo fa per loro. Non basta che sappiano che Gesù è il maestro; devono anche sapere che Gesù è il maestro che insegna loro a chinarsi e a farsi servi gli uni per gli altri. Se sanno questo, allora sapranno anche che il loro fare deve andare in questa direzione, sapranno che il loro fare non deve solo imitare il gesto del maestro e Signore, ma il suo atteggiamento davanti all’altro essere umano, il suo chinarsi e farsi servo.

E potranno farlo solo se sapranno chi è veramente il maestro che hanno davanti e il Signore in cui credono. Credere consiste nel sapere e nel fare questo. Nel sapere che cosa Gesù ha fatto e che cosa Gesù chiede loro di fare per servire il prossimo che il Signore ci dà. E in questo sta la nostra beatitudine. In questo sapere e fare è la nostra fede e in questo sapere e fare è la nostra libertà. Solo se sai che sei libero perché Dio in Cristo ti ha liberato, puoi liberamente servire. Solo se sai che sei libero, che sei stato liberato in Cristo, puoi chinarti come lui a lavare i piedi al prossimo.  E allora l’umiltà non è umiliazione e il servizio non è schiavitù, ma è libertà.

Forse in questo racconto troviamo una delle immagini più alte della libertà di Gesù, della libertà assoluta di Gesù: Gesù che lava i piedi a Giuda. Gesù è così libero davanti agli esseri umani che può chinarsi ai piedi di Giuda e lavargli i piedi; ben sapendo che cosa Giuda stava per fare. Gesù è stato così libero da lavare i piedi anche a Giuda. Come è stato così libero – così ci racconta Giovanni, a differenza degli altri vangeli – da portare lui stesso la propria croce. Per ribadire che «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine», come viene detto all’inizio del racconto della lavanda dei piedi.

La libertà di Gesù è stata vera libertà non perché non aveva nulla da perdere, ma perché non aveva nulla da vincere. E la resurrezione, cioè la vittoria di Pasqua, non rende meno crudele la sua passione, non rende meno terribile la sua morte e non rende meno vero il suo farsi servo.

Sapere chi è Gesù e che cosa ha fatto per noi è la nostra fede e la nostra libertà. Ed è un sapere che include un fare; sapere e fare insieme. 

Forse è questo che ha aiutato i valdesi ad attendere così tanto tempo la libertà: forse hanno resistito secoli nel ghetto delle valli perché sapevano chi era Gesù e che cosa aveva fatto per loro. Forse hanno aspettato così lungo la libertà perché erano già liberi. E quando l’hanno avuta davvero la libertà, hanno capito che questa libertà non era soltanto un dono, ma era una vocazione, che non era soltanto questione di essere liberi ma di usare la libertà tanto attesa e ora ricevuta. Ora potevano andare a coltivare la terra in pianura anziché in montagna, potevano mettere su un’attività commerciale a Pinerolo, o andare all’università a Torino. E l’avranno senz’altro fatto. E potevano fermarsi lì. 

E invece hanno capito e sono stati aiutati a capire che o avrebbero usato quella libertà per predicare l’evangelo o non sarebbero stati nulla: “o sarete missionari o non sarete nulla”, scrisse Beckwith al moderatore di allora. Non dico questo per fare retorica o per gloriarsi di un lontano passato, ma per dire che hanno capito che la loro libertà non era per loro, ma era per l’evangelo ed era per gli italiani. Si illusero anche senz’altro che molti italiani non aspettassero altro che la predicazione evangelica, ma in ogni caso trasformarono quel dono in servizio: l’Italia che stava nascendo aveva, secondo loro, bisogno di evangelo e di scuole.

E questo fecero, così interpretarono la loro vocazione. Ne abbiamo un esempio nel tempio di Piedicavallo, in cui c’erano sala di culto, la scuola e l’abitazione della maestra, che in settimana insegnava ai bambini a leggere e scrivere e la domenica faceva scuola domenicale. 

Potremmo dire che questa fu la loro risposta alla domanda di Gesù: «capite quello che vi ho fatto?» 

Questa è la domanda che oggi la Parola di Dio pone anche a noi: «capite quello che vi ho fatto?». Capite che quello che ho fatto io per voi, dovete farlo voi per gli altri? Capite che la libertà che ho avuto io di chinarmi ai vostri piedi per lavarveli è la stessa che avete voi, miei discepoli e discepole? E capite che proprio questo è il senso e lo scopo della libertà che io – non Carlo Alberto - vi do, quello di potervi chinare senza umiliarvi e di poter servire senza essere schiavi, ma rimanendo liberi?

Il Signore ci aiuti a rispondergli ogni giorno, ci aiuti a capire e a fare, a imparare sempre di nuovo quello che ha fatto per noi e a fare ciò che vuole da noi e a tenere sempre uniti il sapere – cioè il credere - e il fare. 

Perché anche a noi Gesù dice: «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

lunedì 15 febbraio 2021

Predicazione di domenica 14 febbraio 2021 su Isaia 58 a cura di Marco Gisola

Isaia 58
1 «Grida a piena gola, non ti trattenere, alza la tua voce come una tromba;
dichiara al mio popolo le sue trasgressioni, alla casa di Giacobbe i suoi peccati.
2 Mi cercano giorno dopo giorno, prendono piacere a conoscere le mie vie,
come una nazione che avesse praticato la giustizia e non avesse abbandonato la legge del suo Dio;
mi domandano dei giudizi giusti, prendono piacere ad accostarsi a Dio.
3 "Perché", dicono essi, "quando abbiamo digiunato, non ci hai visti? 
Quando ci siamo umiliati, non lo hai notato?"
Ecco, nel giorno del vostro digiuno voi fate i vostri affari ed esigete che siano fatti tutti i vostri lavori.
4 Ecco, voi digiunate per litigare, per fare discussioni, e colpite con pugno malvagio;
oggi, voi non digiunate in modo da far ascoltare la vostra voce in alto.
5 È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l’uomo si umilia?
Curvare la testa come un giunco, sdraiarsi sul sacco e sulla cenere,
è dunque questo ciò che chiami digiuno, giorno gradito al SIGNORE?
6 Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità,
che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo?
7 Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame,
che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra
e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?
8 Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente;
la tua giustizia ti precederà, la gloria del SIGNORE sarà la tua retroguardia.
9 Allora chiamerai e il SIGNORE ti risponderà; griderai, ed egli dirà: "Eccomi!"
Se tu togli di mezzo a te il giogo, il dito accusatore e il parlare con menzogna; 
10 se tu supplisci ai bisogni dell’affamato, e sazi l’afflitto,
la tua luce spunterà nelle tenebre, e la tua notte oscura sarà come il mezzogiorno;
11 il SIGNORE ti guiderà sempre, ti sazierà nei luoghi aridi,darà vigore e tue ossa;
tu sarai come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai.
12 I tuoi ricostruiranno sulle antiche rovine; tu rialzerai le fondamenta gettate da molte età
e sarai chiamato il riparatore delle brecce, il restauratore dei sentieri per rendere abitabile il paese.
13 Se tu trattieni il piede dal violare il sabato, facendo i tuoi affari nel mio santo giorno;
se chiami il sabato una delizia e venerabile ciò che è sacro al SIGNORE;
se onori quel giorno anziché seguire le tue vie e fare i tuoi affari e discutere le tue cause,
14 allora troverai la tua delizia nel SIGNORE; io ti farò cavalcare sulle alture del paese,
ti nutrirò della eredità di Giacobbe tuo padre», poiché la bocca del SIGNORE ha parlato.

Ecco il programma di governo. Non il governo Draghi, ovviamente, o il governo Conte, o il governo di qualunque altro presidente del consiglio, ma il programma che Dio ci dà per governare la nostra vita di credenti, il governo del nostro stare nel mondo come discepoli del Cristo che i profeti come Isaia hanno annunciato.
«Che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo […] Che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne…»
Un programma ripreso da Giovanni il battista, quando ha detto alla folla «Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (Luca 3,11). Un programma non solo ripreso, ma incarnato nella sua persona da Gesù, che infatti nella parabola del giudizio di Matteo 25 ha detto «ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui straniero e mi accoglieste; fui nudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi» (Matteo 25,31ss.).
Un programma che potremmo riassumere in due parole: liberazione e condivisione. 
Liberazione: «che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo». Dio, attraverso la voce del profeta, condanna lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, che trattavano spesso i poveri come schiavi facendoli lavorare per arricchirsi. Dio chiede giustizia, e la giustizia – ai tempi di Isaia esattamente come oggi – è innanzitutto giustizia economica, è giustizia che parte dai bisogni essenziali, quindi dai diritti essenziali di ogni essere umano, dal cibo alla casa, dunque al lavoro e – in questo anno ce ne siamo accorti più che mai - alla cura.
Forme di sfruttamento e di schiavitù ci sono anche oggi, lo sappiamo. Dai molti italiani che fanno lavori sottopagati, alle giovani donne che non trovano lavoro se vogliono avere figli, ai migranti, magari senza permesso di soggiorno e quindi ricattabili, trattati da veri e propri schiavi per raccogliere i pomodori, perché noi possiamo pagare un po’ meno la passata di pomodoro al supermercato.
Condivisione: «che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne». È il nostro pane che siamo chiamati a dividere, è la nostra casa che siamo chiamati ad aprire ai senzatetto, sono i nostri vestiti quelli con cui ci è chiesto di coprire chi è nudo…  Una parola che – ammettiamolo – ci mette molto in crisi, e che – parlo per me, non voglio giudicare nessuno – sono molto lontano dal vivere. Una parola, condivisione, che ci interpella, che ci chiede di essere messa in pratica nella nostra vita quotidiana. 
Una parola che oggi interpella i paesi ricchi e i loro governi, per esempio, riguardo ai vaccini. Perché alle tante disuguaglianze che ci sono tra la parte benestante del mondo e quella povera si aggiunge oggi la questione dei vaccini. Ci sono previsioni per cui nei paesi dell’Africa, si potrà raggiungere l’immunità di gregge riguardo al Covid nel 2024! tra quattro anni! Quando noi nella parte benestante del mondo vorremmo raggiungerla entro quest’anno.  I paese ricchi hanno finanziato i vaccini e giustamente cercano di vaccinare al più presto possibile i loro abitanti. E i paesi poveri? Chi non aveva i soldi per finanziare la ricerca e non ha nemmeno i soldi per fare gli ospedali…? Condivisione. Dio ci interpella riguardo alla nostra volontà di condivisione.
Ma questo programma politico, concretamente politico, se leggiamo bene il testo, è un programma spirituale. Al centro della parola del profeta c’è la relazione con Dio: il brano inizia parlando del digiuno e si chiude parlando del sabato, due momenti chiaramente spirituali, “religiosi”.
Ma per Dio non c’è quella distinzione netta tra politico e spirituale che spesso facciamo noi. Non c’è, perché la vita è una e la persona è una: viviamo davanti a Dio, sotto lo sguardo di Dio sia quando veniamo al culto, sia quando andiamo al mercato. Non abbiamo due vite, non siamo due persone.
E anche Dio è uno solo, è lo stesso Dio che ci viene incontro nella sua parola di misericordia e nel prossimo oppresso. E allora quello che ho chiamato “programma politico” non è altro che il nostro culto. È un programma politico-spirituale che diventa il nostro culto.
Coloro che Dio rimprovera, attraverso le parole di Isaia, partecipano al culto del tempio: «Mi cercano giorno dopo giorno, prendono piacere a conoscere le mie vie», dice Dio parlando di loro.  Partecipano alla vita religiosa di Israele; digiunano. E si stupiscono che il loro culto non sia gradito al Signore e dunque si lamentano con Dio e gli dicono: «Perché quando abbiamo digiunato, non ci hai visti? Quando ci siamo umiliati, non lo hai notato?». Eh già, perché? Perché Dio non apprezza il loro digiuno e i loro sforzi di piacergli, di essergli graditi? Loro vanno al tempio, vanno a Dio…! 
Sì, loro vanno a Dio, ma vanno a Dio senza il prossimo. Il prossimo lo lasciano fuori dal loro culto, pensano di poter celebrare il culto senza il prossimo. Ci vanno da soli, vanno a cercare Dio ma non si occupano dei poveri che vivono in mezzo a loro. Anzi i poveri li sfruttano, sono proprio loro, quelli che digiunano e cercano Dio che agiscono ingiustamente.
Dio li rimprovera di «nascondersi a colui che è carne della tua carne», cioè di voltarsi dall’altra parte per non vedere il prossimo oppresso. Si voltano dall’altra parte, non lo vogliono vedere quel prossimo mentre vanno a celebrare il loro culto. 
Perché quello che celebrano è il loro culto, non il culto di Dio. Adorano se stessi, non Dio. Vanno al culto, ma Dio non c’è. Non c’è perché loro cercano soltanto un pezzo di Dio, solo quel pezzo di Dio che li consola, che li coccola, che li rassicura, solo quel pezzo di Dio che serve a loro per stare meglio, per sentirsi a posto con la coscienza. 
Per dirla con le parole dell’apostolo Paolo non cercano un Dio che giustifichi (e converta) il peccatore, ma un Dio che giustifichi il loro peccato, per poter continuare a commetterlo. Vanno al culto per sentirsi autorizzati a peccare ancora, ma questo non è culto, è insulto a Dio. E infatti non lo trovano, Dio non c’è, quello che cercano non è il Dio di Israele e di Gesù Cristo.
Perché Dio non si lascia fare a pezzi, non ci si può costruire un Dio “à la carte”, come se Dio fosse appunto un menù del quale si può prendere solo ciò che ci è gradito o solo ciò che ci conviene. Dio è uno ed è tutto intero. 
È il Dio che ci giustifica perché pratichiamo la giustizia. Alla sua giustizia, che è grazia, deve rispondere la nostra giustizia, che è amore e servizio del prossimo.
Dio ci viene incontro nella sua parola e nel nostro prossimo. Nella sua parola Dio ci annuncia la nostra giustificazione, nel prossimo Dio – sempre Dio - chiede la nostra giustizia.
È uno e lo stesso Dio, è il Dio che parla per mezzo di Isaia e che viene a noi nella carne del suo figlio Gesù. Non possiamo tagliarne via un pezzo, perché se facciamo così lo perdiamo tutto, non lo troviamo più, perché non lo cerchiamo dove è, ma dove non c’è.
Perché Dio è nel prossimo schiavo che cerca liberazione e nel prossimo povero che cerca condivisone.  Il programma di governo di Dio è la liberazione degli schiavi e la condivisone degli immensi doni che ci ha fatti, e quindi la sconfitta della povertà.
Se questo è il nostro programma, se crediamo che Dio è uno e lo stesso nella sua Parola e nel prossimo, nella giustificazione e nella giustizia, allora potremo andare a cercare Dio non per vantarci di quello che abbiamo fatto, ma per chiedergli perdono per ciò che non abbiamo fatto e per tutte le volte che non siamo riusciti – per incapacità o indifferenza - a mettere in pratica il suo programma. 
«Se tu supplisci ai bisogni dell’affamato, e sazi l’afflitto, la tua luce spunterà nelle tenebre, e la tua notte oscura sarà come il mezzogiorno; il SIGNORE ti guiderà sempre», dice il profeta; ti guiderà sempre attraverso la sua parola che ti porterà a vederlo e incontrarlo nel prossimo. 
La luce spunta nelle tenebre, dice Isaia. È la luce della grazia che perdona la nostra colpa e che guarisce la nostra cecità e ci permette così di vedere il prossimo in cui Dio ci viene incontro. Lì comincia il nostro culto, e quel culto gli sarà gradito: «Allora chiamerai e il SIGNORE ti risponderà; griderai, ed egli dirà: “Eccomi!”»


domenica 7 febbraio 2021

Predicazione di Domenica 7 Febbraio 2021 su Luca 8,4-8 a cura di Marco Gisola

Luca 8,4-8

4 Or come si riuniva una gran folla e la gente di ogni città accorreva a lui, egli disse in parabola:

5 «Il seminatore uscì a seminare la sua semenza; e, mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada: fu calpestato e gli uccelli del cielo lo mangiarono. 6 Un’altra cadde sulla roccia: appena fu germogliato seccò, perché non aveva umidità. 7 Un’altra cadde in mezzo alle spine: le spine, crescendo insieme con esso, lo soffocarono. 8 Un’altra parte cadde in un buon terreno: quando fu germogliato, produsse il cento per uno». Dicendo queste cose, esclamava: «Chi ha orecchi per udire oda!»



Il seminatore uscì a seminare. Così inizia una delle più note parabole di Gesù. Il seminatore uscì a seminare, e possiamo supporre, seminò a lungo, forse tutto il giorno, perché il contadino sa che quando è ora di seminare non bisogna perdere tempo e bisogna cogliere il momento giusto.

Il seminatore uscì a seminare e, come usava allora in Palestina, gettò il suo seme dappertutto. Perché allora prima si seminava e soltanto dopo si arava. Altrimenti potremmo pensare che il seminatore sia uno sciocco, o almeno un po’ distratto e getti via il seme a caso…!

Si seminava anche su quella parte di terreno che era stata usata come strada per far passare uomini e animali, su quella parte di terreno sotto la quale c’era la roccia, ma a prima vista non si vedeva, anche tra le poche piante selvatiche che erano cresciute dopo l’ultimo raccolto. E poi si passava l’aratro e si mescolava tutto insieme e dove la terra era più profonda e migliore le piante crescevano rigogliose, altrove invece cresceva poco o nulla.

Il seminatore uscì a seminare. E probabilmente a noi viene subito in mente quello che non abbiamo letto, quello che viene subito dopo questi versetti, ovvero la spiegazione del perché su alcuni terreni il seme non ha dato frutto. È l’unico caso in cui dopo la parabola di Gesù incontriamo anche una sua interpretazione, che legge la parabola come un’allegoria e mette l’accento sui diversi tipi di terreno, cioè sui diversi tipi di ascoltatori della parola, quelli che si arrendono a causa della prova, quelli soffocati dalle preoccupazioni o dalle ricchezze, ecc.

Questa interpretazione è probabilmente stata aggiunta dalla prima comunità, che si dà così una spiegazione per un fenomeno che stava osservando, e cioè il fatto che molti non aderivano alla predicazione dall’evangelo o vi aderivano per un po’ e poi tornavano indietro per vari motivi. Per questo l’interpretazione si occupa molto più del terreno che del seme o del seminatore, su cui invece si ferma Gesù nella parabola in sé. E dunque in fondo è come se avessimo due parabole, quella raccontata da Gesù e la stessa parabola riletta dalla comunità. 

Oggi vorrei però fermarmi sulla parabola in sè. Fermarsi sulla parabola vuol dire appunto non considerare tanto i terreni su cui cade il seme, ma piuttosto l’evento della semina e l’enorme frutto che ne deriva. La parabola di Gesù, infatti, una breve parabola di poche righe, ci dice almeno tre cose:

1. Partiamo dal fondo, che è il culmine della parabola: il seme che cade sul buon terreno produce il cento per uno, ovvero cento volte tanto. Un enorme raccolto!

È il frutto del Regno di Dio. Possiamo infatti supporre che, anche se non lo dice esplicitamente, questa sia una parabola del Regno. All’inizio di questo capitolo ci viene detto che Gesù «se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio» (8,1).

Dunque, il seminatore semina e il frutto – cioè il Regno - si sviluppa in modo enorme. Non dappertutto, ma dove il terreno è buono il raccolto è grandissimo! Potremmo dire con un gioco di parole: il regno non nasce dappertutto, ma dove nasce cambia tutto!

Il messaggio sintetizzato al massimo quindi è: il seminatore semina e il raccolto è eccezionale. Fuor di metafora – o meglio: fuor di parabola – Gesù viene e il suo regno cambia la vita di molte persone. Non di tutte, che qualcuno non sia toccato dalla venuta di Gesù è messo in conto. Il seminatore accetta il fatto che su alcuni terreni non nasca nulla - potremmo dire che “tollera” i terreni che non producono frutto – ma il suo raccolto è comunque grandissimo.

Il seminatore mette in conto che non tutti i terreni diano frutto, Gesù mette in conto che non tutti coloro che lo ascoltano credono in lui. 

E tuttavia, è sufficiente che il seminatore semini e il raccolto c’è, ed è grandissimo. È sufficiente che Gesù venga e il suo regno viene e trasforma l’esistenza di molte persone. 

Questa parabola è innanzitutto una promessa, è la promessa che in Gesù è presente il regno di Dio e il suo frutto è molto grande. 


2. Seconda riflessione: «il seminatore uscì a seminare e semina dappertutto». Anche sulla strada, anche sulla roccia, anche tra le spine. Abbiamo già detto perché tecnicamente fa così. Ma il succo è che anche dove il terreno non darà frutto, il seminatore getta il suo seme; anche dove non nascerà o non crescerà, il seme è comunque gettato. 

Il seminatore non decide prima di seminare qui e di non seminare là, semina dappertutto. Non lo sa dove darà frutto e dove non darà frutto. Il regno è per tutti, il regno viene per tutti, l’evangelo è annunciato a tutti.  Il seminatore non può “costringere” tutti i terreni a essere buoni terreni e a dare frutto. Non si può costringere a credere, come e quando lo desidereremmo noi. Il seminatore semina, quello è il suo mestiere, dove il seme darà frutto e dove non darà frutto non dipende da lui.

E probabilmente l’anno successivo tornerà a seminare di nuovo quel terreno e di nuovo seminerà dappertutto, perché sempre il seme è per tutti, sempre il regno è per tutti. Tutti possono essere terreno buono e dare frutto. Questa è la ragione per cui il seminatore esce a seminare.


3. Terza ed ultima riflessione: «il seminatore uscì a seminare…» e continua ad uscire a seminare. Come un campo viene seminato ogni anno, Gesù viene ogni giorno ad annunciarci il regno di Dio, a seminare questo evangelo in noi sperando che dia frutto.

Cercando di interpretare questa parabola nei vv. successivi, la prima comunità cristiana nella sua allegoria sui vari tipi di terreno, ha fatto bene a dire che il seme è la parola di Dio. Oggi Gesù continua a seminare attraverso la sua parola, letta, ascoltata, pregata e meditata. 

La semina continua, non si è interrotta e non si interrompe. Noi siamo certo chiamati ad annunciare l’evangelo del regno, ad annunciare Gesù che porta il regno di Dio nella vita di chi lo incontra. Ma non dobbiamo identificarci troppo in fretta con il seminatore, perché continuiamo ad essere in primo luogo il terreno. Il seminatore, se proprio vogliamo fare anche noi un’allegoria, casomai è lo Spirito Santo, che si serve delle nostre povere voci e delle nostre povere vite per seminare l’evangelo del regno. Ma prima di tutto il seme viene seminato dentro di noi, prima di tutto siamo il terreno che riceve il seme, che riceve l’evangelo, che riceve il perdono, che riceve in dono la fede e la speranza.

Noi siamo il terreno che riceve tutto questo e riceve certamente anche la vocazione a dare frutto, nell’amore e nel servizio. 

Dare frutto: è il nostro compito, è la nostra vocazione, la vocazione di ognuno e ognuna di noi; e lo possiamo fare, lo possiamo fare solo perché la semina non si interrompe, perché «il seminatore uscì a seminare…» e continua ad uscire a seminare.

La semina continua, non si interrompe mai, lo Spirito lavora instancabilmente perché anche i terreni più refrattari, quelli più secchi, quelli più rocciosi, quelli più spinosi, quelli più stanchi, quelli più feriti, diano qualche frutto.

Il seminatore esce a seminare e semina l’evangelo del regno in noi e per noi. Questa è la promessa che questa parabola di Gesù fa a tutti coloro che l’ascoltano, che sono invitati a confidare nel seminatore, ovvero nel Signore che mantiene le sue promesse.

È promessa e dono di Dio la semina, ed è promessa e dono di Dio il raccolto; questa parabola è promessa e dono dall’inizio alla fine. Noi che l’ascoltiamo siamo destinatari del dono e della promessa. Grati per questo al Signore, non possiamo che chiedergli di aiutarci a portare un po’ di quel frutto che gli è gradito, di aiutarci a riconoscere in Gesù il seminatore che semina il suo regno che può cambiare tutto e trarre da un terreno incolto – che siamo noi - un grande raccolto, pieno dei frutti della sua grazia.

martedì 2 febbraio 2021

Predicazione di domenica 31 gennaio su 2 Pietro 1,16-21 a cura di Marco Gisola

 16 Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà. 17 Egli, infatti, ricevette da Dio Padre onore e gloria quando la voce giunta a lui dalla magnifica gloria gli disse: «Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto». 18 E noi l’abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo. 19 Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori. 20 Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione personale; 21 infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo.



«Noi l’abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo», dice l’apostolo Pietro parlando della trasfigurazione di Gesù.

E forse la nostra prima reazione, un po’ malinconica, potrebbe essere: e noi invece no, non abbiamo udito nessuna voce dal cielo, non abbiamo visto il volto di Gesù trasfigurato, non siamo stati su nessun monte santo…”

I nostri occhi non hanno visto e le nostre orecchie non hanno sentito. Non abbiamo – per così dire – che gli occhi e le orecchie di Pietro, di Paolo, degli altri apostoli e di quelli che hanno scritto per noi vangeli e lettere del NT. 

Come ci diceva il prof. Ricca in Facoltà, i successori degli apostoli non sono i vescovi, ma sono i loro scritti, gli scritti apostolici, cioè il Nuovo Testamento. I testimoni ci parlano quotidianamente attraverso la Scrittura. Ma non solo il Nuovo Testamento, bensì anche l’Antico: Pietro stesso dice: «Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro».

La parola profetica è qui quella dei profeti dell’Antico Testamento, ovviamente, il Nuovo Testamento non era ancora stato scritto, o meglio lo stavano scrivendo senza saperlo… Quindi potremmo dire che qui c’è tutta la Bibbia: il Nuovo Testamento (cioè l’apostolo Pietro) ci sta dicendo di prestare attenzione all’Antico Testamento, che per i primi cristiani era l’unica scrittura.

Tutta la Bibbia, quella parte che ai tempi di Pietro era già scritta da secoli, cioè l’Antico Testamento, e quella che si stava scrivendo in quei decenni, cioè il Nuovo Testamento, ci parlano della gloria e della maestà di Dio – per usare le sue parole – che sono state rivelate in Gesù nella sua trasfigurazione e in tutto il suo ministero.

La trasfigurazione è un racconto molto particolare, è una sorta di assaggio o di anticipo del regno di Dio. Il volto di Gesù trasfigurato è il suo volto divino, che si vede solo per un attimo in cima a quel monte, e lo vedono solo Pietro, Giacomo e Giovanni. Ma poi bisogna ridiscendere da quel monte, per tornare in mezzo alla gente e alle sue fatiche e ai suoi dolori, per annunciarle l’evangelo del perdono e della guarigione.

Ma quel momento è un momento alto, per usare le parole del testo che abbiamo letto, un momento in cui viene rivelata la «potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo» di cui lui è stato testimone oculare. Non si tratta dunque di «favole abilmente inventate».

Evidentemente, qualcuno diceva che la storia di Gesù, che fosse il figlio di Dio, che fosse morto e poi risorto, era tutta solo una favola e Pietro sente il bisogno di difendersi, di dare forza alla sua testimonianza, citando l’evento della trasfigurazione di cui è stato testimone.

Vorrei fermarmi un attimo su questa contrapposizione tra la «potenza» di Gesù, ovvero il fatto che Gesù è il figlio di Dio venuto per noi, e le «favole». Pietro difende in fondo la verità dell’evangelo dalle false accuse che qualcuno – non sappiamo chi – rivolgeva ai credenti in Gesù Cristo.

Erano tempi difficili per i cristiani, le persecuzioni da parte dell’impero romano iniziavano già a farsi sentire. È infatti probabile che questa lettera non sia stata scritta proprio dall’apostolo Pietro ma da qualche suo discepolo che viveva verso la fine del primo secolo e che riprende la testimonianza dell’apostolo per incoraggiare le comunità perseguitate.

I cristiani allora erano deboli di fronte alla potenza dell’impero romano e alle accuse dei pagani che li denigravano accusandoli di andare dietro a delle favole.

Quando poi, qualche secolo dopo, il cristianesimo non sarà più debole, ma sarà diventato forte perché sarà diventato la religione dell’impero, anzi l’unica religione dell’impero, allora sarà la chiesa ad accusare altri di andare dietro a delle favole, tra questi anche i valdesi medievali e tutta una serie di movimenti che saranno accusati di eresia.

La «potenza» del figlio di Dio è diventata la potenza della religione cristiana che si è alleata con la potenza (militare) dell’impero per schiacciare chi la pensava diversamente.

Per secoli, nell’Europa cristiana, si sono scontrate quella che veniva ritenuta la “verità” e quelle che erano giudicate delle “favole”. Chi aveva la verità, o meglio chi pensava di avere la verità, aveva anche la forza degli eserciti, e roghi e crociate hanno segnato la storia dell’Europa.

E non solo dell’Europa, perché il cristianesimo ha accompagnato il colonialismo e con la predicazione dall’evangelo è arrivata anche la dominazione coloniale.

Questa è la storia che abbiamo alle spalle; oggi viviamo in un mondo che ha più o meno, almeno parzialmente e non certo dappertutto, accettato il pluralismo. Diverse religioni, diverse culture, diverse spiritualità convivono, è giusto che convivano fianco a fianco, perché la convivenza è fondata sul diritto e sulla libertà di coscienza.

Questo significa forse negare la «potenza e la venuta di Gesù», come dice questo brano? Significa negare l’evangelo, che è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede», come dice l’apostolo Paolo (Romani 1,16)? No, non c’è bisogno di negare la verità dell’evangelo. Non c’è bisogno di negare quella che per noi è la verità su cui vogliamo cercare di fondare la nostra vita. Non c’è bisogno di smettere di annunciare l’evangelo a chiunque voglia ascoltarlo.

Ma appunto, a chiunque voglia ascoltarlo. Qualcuno non vorrà ascoltarlo ed è suo diritto non ascoltarlo. Qualcuno ascolta altre parole, segue altre fedi, altre religioni, altre idee. Il cristianesimo, le chiese non sono più in posizione dominante, non hanno più potere, o ne hanno molto meno di un tempo, e questa è in fondo una liberazione.

Perché è stato un grosso errore confondere la «potenza» di Gesù e del suo evangelo con il “potere” dei cristiani e delle chiese. È stato un errore fatale, che ha insanguinato l’Europa e molti altri paesi ed ha deformato la fede cristiana, l’ha anzi in qualche modo tradita.

Perché la «potenza» era, appunto, di Gesù, non dei suoi discepoli, non delle chiese, che non avendo la potenza di Gesù, che veniva da Dio, si sono rivolti al potere molto mondano della armi e delle leggi fatte su misura.

È Gesù, non i suoi discepoli, non la sua chiesa, che «ricevette da Dio Padre onore e gloria» in occasione della sua trasfigurazione. E il suo volto, che sul monte della trasfigurazione era splendente, una volta ridisceso dal monte era di nuovo il volto dell’uomo Gesù di Nazaret, volto umano che Dio ha scelto per mostrare a chi lo incontrava il volto del suo amore divino.

La potenza è di Gesù e del suo Spirito, che Pietro menziona in riferimento alla parola dei profeti, che «hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo». Ma sappiamo come molti profeti sono stati trattati e sappiamo come Gesù è stato trattato. La potenza della verità dell’evangelo viene a noi nella debolezza della parola della testimonianza, e Gesù si è fatto debole per essere servo e salvatore.

Qualcuno probabilmente ritiene tutto ciò una favola. Non importa, è suo diritto, come è nostro diritto ritenere una favola oroscopi e chiromanti.

Noi rimaniamo saldi nella fede che la parola profetica e la parola apostolica ci testimoniano. Esse ci raccontano che il volto di Gesù è stato splendente sul monte della trasfigurazione, che è stato il volto della misericordia di Dio per molti miseri che ha incontrato, che è stato poi coperto di lacrime e di sangue sulla croce, e infine è stato di nuovo luminoso la mattina di Pasqua. 

Quel volto, che ci raggiunge nella testimonianza della scrittura, è e rimane per noi la «lampada splendente in luogo oscuro» e «la stella mattutina» che rischiara e dona speranza a ogni nostro nuovo giorno.