domenica 28 marzo 2021

Predicazione di Domenica 28 marzo 2021 (domenica delle Palme) su Ebrei 11-12 a cura di Gabriele Passantino

Ebrei 11,1-2.8-12.39-40; 12,1-3


11,1 Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono.2 Infatti, per essa fu resa buona testimonianza agli antichi.
[…] 8 Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. 9 Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa. 10 perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio.
11 Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. 12 Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare.
[…] 39 Tutti costoro, pur avendo avuto buona testimonianza per la loro fede, non ottennero ciò che era stato promesso. 40 Perché Dio aveva in vista per noi qualcosa di meglio, in modo che loro non giungessero alla perfezione senza di noi.
12,1 Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, 2 fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. 3 Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo




“Gente, preparatevi. C’è un treno in arrivo. Non servono bagagli, dovete soltanto salire a bordo. La fede è tutto quello che vi serve, per udire i motori che sbuffano. Non servono biglietti, basta ringraziare il Signore”

La fede è tutto quello che vi serve, così canta questo gospel (People get ready) che è diventato negli anni 60 l’inno non ufficiale del movimento dei diritti civili negli Stati Uniti. La fede è tutto quello che vi serve, sembra essere quello che ci racconta anche il predicatore dell’Epistola agli Ebrei all’inizio del testo che abbiamo letto.

Il primo versetto, provando a definire la fede, ne mette in luce le due dimensioni che poi verranno sviluppate nei versetti successivi: la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono.

Per prima cosa, la fede ci offre una garanzia, un terreno su cui possiamo contare nelle nostre vite e, se necessario, anche aggrapparci. Ma questo radicamento ci orienta verso il futuro e ci offre il coraggio di muoverci verso spazi sconosciuti, che ancora non vediamo. Radicamento, dunque, e possibilità di andare avanti.

Lo scrittore dell’epistola, tuttavia, non si limita a definire. Vuole mettere davanti ai nostri occhi la fede in carne ed ossa. Nel testo selezionato dal lezionario, abbiamo di fronte a noi i nostri antenati nella fede, Abramo e Sara. Nella loro storia, entrambe le dimensioni che abbiamo individuato nel primo versetto brillano. Il radicamento e la disponibilità al cambiamento.

Per prima cosa, la fede è il radicamento nelle promesse di Dio. Dio ha promesso a Sara e Abramo una discendenza e una terra. Ma queste sono promesse che Abramo e Sara non vedono, ma cui credono. Rispetto alle quali decidono di mettersi in gioco. Conosciamo la storia, credere alla promessa di una discendenza per una coppia avanti negli anni, non è questione di speculazione, ma unicamente di fede. Infatti, la prima volta che Sara udì di questa possibilità, lei sorrise. E probabilmente da questo fu scelto il nome di Isacco, che significa appunto sorriso. Il nome stesso del figlio voleva rimarcare la gioia che Dio dà al di là delle aspettative umane.

Abramo e Sara prestarono fede anche alla seconda promessa di Dio, una altrettanto impossibile, ovvero quella della terra. Impossibile per due nomadi come loro, che pure decisero di seguire il Signore. E quando pure arrivarono in Canaan, continuarono a vivere nelle tende, come stranieri, sempre pronti a muoversi nuovamente. Vivevano in tende perché sapevano che il viaggio era parte della loro obbedienza, e non era Canaan la loro destinazione finale, bensì, come ci dice l’Epistola, la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio.

Non raccolsero, dunque, i frutti di quella seconda promessa durante la loro vita, ma li videro all’orizzonte. Abramo e Sara sperimentarono la promessa come una chiamata, fidandosi di quanto il Signore aveva indicato e muovendosi in avanti in risposta a questa chiamata. Capirono che la fede è una forma di coraggio, che ci sposta spesso in territori sconosciuti della nostra vita, verso il futuro che Dio promette.

Noi ci rendiamo conto che è difficile mantenere entrambe le dimensioni della fede, come hanno fatto Abramo e Sara. Alcuni di noi preferiscono radicarsi. Nelle storie bibliche, nelle storie delle comunità, nelle tradizioni. Perché ci raccontano chi siamo e da dove veniamo e cosa dovremmo fare. Ma questi stessi fratelli e sorelle trovano difficile muoversi verso il futuro, magari con le tende, e se partono si portano tanti bagagli.

Altri di noi hanno facilità nel muoversi, nel piantare e smontare le tende, nel viaggiare con pochi pesi. Sono disposti a seguire il Signore nella consapevolezza che è suo il futuro. Ma queste persone hanno bisogno di aiuto nel ricordare da dove vengono, perché solo la consapevolezza e la lealtà verso una tradizione possono sostenere quando la marcia si fa dura e lunga.

Fratelli e sorelle, i credenti della chiesa delle origini non erano così tanti, ma erano idealmente circondati da una schiera di testimoni di tutte le età, come il capitolo 11 dell’epistola ci sottolinea. Questa dimensione ci viene introdotta anche dai primi versetti del capitolo 12, nei quali ci viene mostrato che la fede è una dimensione profondamente intima e personale. In un certo senso, crediamo come altri prima di noi hanno fatto. Per me, almeno, è stato così. In momenti cruciali della mia vita, ho incontrato credenti la cui vita mi è sembrata autentica. Ho toccato con mano persone come me, con domande e conflitti interiori simili ai miei. E che credevano in Dio.

Quando ero più giovane, ho partecipato a tanti discorsi accademici a favore o contro la fede. Quasi ogni argomento a favore della fede ha un suo opposto dall’altra parte del campo. Di solito queste discussioni terminano in un estenuante pareggio. Incontrare credenti in carne ed ossa è tutt’altro. L’esistenza e l’identità di una persona non possono essere rifiutati come un argomento di discussione. La loro esistenza solleva la domanda per me cruciale: se la fede in Dio ha modellato la vita di questo uomo o di questa donna e l’ha resa così autentica, non è possibile che questa stessa fede doni autenticità alla mia?”

Nella parte finale del nostro testo di stamattina, la grande schiera di testimoni nella fede che ci circonda e accompagna in ogni era è ritratta come un gruppo folto di fans sugli spalti di uno stadio, lo stadio in cui corriamo la nostra corsa, la corsa della fede. Loro, i fans, hanno terminato la loro gara, ma sono lì, pronti a sostenerci e a incoraggiarci. Sono i supporters, sono coloro che ci indicano quanto l’esempio di Gesù abbia reso piena e autentica la loro corsa e la loro esistenza.
Ogni età, dunque, ha avuto e ha ancora i suoi testimoni. Ognuno di noi è stato sospinto sulla strada della fede da un incontro, da una storia, da una testimonianza. Io vorrei parlarvi di Eric Liddel, uno scozzese vissuto nella prima metà del 1900, la cui storia è stata resa celebre dal film Momenti di Gloria, peraltro un titolo italiano che nulla ha a che vedere col titolo originale in inglese, una citazione biblica, Chariots of Fire (Carri di fuoco).

Eric Liddel nacque in Cina, da una famiglia di missionari cristiani scozzesi. Tornato in Scozia per studiare, per prepararsi alla sua scelta di vita, per diventare anche lui un missionario, durante gli studi si rivelò anche un gradissimo atleta. Grande ala di rugby prima, scoprì di essere un atleta velocissimo. Splendido centometrista, si qualificò per le Olimpiadi del 1924 a Parigi. Tuttavia, poiché le qualificazioni si svolgevano di domenica, Liddel si mantenne fedele al rispetto del giorno di riposo e si rifiutò di correre, venne escluso dalla gara e creò un grande clamore, anche fra i suoi compagni di squadra e nella sua federazione: in molti, lo considerarono un traditore, soprattutto perché tutti i pronostici concordavano nel prevedere una sua vittoria.

Un suo compagno di squadra e grande amico gli cedette il posto nella gara dei 400m, per la quale non era considerato uno specialista, in quanto Liddel era uno scattista puro. Ebbene, arrivò primo e vinse la medaglia d’oro, commentando: “Il segreto della mia vittoria nei 400 è che: nei primi 200m, ho corso più veloce che potevo. Poi, nei secondi 200, con l’aiuto di Dio, sono riuscito a correre ancora più forte”.

Dopo le olimpiadi, Liddel rinunciò a una carriera di sportivo e partì per la missione in Cina. Sposò una sua connazionale, da cui ebbe tre figlie. Nel 1941, quando la guerra tra Giappone e alleati occidentali stava per scoppiare, Liddel mandò la moglie e le figlie in Canada, un luogo lontano dal fronte, ma non partì con loro. Decise di rimanere nel posto dove Dio lo aveva chiamato. Morì nel 1943 in un campo di prigionia giapponese.

Ciò che mi ha sempre affascinato nella vita di Liddel è che sì, lui ha sacrificato molto: ha rinunciato a correre una gara che avrebbe vinto, ha rinunciato a una carriera di agiato atleta. Ha rinunciato a scegliere la strada semplice e ad abbandonare la sua missione allo scoppio della guerra. Ma le sue rinunce furono libere. Nessuno lo avrebbe incolpato o considerato un vigliacco se si fosse comportato diversamente. Agì liberamente, radicando la sua esistenza nelle convinzioni che aveva tratto dalle promesse di Dio e non esitò ad andare avanti, a seguire sentieri inesplorati e pericolosi, gli unici che la sua coscienza gli avrebbe permesso di seguire, perché erano quelli su cui Dio lo aveva chiamato. Liddel corse la sua gara tenendo sempre lo sguardo su Gesù, il suo Signore, il suo allenatore, il suo modello. Ben sapendo che la forza e la determinazione che lo spinsero così avanti nel suo percorso potevano solo venire da quell’esempio perfetto di coraggio e perseveranza che Liddel tanto amò,

Ecco, fratelli e sorelle, ognuno di noi si sente incoraggiato nella sua vita da una schiera di testimoni. Nella nostra vita, quando ci sentiamo in difficoltà, quando il ritmo si fa duro e il respiro pesante, mentre corriamo, cerchiamo di tenere sempre lo sguardo fisso su Gesù e su quanto ha fatto per noi, In quel momento, sentiremo l’incitamento ad andare avanti proveniente dai nostri supporter sugli spalti e, fra quelle voci, ne sono sicuro, anche una con riconoscibilissimo accento scozzese. Amen

domenica 21 marzo 2021

Predicazione di Domenica 21 marzo 2021 su Giobbe 19,19-27 a cura di Marco Gisola

Giobbe 19,19-27

Tutti gli amici più stretti mi hanno in orrore, quelli che amavo si sono rivoltati contro di me. 

Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle e alla mia carne, non m’è rimasta che la pelle dei denti.

Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.

 Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?

«Oh, se le mie parole fossero scritte! Se fossero impresse in un libro!

Se con lo scalpello di ferro e con il piombo fossero incise nella roccia per sempre!

Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.

E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.

Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desiderio, mi si consuma!


Non so se c’è un altro testo biblico in cui incontriamo fianco a fianco, nello stesso brano, tanta disperazione e allo stesso tempo una confessione di fede così bella. Accade qui nel libro di Giobbe, in uno dei capitoli più densi di questo libro.

Immagino che tutti voi conosciate la storia di Giobbe: Giobbe è un uomo giusto ed è un credente, ed è anche un uomo molto felice e molto ricco: ha una grande famiglia, ha beni, greggi, terreni, servi e serve.  I primi due capitoli del libro ci spiegano che cosa è successo a Giobbe. Ci viene raccontato un dialogo tra Dio e Satana; Satana convince Dio a mettere Giobbe alla prova: è facile – dice Satana - essere retti e religiosi quando va tutto bene e non ci manca nulla! Satana vuole vedere come reagirebbe Giobbe nel caso gli andasse invece tutto male e se anche nel dolore e nella solitudine la sua fede resisterebbe. Dio acconsente a questa sfida sulla pelle di Giobbe e Giobbe, passo dopo passo perde tutto: beni, greggi, terreni, anche i suoi amati figli muoiono… poi perde anche la salute, si copre di ulcere e inizia a soffrire terribilmente. 

Vengono a consolarlo degli amici, che a un certo momento, iniziano a dirgli che se sta soffrendo così tanto una ragione dovrà pur esserci, che la sua sofferenza è senz’altro una punizione che viene da Dio e se Dio lo punisce, ciò significa che lui deve aver commesso qualcosa di molto grave. Il discorso degli amici di Giobbe è tanto semplice quanto antico: la sofferenza è punizione divina, e se Dio sta punendo Giobbe in questo modo, lui è senza dubbio colpevole di qualcosa. È la stessa teoria che sostengono i discepoli di Gesù quando incontrano l’uomo cieco fin dalla nascita e chiedono se sia lui ad aver commesso peccato oppure i suoi genitori (Giovanni 9). Anche loro pensano che se c’è sofferenza, essa è sicuramente una punizione di Dio e quindi alla base c’è sicuramente una colpa. È la stessa teoria che è sopravvissuta nei secoli e sopravvive ancora oggi e che è tornata a farsi sentire anche durante questa pandemia, che per qualcuno era anch’essa una punizione divina. Il libro di Giobbe è una vigorosa protesta contro questa teoria. Giobbe non accetta il discorso dei suoi amici: egli soffre, soffre terribilmente ma è innocente! Non c’è alcuna ragione per la sua sofferenza, non c’è alcuna colpa. Ovviamente il libro di Giobbe è una creazione letteraria, non è un fatto accaduto, è un racconto paradossale, come è paradossale che Dio si faccia convincere da Satana – cioè dal male in persona- a fare soffrire così tanto una persona. Il racconto ha lo scopo di presentare la protesta contro un’immagine di Dio molto diffusa allora e anche ancora un po’ oggi.

Nel nostro brano di oggi Giobbe accusa apertamente Dio: «sappiatelo: chi m’ha fatto torto e m’ha avvolto nella sua rete è Dio» (v. 6), «Mi ha demolito pezzo per pezzo […] mi ha considerato come suo nemico» (vv. 10-11). Giobbe chiede allora ai suoi amici di avere pietà di lui: “Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito. Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?” (vv. 21-22). Già mi sta perseguitando Dio – dice ai suoi amici - non fatelo anche voi con i vostri discorsi con cui volete convincermi che la colpa di ciò che mi sta accadendo è mia!

Giobbe nel suo libro non solo discute con Dio, ma protesta, e rivolge a Dio una vera e propria accusa. E lo straordinario è che Giobbe fa tutto ciò non solo con fede, ma per fede, perché crede. Giobbe non diventa ateo, la sua è la protesta di un credente. Giobbe protesta perché crede. Protesta e fede non solo convivono, ma la protesta fa parte della fede, potremmo dire che la protesta nasce dalla fede, e questi versetti ne sono un esempio. Dio, che in genere consideriamo il giudice della nostra esistenza, è qui messo - lui! - sul banco degli imputati. Il giudice diventa l’accusato! Ma allo stesso tempo Giobbe invoca Dio; qualcuno ha detto che qui Giobbe fa appello a Dio contro Dio, al Dio redentore contro il Dio persecutore.

Giobbe chiama in soccorso Dio redentore: «io so che il mio redentore vive». Il termine redentore, parola che noi usiamo anche per parlare di Gesù, viene dall’Antico Testamento, è un diritto/dovere prescritto dalla Torah. 


Il redentore è colui che riscatta un parente, per esempio pagando i debiti di chi non può pagarli e ha dovuto vendere la sua terra o addirittura vendere se stesso come schiavo di qualcun altro per sopravvivere. Giobbe invoca l’aiuto di Dio e lo chiama a riscattarlo,  confessa la sua fede nel Dio redentore, nel Dio che riscatta.

In uno dei momenti più bassi e dolorosi della sua vicenda, quando si sente non solo perseguitato da Dio ma anche abbandonato dagli amici, Giobbe invoca il suo redentore, proclama la sua fede in lui: «Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere». La sua protesta nasce dalla fede, abbiamo detto, perché la sua fede è nel Dio redentore, anzi nel suo Dio redentore, è una confessione di fede molto personale: il mio redentore, colui che mi libererà, in colui che libererà proprio me, in lui io ripongo la mia fede.

Sapete come finisce il libro di Giobbe: Dio alla fine parlerà con Giobbe, non risponderà alle sue domande, ma anzi gliene farà lui molte, di domande, chiedendo a Giobbe dove fosse lui quando egli creava la terra, ecc. Insomma, lo rimette al suo posto di piccola creatura. Ma dirà anche che lui, Giobbe, ha parlato bene di lui e non i suoi amici, ai quali dirà «voi non avete parlato di me secondo verità come ha fatto il mio servo Giobbe» (42,7.8). Dio non si mette sullo stesso piano di Giobbe, non risponde alle accuse, ma su questo gli da ragione (e lo benedice di nuovo, con beni, animali e figli e figlie). Giobbe ha capito Dio meglio dei suoi amici, ha ragione a respingere l’idea che la sofferenza è punizione di Dio e a parlare invece di Dio come redentore. Dio non è colui che punisce mandando disgrazie e malattie. Dio è, sì, il giudice ma è anche il redentore. Il giudice si rivela come il redentore. E così si è rivelato a noi Dio, in Cristo, andando ancora oltre, perché in Cristo Dio si è lasciato giudicare e condannare dagli esseri umani che non lo hanno riconosciuto. E tutto ciò proprio per rivelarsi pienamente come redentore.

E proprio su questa bellissima quanto sintetica confessione di fede di Giobbe, che è il culmine del racconto – «ma io so che il mio redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere» - vorrei fermarmi un attimo per concludere, sottolineando tre parole di questa frase, che potrebbero sembrare secondarie:

La prima è “ma”: ma io so che il mio redentore vive… Giobbe è a terra, è prostrato, è colpito da Dio che ne ha fatto il suo nemico, è abbandonato dagli amici che volendo fare gli avvocati di Dio sanno solo dirgli che deve riconoscere la sua colpa e gli sanno solo presentare un Dio che punisce, ma…  Ma tutto ciò non ha distrutto la sua fede nel redentore. Ha distrutto la sua famiglia, i suoi beni, il suo corpo, ma non la sua fede. A tutta questa distruzione e a tutta questa disperazione Giobbe oppone il suo “ma”, la sua confessione di fede nel redentore. Abbiamo qui una bellissima immagine di che cosa sia la speranza: è quel “ma” che Giobbe sa opporre a tutte le disgrazie che gli stanno capitando, che lo hanno ridotto in quello stato. È morto tutto intorno a lui, ma non è morta la speranza, che gli dà la forza di pronunciare il suo “ma”.

La seconda parola è “alla fine”. Il significato di questa parola ebraica non è così chiaro, ma indica comunque qualcosa che viene dopo. Molti cristiani lo hanno letto come un accenno alla “fine dei tempi”, cioè alla venuta del regno, ma è una interpretazione molto insicura. Sta di fatto che la speranza di Giobbe, di cui parlavamo un attimo fa, riguarda un “dopo”, un futuro e non il presente. E questa è allo stesso tempo la debolezza e la forza della nostra fede: noi – con Giobbe e come Giobbe - speriamo in qualcosa che sta davanti a noi, in un “alla fine”. Questa è da un lato la debolezza della nostra fede, soprattutto nei momenti bui della nostra esistenza, che è fede in un dopo, in ciò che deve ancora accadere, mentre noi viviamo nel presente, mentre Giobbe vive nel presente dei suoi lutti, della sua miseria e del suo dolore e la redenzione che invoca è futura quando vorrebbe che fosse ora, che fosse presente. Spesso vorremmo che quel “dopo” fosse “ora”. D’altra parte però questa è anche la forza della nostra fede perché ci dice che il futuro non deve essere per forza uguale al presente, e questa è la speranza. Giobbe è schiacciato da tutti i mali che gli sono caduti addosso, ma la sua speranza è che questi mali gli saranno tolti, che sarà liberato da Dio. 

E infine l’ultima parola è “so”: io so che il mio redentore vive… Giobbe non sa più nulla, non capisce più nulla di ciò che gli sta accadendo, e non vuole credere a quello che gli raccontano i suoi amici; non ha più certezze, se non una: lui sa che il suo redentore vive, sa che si alzerà sulla polvere, cioè che agirà e lo toglierà dalla polvere in cui è caduto, che si mostrerà come redentore, liberatore. È perché sa questo che osa protestare ed è perché sa questo che osa sperare: sa che Dio è il suo redentore. 

Anche noi lo sappiamo, questa è anche la nostra fede, e ogni domenica siamo qui per impararlo di nuovo e non dimenticarlo. Sappiamo che il Dio di Giobbe è il Dio che si è rivelato per noi in Gesù Cristo, proprio come redentore. A volte discuteremo anche noi con Dio, a volte anche noi non capiremo Dio e protesteremo. Il Signore ci aiuti anche e proprio in quei momenti a continuare a confidare in lui e dire con Giobbe “Ma io so che il mio redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere”.

In Gesù Cristo il nostro redentore vive per sempre e non ci abbandona.

domenica 14 marzo 2021

Predicazione di domenica 14 marzo 2021 su Giovanni 12,20-26 a cura di Marco Gisola

 Giovanni 12,20-26

Or tra quelli che salivano alla festa per adorare c’erano alcuni Greci. Questi dunque, avvicinatisi a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, gli fecero questa richiesta: «Signore, vorremmo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea; e Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro, dicendo: «L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna. Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore; se uno mi serve, il Padre l’onorerà.



1. Dei greci cercano Gesù, vogliono vederlo. Non sappiamo perché vogliano vederlo, quale sia il loro scopo. Sono greci nel senso che sono persone di lingua greca, e sono tra coloro che salgono a Gerusalemme «per adorare» dice il racconto, quindi per la festa di Pasqua. Sono dunque dei “proseliti”, cioè pagani che credono in Dio, ma non sono diventati ebrei. Non sappiamo come e dove abbiano sentito parlare di Gesù, Giovanni aveva detto che dopo che Lazzaro era stato riportato in vita da Gesù la fama di Gesù si era diffusa, forse questi “greci” avevano sentito parlare di questo miracolo di Gesù.

Sta di fatto che vogliono vederlo, vogliono avere un contatto con lui, entrare in relazione. E si rivolgono a Filippo, che ha un nome greco, e che quindi probabilmente parla greco e può fare da interprete. Filippo va da Andrea, e insieme vanno a dirlo a Gesù. Giovanni non ci dice se riusciranno nel loro intento, se riusciranno a vedere Gesù, a incontrarlo, a parlargli. Dal racconto sembra di no, perché questi greci scompaiono, non si parla più di loro. Sembra che il loro unico compito all’interno della storia che il vangelo ci racconta sia quello di fare questa richiesta.

Forse il fatto che questi greci non abbiano nome e scompaiono così come sono comparsi ci vuol dire che potrebbero avere il nostro nome, che potremmo essere noi, che per qualche ragione cerchiamo Gesù, e vogliamo vederlo, vogliamo sapere che cosa dice e che cosa fa. Questo breve racconto è forse stato messo lì nel vangelo di Giovanni per dire qualcosa a tutti quelli che cercano Gesù, che vogliono conoscerlo. Ma è lì nel vangelo sicuramente anche per chi lo conosce già e pensa di conoscerlo bene, perché in realtà non si finisce di conoscerlo.


2. Vediamo allora la risposta di Gesù: la risposta di Gesù lascia perplessi. C’è da chiedersi se sia una risposta, perché in realtà non risponde alla richiesta dei greci. Ma forse – appunto - il vangelo di Giovanni ci racconta questo episodio per dirci che proprio questa è la risposta che Gesù dà a chi lo cerca e vuole vederlo, vuole conoscerlo. E dunque la risposta di Gesù è anche per noi.

Vogliamo vedere Gesù, vogliamo conoscere Gesù, domandano i greci e domandiamo anche noi. Risposta di Gesù: «L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato». Vuoi conoscere Gesù? Lo conosci nella sua glorificazione. E dove avviene questa glorificazione? Risposta di Gesù: «se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto».

La morte di Gesù è la sua glorificazione. Lo abbiamo già detto alcune domeniche fa: per Giovanni la morte di Gesù, la croce è davvero glorificazione. Gesù – in Giovanni - va a testa alta verso la croce, perché quella è la sua glorificazione, è il suo “innalzamento” come lo chiama a volte Giovanni.

Che cos’è la glorificazione? È “la piena manifestazione della presenza di Dio”, ha scritto un biblista (Zumstein, Giovanni, p. 540), cioè il momento in cui Dio si manifesta pienamente. E dov’è che Dio si manifesta pienamente? Nella morte di Gesù, nella croce, nel seme che muore, che muore per noi. Dio è glorificato nella croce, perché lì si manifesta, per noi, la sua grazia. Gesù è glorificato, ma la sua gloria non è fine a se stessa, la sua gloria non è gloria per lui, ma è salvezza per noi.

Ci stiamo infatti avvicinando alla passione, Gesù è già entrato in Gerusalemme, tra poco si ritirerà con i suoi discepoli a cui laverà i piedi e poi terrà il suo discorso di commiato, prima di rivolgersi in preghiera al Padre ed infine uscire per andare verso la croce.

Davvero è sempre più chiaro che è questione di vita e di morte. Di morte sua e di vita nostra. «Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto». Quel frutto è per noi: quel frutto è la nostra gioia e la nostra speranza, quel frutto è frutto dell’amore di Dio, della scelta che compie in Gesù di donare la sua vita per noi. Quel frutto è la nostra vita, il frutto della sua morte è la nostra vita, la nostra nuova vita.

Una vita liberata dalle conseguenze della nostra colpa, una vita riconciliata, una vita donata. Una vita da vivere con Gesù: «Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore; se uno mi serve, il Padre l’onorerà». È l’unica volta nella Scrittura che viene detto che Dio onora un essere umano.

«Là dove sono io sarà anche il mio servitore»: questa è la promessa, una grande e bella promessa. Il granello di frumento è morto e dunque non è più solo, ha radunato molti intorno a lui. Potremmo quasi dire che il frutto di quel granello siamo un po’ anche noi… Gesù parla del Regno di Dio, ma – di nuovo – in Giovanni non c’è questa netta distinzione tra futuro del regno e il presente. Il regno lo si vive già qui ed ora, perché Gesù è il regno e il suo Spirito sarà la presenza del regno tra i suoi. Dunque la vita con Gesù è il frutto, chi vive con Gesù è il frutto della sua morte.


3. Chi vive con Gesù. Ma per vivere con Gesù bisogna morire con Gesù: «Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna». Amare e odiare, perdere e conservare. Parole importanti che toccano tutta la nostra esistenza. Parole che ci scandalizzano: Gesù ci chiede di odiare la vita? La vita è un dono di Dio e Dio non ci chiede di odiare quello che ci ha donato. Non dobbiamo dunque prendere questa frase alla lettera! I verbi amare e odiare usati in questo modo in ebraico indicano che bisogna fare una scelta, che bisogna scegliere una cosa e non sceglierne un’altra.

Amare la propria vita significa scegliere di vivere solo per se stessi, quindi vivere soli. Senza Gesù e senza il prossimo. Questa è una vita “persa” secondo Gesù. Se vuoi possedere, dominare la tua vita, tenerla per te, la perdi, dice Gesù. Se invece riconosci che la vita è un dono e non un possesso, che è per te ma non è tua, allora la “conservi in vita eterna”, che non significa solo per l’eternità, ma significa che già qui ed ora vivi con Dio, anzi Dio vive con te e tu vivi con lui e con il prossimo. E dunque non sei solo.

Questo nostro non essere soli è il frutto che Gesù ha prodotto per noi andando a morire. I greci – cioè i non ebrei - faranno parte di questo frutto, dopo Pasqua, quando molti greci, cioè pagani allora potranno vedere, conoscere e credere. Se noi non siamo soli, se noi siamo chiesa, è perché Gesù è morto e la sua morte e resurrezione ha dato molto frutto. La chiesa è la comunità dei “frutti” che il seme Gesù ha prodotto morendo per noi.

E ci chiede di seguirlo su questa strada: «Se uno mi serve, mi segua». Mi segua dove? Sulla croce? No, non sulla croce, perché sulla croce Gesù è andato da solo, non poteva che andare da solo, perché ci è andato per noi e al nostro posto; sulla croce no, ma “sottoterra” sì, ovviamente di nuovo metaforicamente.

Gesù ci chiede di andare sottoterra non da morti, ma da vivi, ci chiede di essere seme come lui. Noi che siamo il suo frutto, possiamo e siamo chiamati a dare frutto a nostra volta, vivendo l’evangelo.

Non ci è chiesto di morire fisicamente – quello lo ha fatto Gesù per noi – ci è chiesto di morire all’egoismo, alla sete di dominio e di possesso, perché questo non produce alcun frutto se non dolore e sofferenza. Morire all’egoismo per vivere alla gioia, alla giustizia e alla speranza. Questa è la vita eterna che Gesù ci chiede di scegliere qui oggi, questi sono i frutti che possiamo produrre se seguiamo e serviamo Gesù.

I frutti di una vita piena di gioia, perché piena di comunione e di doni, piena di speranza e di amore. Questa vita che Dio ci dona glorifica il Signore e per noi dura in vita eterna. Questa è la promessa che oggi riceviamo, perché il granello di frumento è morto per noi e questo è il suo enorme frutto.

domenica 7 marzo 2021

Predicazione di Domenica 7 marzo 2021 su Efesini 5,1-2 a cura di Marco Gisola

 Efesini 5,1-2

1 Siate dunque imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati; 2 e camminate nell’amore come anche Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio quale profumo di odore soave.


Chi siamo e chi dobbiamo essere? Partiamo da queste domande, la cui risposta troviamo nel primo versetto che abbiamo letto: «Siate dunque imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati». Chi siamo? Se tu o io dovessimo rispondere a questa domanda a partire da noi stessi, probabilmente noi proveremmo a fare l’elenco dei nostri pregi e dei nostri difetti, dei nostri sogni e dei nostri dolori, dei nostri desideri e delle nostre paure.

Questo sarebbe il nostro punto di vista. Ma l’autore della lettera agli Efesini ci offre il punto di vista di Dio, non il nostro. E ci dice che siamo figli amati. Questo siamo, siamo figli e figlie di Dio e siamo figli amati e figlie amate da Dio. Figlio e figlia indica che c’è una relazione molto stretta, una relazione – nella visione biblica – non paritaria, una relazione creata da una sola delle parti, cioè ovviamente quella del padre, Dio, che genera il figlio e la figlia, che quindi genera anche la relazione.

Paolo nella lettera ai romani ha parlato di adozione, che mi sembra una bellissima immagine, perché ci dice che non siamo figli di Dio per natura, men che meno per merito, ma per grazia, cioè per libera decisione di Dio, in Cristo, come è una decisione quella di una coppia che decide di adottare un bambino/a. Attraverso Gesù, suo figlio, Dio ci ha liberamente adottati, ha reso noi suoi figli e figlie adottivi.

E poi «amati», perché è l’amore di Dio che ci rende suoi figli e figlie e che ci mantiene in questa relazione. Dio non solo crea questa relazione, ma la mantiene, nonostante noi spesso sembriamo lavorare contro questa relazione e tendiamo a romperla. Dio invece la mantiene, per amore. Questo è quello che siamo per Dio: figli amati e figlie amate.

E chi dobbiamo essere? «Siate imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati...». Poiché siete figli, siate imitatori e imitatrici. È una conseguenza: dato che siete figli, imitate vostro padre. Gli studiosi discutono se qui con Dio si intenda Dio padre o Gesù, e ovviamente sarebbe bello sapere che cosa intendeva l’apostolo quando lo ha scritto, ma per la nostra fede non è così rilevante, perché Dio padre si è rivelato nella persona di Gesù e – da cristiani – conosciamo il padre solo attraverso e grazie al figlio. L’espressione “imitare Dio” è rara nella Bibbia, sia che si tratti del Padre, sia che si tratti di Gesù. È più comune esprimere questa idea con altri modi di dire e con altri verbi: obbedire, oppure seguire: Gesù ha chiamato i suoi discepoli a seguirlo non a imitarlo.

Ma un verbo non esclude l’altro, anzi ogni verbo esprime la ricchezza della Scrittura. Imitare è un verbo molto impegnativo; significa che l’esempio che mi è dato da imitare e da cercare di seguire è Dio stesso, come si è rivelato in Gesù. Nulla di meno.

E che cosa devo imitare di Gesù? Ma ancora prima: è possibile imitare Gesù? Non so parlare come lui, non so fare miracoli, non so scacciare demoni o camminare sulle acque… Ma ovviamente non è questo che ci è chiesto. E che cosa ci è chiesto? In questo ci viene in soccorso il secondo versetto che abbiamo letto: «e camminate nell’amore come anche Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per noi…»

Ciò in cui siamo chiamati ad imitare Dio è l’amore: «Camminate nell’amore». E qui l’apostolo non solo menziona esplicitamente Cristo ponendolo come esempio di amore e modello da imitare, ma ci dice chiaramente anche come intendere e come vivere questo amore.

Come ho già detto altre volte, nella Bibbia l’amore non è tanto un sentimento, l’amore è soprattutto concretezza, è azione, al punto che, come abbiamo detto due domeniche fa, per mostrare concretamente che cosa significhi amare, Gesù si è chinato ai piedi dei suoi discepoli per lavarli loro; non lo ha soltanto detto ai suoi discepoli che li amava, lo ha fatto, ha fatto qualcosa per loro e a loro, come gesto di amore e come insegnamento ad amare concretamente. E qui l’apostolo cita la cosa più grande che Gesù ha fatto per tutti e tutte noi: «ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio». “Ha dato”, “per noi”. Dare, donare, in questo consiste l’amore, o almeno questo è uno degli aspetti prevalenti in cui l’amore si manifesta.

Perché l’amore non va soltanto “provato” come si usa dire, ma va manifestato. E il dono è l’atto in cui meglio di ogni altra cosa l’amore viene manifestato. Gesù ha dato se stesso per noi, sulla croce, quindi con la sua morte. Donare se stessi, donare la propria vita, è il supremo atto d’amore, supremo perché è ultimo e unico, perché ovviamente può accadere una sola volta.

È un evento molto raro, ma a volte accade; è accaduto che qualcuno abbia donato la sua vita per la vita di qualcun altro, che abbia rischiato e perso la sua vita per salvare la vita di qualcun altro. È successo durante le dittature fascista e nazista che qualcuno abbia rischiato – e a volte - la vita per nascondere degli ebrei o per farli fuggire, ed è successo in altri casi.

Ma alla maggioranza di noi, grazie a Dio, non accade mai nel corso della nostra vita, che ci sia chiesto così tanto. Gesù ha donato tutto di sé, ha donato la sua vita. Questo suo dono è l’orizzonte al quale deve guardare il nostro donarci, orizzonte che si raggiunge solo in situazioni estreme e speriamo e preghiamo di non doverlo raggiungerlo, speriamo e preghiamo che non ci sia bisogno di donare tutto.

Invece di donare qualcosa della nostra vita ci è chiesto sempre, ogni giorno, per amare imitando Gesù, per vivere l’amore come dono di sé.

L’espressione “donare la vita” ci aiuta a non cadere in un equivoco: quando parliamo di donare a volte pensiamo al dono di qualcosa, di qualcosa di nostro. Il che può avere un grandissimo valore, materiale e anche spirituale, perché è condivisione e la condivisione dei beni è una pratica molto cristiana. Anche la nostra chiesa vive e va avanti grazie alla condivisione e al dono, molto materiale, del “vile denaro” che sono le nostre offerte e contribuzioni. Questo dono quindi non è affatto trascurabile, anzi…!

La Parola di Dio ci chiede sicuramente questo, ma ci chiede anche un altro dono, che non è per la chiesa ma è per il prossimo, per il mondo in cui viviamo, che non è dono di qualcosa di nostro, ma dono di qualcosa di noi.

A fare degli esempi qui si rischia di cadere nel moralismo o nella casistica… quindi non ne faccio, ma dico solo una cosa molto più banale: pensate a quando vi è successo – perché sicuramente vi è successo – di ricevere una telefonata o una visita che vi ha fatto molto piacere, che vi ha dato gioia.

Oppure pensate a quando vi è successo di fare una telefonata o una visita che ha dato gioia a qualcuno e lo avete capito dal tono di voce con cui ha risposto alla telefonata o dal sorriso con cui vi ha aperto la porta di casa.

E quando è che siete stati più contenti di ricevere una visita o una telefonata? Quando non ve l’aspettavate. Quella è una piccola - ma grande – esperienza di dono. Tempo, presenza, ascolto, vicinanza, compagnia, affetto… tutte cose peraltro che ora non si possono fare o si possono fare da lontano (la visita no, ma la telefonata sì…).

Tutto ciò che non è dovuto, ma è donato, tutto ciò che è gratuito e quindi è dono, è imitazione del dono che Cristo ha fatto a noi di se stesso, della propria vita. Pensiamo al ruolo che il volontariato ha avuto e ha nella difficile situazione della pandemia, al ruolo che ha per l’accoglienza dei migranti, per la cura dei senzatetto… viviamo in un paese in cui spesso accade che dove lo Stato – purtroppo – non arriva, arriva il volontariato, il dono.

Chi siamo e chi dobbiamo essere? «Siate … imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati». Siete dunque siate. Siete amati, dunque amate. Siete perdonati, dunque perdonate. Siete riconciliati, dunque lavorate per la riconciliazione. Siete stati riscattati, dunque vostro obiettivo sia il riscatto di chi è sottomesso. Siete stati liberati, dunque la libertà di tutti sia in cima ai vostri propositi. Siete stati destinatari dell’immenso dono di grazia di Dio che ha dato il suo figlio per voi, dunque donate voi stessi.

Questo è ciò che viene a dirci oggi la Parola di Dio: siete dunque siate. Il “siete”, siete figli amati, è tutto opera di Dio che ci ha resi figli e non ci abbandona. Il “siate” è nelle nostre mani, è nostra responsabilità, nostra vocazione.

Il Signore ci aiuti ad essere ciò che siamo, per sua sola grazia.