domenica 20 giugno 2021

Predicazione di domenica 20 giugno 2021 su Luca 15,1-10 a cura di Marco Gisola

Luca 15,1-10

Tutti i pubblicani e i «peccatori» si avvicinavano a lui per ascoltarlo. Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta". Vi dico che così ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento. «Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? Quando l’ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta”. Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede».


Chi di voi – care sorelle e fratelli - avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? Chi di noi non farebbe così? Diciamo la verità: nessuno di noi farebbe così. Nessuno di noi lascerebbe 99 pecore nel deserto per andare a cercarne una, rischiando che le 99, o anche solo alcune di esse, facessero una brutta fine. Nessuno di noi farebbe così, perché non sarebbe logico, non avrebbe alcun senso. Ma siamo davanti a una parabola, non al manuale di un corso di formazione per pastori di pecore. E la parabola vuole annunciare l’evangelo, vuole darci un messaggio chiaro attraverso la breve storia che ci racconta. Che la storia sia logica oppure no, non importa, quello che importa è il messaggio, è – potremmo dire – l’evangelo che vuole annunciarci.

La parabola della donna che cerca la moneta è più logica, più comprensibile: ho perso dei soldi, ho perso la paga di una giornata di lavoro – questo era la dramma – e mi metto a cercarla con tutte le mie forze: accendo la luce (non c’era la luce elettrica ovviamente e i lumi ad olio si accendevano solo quando proprio necessario), spazzo la casa, guardo sotto tutti i mobili, mi do da fare. Notiamo che la donna non ha perso tutti i soldi che ha: ha dieci monete, ne perde una. E il pastore perde una pecora su novantanove. Entrambi non perdono tutto quello che hanno, ma perdono una unità: una pecora, una moneta. Ed entrambi, quando hanno ritrovato rispettivamente la pecora e la moneta fanno una gran festa, invitano amici e vicini, amiche e vicine per far festa e condividere la loro gioia. Anche questo pare esagerato: non si organizza addirittura una festa per aver ritrovato una pecora su cento o una moneta su dieci. 

Ma di nuovo non dobbiamo leggere la parabola con gli occhi della logica ma con gli occhi dell’evangelo. Il messaggio, l’evangelo di questa parabola è che – uscendo dall’immagine – Dio cerca chi si perde e quando lo trova prova grande gioia. Infatti il commento di Gesù è «Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede». Dio invita gli angeli a una festa per un peccatore che si ravvede. La parabola è tutta incentrata su Dio. Dio cerca, Dio trova, Dio gioisce.

Spesso noi definiamo noi stessi “persone in ricerca”. Usiamo questa espressione per dire che non “possediamo” la verità, per dire che Dio è molto più grande di noi e di tutto ciò che possiamo dire e pensare di lui e che quindi non sappiamo tutto. Questo intendiamo dire quando diciamo che siamo in ricerca. Ma qui invece è Dio che cerca noi, non noi che cerchiamo lui. Noi non lo troveremmo mai se lui non ci avesse trovati per primo. E noi cerchiamo proprio perché siamo stati trovati, ma la nostra ricerca – se proprio la vogliamo chiamare così – non è una ricerca vaga e indefinita, ma è una ricerca in colui che ci ha trovati, in Gesù Cristo che è il pastore che Dio ha mandato a cercarci nelle campagne, che è la donna che Dio a mandato a cercarci in mezzo alla polvere del pavimento. 

È Dio che cerca noi. E quindi forse più che usare la parola “ricerca” per indicare il nostro atteggiamento, potremmo usare il verbo del testo che abbiamo letto al battistero nella veglia ecumenica, il verbo che Gesù usa nel vangelo di Giovanni quando dice ai suoi discepoli di “rimanere” in lui. Dio ci cerca, ci trova, ci ha trovati. La nostra parte è quella di rimanere in lui, rimanendo nella sua parola. Siamo in ricerca perenne – è vero – perché non sapremo e non capiremo mai tutto di Dio e del suo regno, ma non siamo in ricerca di Dio, perché Dio non è da trovare perché ci ha già trovati lui, perché è lui che ha cercato e trovato noi.

Siamo casomai in ricerca per capire meglio la sua volontà, per conoscere meglio la sua parola (che non si finisce mai di imparare), per coltivare la nostra fede, per essere “edificati”, come diceva il testo di domenica scorsa, perché la costruzione non è mai finita. Ma non siamo in ricerca di Dio, perché è Dio che è in ricerca di noi, è Dio che ci cerca e che ci trova.

Anzi: ci aveva trovati anche prima di perderci: la pecora era del pastore e la moneta era della donna. Il pastore non cerca la pecora di un altro pastore e la donna non cerca la moneta di un’altra persona. Il pastore cerca la sua pecora e la donna cerca la sua moneta. Dunque in queste due parabole noi non siamo quelli che cercano, ma quelli che vengono trovati. E dunque salvati. 

Che cosa può accadere a una pecora da sola, sperduta per le campagne? È molto probabile che finisca nello stomaco di qualche animale più grosso di lei. E che succede alla moneta se non viene ritrovata? Rimane sepolta – magari per sempre – dietro a un mobile o in qualche buco del pavimento, inutilizzata e inutilizzabile. Morta la pecora e “morta” la moneta, perché inutilizzabile. Essere trovati è dunque essere salvati dalla morte, è ritornare alla vita. Siamo dunque noi la pecora smarrita e la moneta perduta, fuor di metafora, siamo colui o colei che Dio cerca e trova; siamo il suo discepolo, la sua discepola che si è perso e che Dio cerca e trova.

E per questo, perché ci trova, perché ti trova, Dio gioisce, fa festa. Anche qui di solito diciamo che noi siamo nella gioia quando veniamo trovati, perdonati da Dio, quando l’evangelo ci consola, ci dà gioia e speranza. E invece anche qui la parabola è tutta teo-centrica, c’è Dio al centro, il Dio che cerca, che trova e che gioisce. 

Non è un caso che l’immagine del pastore con la pecora sulle spalle sia una delle immagini più diffuse di Dio perché è un’immagine che rincuora e che consola. È meno diffusa quella della donna, penso perché a noi umani piace di più essere paragonati a una pecora che a una moneta…

Ma nelle due parabole sia il pastore, sia la donna fanno festa. E questa è una bellissima immagine di Dio: Dio che fa festa per noi; anche con noi, potremmo dire, ma il senso delle parabole è sopratutto che Dio fa festa per noi. Fa festa perchè ci ama, perché aveva perso qualcuno che è prezioso ai suoi occhi, perché lo ha cercato e lo ha trovato. 

Un ultima cosa: le due parabole mettono l’accento sul numero uno: una pecora è perduta e ritrovata dal pastore, una moneta viene perduta e ritrovata dalla donna, un peccatore si ravvede, cioè viene ritrovato da Gesù. Una pecora su cento, una moneta su dieci, un peccatore su tanti… Una pecora sola, una moneta sola, una persona sola danno così tanta gioia a Dio e ai suoi angeli!

Perché una sola pecora su cento, una sola moneta su dieci, un solo peccatore su tanti? Perché Dio non fa calcoli, non c’è un numero minimo sotto il quale “non vale la pena”, Dio si dà sempre pena, perché vale sempre la pena. Perché uno vuol dire uno, ma vuol anche dire ognuno. Perché questa è la volontà di Dio, Dio non vuole perdere nessuno, e vuole anzi trovare ognuno.

Per questo Gesù frequenta i peccatori e mangia con loro al punto che si attira i rimproveri dei farisei: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Le due parabole di Gesù rispondono proprio a questa critica; non solo Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro, ma li va a cercare, come il pastore cerca la pecora smarrita, come la donna cerca la moneta perduta. 

Come il pastore cerca la sua pecora, come la donna cerca la sua moneta, Gesù cerca noi che siamo suoi discepoli e sue discepole quando ci perdiamo. 

Siamo suoi perché ci aveva già trovati, ma quando ci perdiamo, ci viene di nuovo a cercare – come dice la parabola - “finché non ci ritrova”. 

E allora è grande festa! Per uno di noi, per una di noi, fanno festa Dio e i suoi angeli. Fanno festa per noi, che siamo stati ritrovati e che ora siamo come una pecora sulle spalle robuste del pastore, come una moneta nella mano forte della donna. 

Dio ci cerca, Dio ci trova, Dio ci porta sulle spalle o nella sua mano, Dio fa festa. Per noi, per te. Questo è l’evangelo di oggi, grazie al quale anche noi possiamo fare festa e lodare Dio.

domenica 13 giugno 2021

Sintesi della predicazione di domenica 13 giugno 2021 su 1 Corinzi 14,1-12.23-25 a cura di Giuseppe Foti

1 Corinzi 14,1-12.23-25

Ricercate l’amore e desiderate ardentemente i doni spirituali, principalmente il dono di profezia. Perché chi parla in altra lingua non parla agli uomini, ma a Dio; poiché nessuno lo capisce, ma in spirito dice cose misteriose. Chi profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di consolazione. Chi parla in altra lingua edifica se stesso; ma chi profetizza edifica la chiesa. Vorrei che tutti parlaste in altre lingue, ma molto più che profetaste; chi profetizza è superiore a chi parla in altre lingue, a meno che egli interpreti, perché la chiesa ne riceva edificazione. Dunque, fratelli, se io venissi a voi parlando in altre lingue, che vi servirebbe se la mia parola non vi recasse qualche rivelazione, o qualche conoscenza, o qualche profezia, o qualche insegnamento? Perfino le cose inanimate che danno suono, come il flauto o la cetra, se non danno suoni distinti, come si riconoscerà ciò che si suona con il flauto o con la cetra? E se la tromba dà un suono sconosciuto, chi si preparerà alla battaglia? Così anche voi, se con la lingua non proferite un discorso comprensibile, come si capirà quello che dite? Parlerete al vento. Ci sono nel mondo non so quante specie di linguaggi e nessun linguaggio è senza significato. Se quindi non comprendo il significato del linguaggio sarò uno straniero per chi parla, e chi parla sarà uno straniero per me. Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di abbondarne per l’edificazione della chiesa.

Quando dunque tutta la chiesa si riunisce, se tutti parlano in altre lingue ed entrano degli estranei o dei non credenti, non diranno che siete pazzi? Ma se tutti profetizzano ed entra qualche non credente o qualche estraneo, egli è convinto da tutti, è scrutato da tutti, i segreti del suo cuore sono svelati; e così, gettandosi giù con la faccia a terra, adorerà Dio, proclamando che Dio è veramente fra voi.



Elementi essenziali del messaggio trasmesso dal nostro testo

Avendo già parlato diffusamente dei doni dello Spirito, ora Paolo giunge ad un’ulteriore

precisazione, resa necessaria dalle divisioni e dalla confusione che regna nel culto dei

Corinzi.

La questione è da porre in questi termini:

Qui si parla di due carismi: il dono del “parlare in lingue” e il “dono di profezia”

La glossolalia non è di esclusiva matrice cristiana, ma era praticata anche in altre

religioni dell’area mediterranea.

Non entro nel merito della questione specifica che la riguarda. Qui mi limito a

sottolineare che l’apostolo, stando a quanto narra il testo, non intende porre l’alternativa

tra le due, pur essendo chiaro che la profezia vista sotto la luce dell’edificazione della

comunità ha una marcia in più: è comprensibile, perché espressa nella lingua che tutti

comprendono.

La situazione dei Corinzi è chiarita da quanto dice Paolo ai versetti 23-25, cioè se tutti

parlano in lingue e non interpretano quanto detto, ne discende una non-edificazione ed

un/a estraneo/a che dovesse assistere potrebbe parlare di “follia”. Viceversa, nel caso che

gli stessi estranei assistessero ad un culto dove si esprimessero delle profezie, egli

potrebbe essere indotto ad un atteggiamento positivo, oppure rivelare la sua distanza da

quanto vede e sente.

Perciò Paolo non intende negare che il parlare in lingue attiene ai doni dello spirito, ma

intende finalizzare anche quest’ultimo alla edificazione della comunità, viste le premesse

che lo hanno spinto a scrivere la lettera ossia le divisione che vigevano tra i Corinzi.

La vicinanza del cap. 13 al nostro testo è un elemento che rafforza la comprensione di

quanto Paolo afferma in questo testo. Il dono delle lingue può essere accettato nell’ambito

della preghiera personale, ma quando si è riuniti nel culto è necessario comprendersi e

trasmettersi gli uni agli altri ciò che fa crescere la comunità e la rende capace di una

testimonianza efficace verso l’esterno.

E quanto concerne oggi? Attualizzazione

Il testo proposto per questa domenica può fornirci utili indicazioni anche per la nostra vita

cristiana comunitaria.

In prima istanza la questione dei doni: ritengo che l’esperienza di un servizio svolto in

conseguenza della nostra fede, quando svolto con disponibilità al bene comune, abiliti

all’esercizio di quei doni che lo spirito profonde in ciascuna/o, rendendo particolare l’opera

che ognuno svolge.

La necessaria tensione positiva verso la promozione della crescita spirituale di ognuno,

mediante una chiarezza rigorosa, affinché “tutti possano comprendere” è un altro elemento

che vale anche per noi.

Altro elemento è la coscienza che, come credenti, riceviamo dallo spirito la spinta necessaria

a scoprire le nostre possibilità e a porle a servizio di ognuno.

Il culto è il momento centrale della vita della chiesa e anche noi dobbiamo pensare a quale

testimonianza diamo durante il suo svolgimento. Non importa quanto facciamo o quanta

importanza riveste in quell’ambito, importa che è ciò che ognuno può fare ed è importante

per questo.

Paolo sottolinea la necessità dell’armonia all’interno della comunità, quando descrive la

chiesa paragonandola al corpo umano (1 Cor 12,12-31a) e sappiamo bene quanto la salute

dipenda dall’armonia degli organi che costituiscono il corpo ed anche dall’armonia interiore

con cui viviamo in nostri giorni.

La lettura tratta dalla lettera agli Efesini 2,11-22 ci richiama alla centralità della fede in Cristo, dato

che Lui e il suo Evangelo sono l’origine della comunità cristiana.


martedì 8 giugno 2021

Predicazione di domenica 6 giugno 2021 su Giona 1,1 - 2,2.11 a cura di Marco Gisola

Giona 1-2

1: 1 La parola del SIGNORE fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, in questi termini: 2 «Àlzati, va’ a Ninive, la gran città, e proclama contro di lei che la loro malvagità è salita fino a me». 3 Ma Giona si mise in viaggio per fuggire a Tarsis, lontano dalla presenza del SIGNORE. Scese a Iafo, dove trovò una nave diretta a Tarsis e, pagato il prezzo del suo viaggio, si imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla presenza del SIGNORE. 4 Il SIGNORE scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una tempesta così forte che la nave era sul punto di sfasciarsi. 5 I marinai ebbero paura e invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono a mare il carico di bordo, per alleggerire la nave. Giona, invece, era sceso in fondo alla nave, si era coricato e dormiva profondamente. 6 Il capitano gli si avvicinò e gli disse: «Che fai qui? Dormi? Àlzati, invoca il tuo dio! Forse egli si darà pensiero di noi e non periremo». 7 Poi si dissero l’un l’altro: «Venite, tiriamo a sorte e sapremo per causa di chi ci capita questa disgrazia». Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. 8 Allora gli dissero: «Spiegaci dunque per causa di chi ci capita questa disgrazia! Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?» 9 Egli rispose loro: «Sono Ebreo e temo il SIGNORE, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terraferma». 10 Allora quegli uomini furono presi da grande spavento e gli domandarono: «Perché hai fatto questo?» Quegli uomini infatti sapevano che egli fuggiva lontano dalla presenza del SIGNORE, perché egli li aveva messi al corrente della cosa. 11 Poi gli dissero: «Che dobbiamo fare di te perché il mare si calmi per noi?» Il mare infatti si faceva sempre più tempestoso. 12 Egli rispose: «Prendetemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia». 13 Tuttavia quegli uomini remavano con forza per raggiungere la riva; ma non riuscivano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso. 14 Allora gridarono al SIGNORE e dissero: «SIGNORE, non lasciarci perire per risparmiare la vita di quest’uomo e non accusarci del sangue innocente; poiché tu, SIGNORE, hai fatto come ti è piaciuto». 15 Poi presero Giona, lo gettarono in mare e la furia del mare si calmò. 16 Allora quegli uomini furono presi da un grande timore del SIGNORE; offrirono un sacrificio al SIGNORE e fecero dei voti.

2: 1 Il SIGNORE fece venire un gran pesce per inghiottire Giona: Giona rimase nel ventre del pesce tre giorni e tre notti. 2 Dal ventre del pesce Giona pregò il SIGNORE, il suo Dio, e disse: […] 11 E il SIGNORE diede ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sulla terraferma.


Il libro di Giona inizia in modo molto solenne: «La parola del SIGNORE fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, in questi termini: «Àlzati, va’ a Ninive, la gran città, e proclama contro di lei che la loro malvagità è salita fino a me».

Ma poi, subito il primo colpo di scena: noi ci aspetteremmo che il racconto continuasse dicendoci che Giona parte per andare a Ninive a predicare quello che il Signore gli aveva detto. E invece no: «Ma Giona si mise in viaggio per fuggire a Tarsis, lontano dalla presenza del SIGNORE».

Giona parte per andare dalla parte opposta rispetto a dove Dio gli aveva detto di andare. Disobbedisce, fugge. Fugge senza dire nulla: avete notato che Giona non risponde a Dio, non dice una parola; semplicemente parte e va, ma va dalla parte opposta… Non si mette a discutere, come hanno fatto altri prima di lui, da Mosè a Geremia, dicendo “non me la sento, ho paura, manda qualcun altro….”. 

No, non dice nulla e fugge. Fugge non solo dal compito che Dio gli ha affidato, ma fugge da Dio stesso: vuole andare «lontano dalla presenza del SIGNORE». Non vuole Dio fra i piedi, vuole starsene in pace. 

La ragione di questa fuga la si scopre solo nel capitolo 4, l’ultimo capitolo di questo breve libro, che è un gioiellino di teologia narrativa, cioè di teologia raccontata, che riesce a essere tragico e ironico al tempo stesso.

Dov’è Tarsis? Gli studiosi non sono riusciti a identificarla con esattezza, chi dice che fosse in Spagna, chi dice in Sardegna, comunque dalla parte opposta a quella in cui Dio gli aveva detto di andare: Dio lo aveva mandato a Nord-est, Giona fugge verso sud-ovest!

Ma non solo Tarsis è geograficamente agli antipodi rispetto a Ninive. L’unica altra volta che Tarsis viene menzionata nella Bibbia è in Isaia 66,19, dove è elencata tra quelle città «che non hanno mai udito la mia fama e non hanno mai visto la mia gloria», dice Dio. È quindi un posto dove nessuno ha mai sentito nemmeno parlare di Dio. Giona vuole andare in un posto dove Dio non c’è, non se ne parli e sopratutto non lo possa raggiungere.

Ma Giona è un po’ ingenuo, Dio lo può andare a trovare ovunque, non c’è luogo che per Dio sia irraggiungibile. Lo dice anche il salmo 139: «Dove potrei andarmene lontano dal tuo Spirito,dove fuggirò dalla tua presenza?… Se prendo le ali dell’alba e vado ad abitare all’estremità del mare, anche là mi condurrà la tua mano e mi afferrerà la tua destra»

Anche all’estremità del mare – chissà se Giona conosceva questo salmo, perché è proprio via mare che cerca di fuggire. Va al porto di Iafo – oggi Giaffa – e si imbarca. Ma gli ebrei non erano un popolo di marinai, il mare faceva loro paura, era il simbolo del caos e del male. Eppure Giona preferisce affrontare il mare piuttosto che obbedire a Dio. 

È solo uno dei tanti tratti ironici del libro di Giona. Ma Dio non lo lascia scappare così facilmente. Dio manda una tempesta sul mare, rendendolo così davvero pericoloso. La nave rischia di affondare, i marinai si preoccupano, capiscono che non è una tempesta normale e che c’è dietro qualche volontà superiore. E fanno due cose: pregano ciascuno il proprio dio – i marinai sono pagani, ognuno avrà avuto i propri dèi - e poi gettano a mare il carico, per alleggerire la nave. Pregano e agiscono, le uniche cose che possono fare per salvarsi.

E Giona? «Giona, invece, era sceso in fondo alla nave, si era coricato e dormiva profondamente». Anche qui c’è un termine ebraico interessante, perché è lo stesso usato per indicare il sonno di Adamo quando Dio lo “anestetizza” per prendergli la costola e creare Eva. Giona dorme quindi di un sonno molto profondo, è anestetizzato, la sua fuga lontano da Dio inizia con un sonno nel quale non sente più nulla e non sa che cosa accada intorno a sé. Giona non prega e non agisce, dorme.

Ma viene svegliato dal capitano della nave, che gli dice di pregare anche lui il suo Dio, non si sa mai, che sia quello giusto…! E poi tirano a sorte per capire di chi sia la colpa di quello che sta succedendo. Se un Dio ha mandato la tempesta a causa di qualcuno che è a bordo, tirando a sorte si può capire chi sia. Spesso nell’antichità si usava questo metodo per capire la volontà di Dio riguardo alle persone. 

La sorte cade su Giona, che subisce così un piccolo interrogatorio: chi sei, cosa fai, da dove vieni. E qui Giona dà una risposta interessante: «Sono Ebreo e temo il SIGNORE, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terraferma». Giona si qualifica come ebreo e afferma di temere il Signore. Temere il Signore vuol dire onorare Dio sapere che Dio è Dio e noi siamo sue creature; non significa avere paura ma è comunque la consapevolezza della grandezza di Dio e della piccolezza dell’essere umano.

Ma come fa uno, che davanti alla parola di Dio, che lo manda in un posto, fugge in direzione opposta, a dire di temere il Signore? Non dovrebbe piuttosto ammettere che lui se ne frega del Signore, che è l’esatto opposto del temerlo? Chi teme il Signore fa la sua volontà o almeno ci prova….

I marinai - ci dice il racconto – sapevano che Giona fuggiva lontano da Dio e quindi «sono presi da grande spavento». Il verbo usato qui è lo stesso che ha usato Giona per dire che teme il Signore, ma qui i marinai non temono il Signore, temono e basta, hanno paura. Chiedono allora a Giona che cosa debbano fare e Giona dice che l’unica cosa da fare sia liberarsi di lui e gettarlo in mare. Giona non pensa nemmeno che potrebbe chiedere perdono a Dio, dirgli “ho sbagliato tutto, salva me e tutto l’equipaggio e ti prometto che ci vado, a Ninive…! Sembra che addirittura preferisca finire in fondo al mare piuttosto che andare a Ninive, preferisce morire che fare la volontà di Dio! 

I marinai però non vorrebbero gettare Giona in mare, perché morirebbe senz’altro; dal racconto si vede chiaramente che cercano di evitarlo: remano con tutte le loro forze per cercare di raggiungere la riva e solo quando si rendono conto che non c’è speranza, si decidono di liberarsi di Giona, ma prima pregano Dio – il Dio di Giona - che li perdoni per quello che stanno per fare. 

I marinai pagani pregano il Dio di Israele, un dettaglio non secondario. Poi gettano Giona in mare e immediatamente il mare si calma. Sono salvi. E allora i marinai «furono presi da un grande timore del SIGNORE; offrirono un sacrificio al SIGNORE e fecero dei voti». Di nuovo lo stesso verbo, ma questa volta non è timore del mare e della tempesta, è timore del Signore, riconoscono cioè che Dio è Dio e gli fanno un sacrificio.

Dio voleva mandare Giona a Ninive, a predicare a dei pagani, Giona era fuggito, ma tutto quello che è successo ha fatto sì che degli altri pagani credessero in Dio. Dio si serve persino del profeta disobbediente per farsi conoscere e portare dei pagani alla fede. Di nuovo emerge l’ironia di questo racconto: Giona non ha predicato, né testimoniato, ha semplicemente detto che “teme Dio”, benché nei fatti non sia vero. Ma Dio ha messo a frutto questa parola di Giona per portare dei pagani alla fede. Il timore di Dio di Giona – che è ebreo - era finto, quello dei marinai – che sono pagani – invece è vero. Il profeta, scelto e chiamato da Dio, non crede e fugge, dei marinai che non sapevano nulla di Dio, ora credono. 

E Giona? Lo abbiamo lasciato in fondo al mare. Dio non lo abbandona. Poteva anche esserne tentato: Giona lo ha talmente deluso e tradito che Dio poteva anche decidere di lasciarlo affogare. E invece no. Dio manda un pesce, un grosso pesce. Non so se avete notato che nel racconto tutto è grosso: è grossa la città di Ninive, è grossa la tempesta, è grosso il pesce… solo Giona è piccolo, piccolo ma ostinato. 

Dio salva Giona. Tre giorni e tre notti nel pesce, un tempo per riflettere e meditare, e pregare. Giona rivolge a Dio la preghiera che troviamo nel cap. 2. Un salmo, un bel salmo in cui però Giona non fa quello che ci aspetteremmo almeno a questo punto: chiedere perdono. Dopo la preghiera una breve frase del narratore ci dice che cosa accade: «E il SIGNORE diede ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sulla terraferma».

Giona non ha chiesto perdono, ma Dio lo ha salvato lo stesso. Lo ha fatto risalire dal fondo del mare. Giona era sceso: sceso al porto di Giaffa, sceso nella stiva della nave, sceso nel sonno profondo, sceso nel fondo del mare, sceso nella pancia del pesce. Dio lo fa risalire, anzi, lo riporta su, lo riporta sulla terraferma, lo riporta in vita da morte sicura. 

Perché Dio è misericordioso. Ma non solo, Dio non si accontenta di salvarlo. Lo ha salvato, potrebbe lasciarlo lì, mandarlo in prepensionamento e lasciarlo stare. E invece no. Dio non lo molla. Sapete come inizia il capitolo 3?: «La parola del SIGNORE fu rivolta a Giona, per la seconda volta, in questi termini: «Àlzati, va’ a Ninive, la gran città, e proclama loro quello che io ti comando» (3,1-2). La stessa identica richiesta che aveva fatto a Giona all’inizio della storia. E questa volta Giona andrà a Ninive, anche se poi la storia riserva ancora delle sorprese.

La storia dunque ricomincia. A Giona e al Giona che è in noi Dio dice: tu puoi fuggire dove vuoi ma io ti vengo a cercare e ti riporto a me, e ti faccio risalire dal fondo del mare, dove c’è solo morte, e ti rimetto sulla terra asciutta, dove c’è vita e lì ti rivolgo di nuovo la mia parola.

Questa è la grazia, la grazia di Dio nonostante la fuga e la ribellione di Giona e del Giona che è in tutti noi. La grazia che fa risalire dall’abisso e fa ricominciare la storia da capo, o meglio, da Dio.