mercoledì 28 luglio 2021

Predicazione di domenica 25 Luglio 2021 su Matteo 28,16-20 a cura di Giuseppe Sgroi

Matteo 28,16-20

16 Quanto agli undici discepoli, essi andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro designato. 17 E, vedutolo, l'adorarono; alcuni però dubitarono. 18 E Gesù, avvicinatosi, parlò loro, dicendo: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. 19 Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, 20 insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente».


Care sorelle e cari fratelli, confesso la mia emozione nell’essere qui dopo questo lungo periodo di chiusure, zone rosse, culti online; è come se fosse la prima volta, succede sempre, sia tutte le volte che mi ritrovo a predicare in una comunità nella quale non avevo mai predicato prima oppure dove non predico da molto tempo e soprattutto dopo questo periodo.

Quest’emozione è sempre un momento particolare che riprovo in queste occasioni.

I versetti che abbiamo letto, fanno pensare che anche per i discepoli, che pure avevano vissuto con Gesù per diverso tempo, che l’avevano visto fare cose strabilianti, l’avevano sentito dire cose nuove, innovative, anche per loro, il momento di quest’incontro raccontato dal vangelo, dev’essere stato emozionante e allo stesso tempo sbalorditivo, a tratti incredibile, come un’altra prima volta, al punto che, dice il testo, alcuni dubitarono.

Il verbo greco che l’evangelista usa qui, significa effettivamente dubitare ma potremmo anche tradurlo con “essere incerto”, che di fatto è un sinonimo.

Proviamo a rivivere con i discepoli quel momento: diversamente da altri Vangeli, Matteo non ci racconta altre apparizioni del Risorto, a parte quella alle tre donne che andarono al sepolcro. Per tutti gli altri discepoli dunque si trattava proprio della prima volta dopo la resurrezione.

È comprensibile che ci fosse dello sconcerto e dunque dell’incertezza. Incertezza che nemmeno la visione del Risorto in quel momento riuscì a colmare. Ma in fondo, non è certamente qualcosa di strano: quante volte nella nostra vita, chi più e chi meno, ha avuto delle incertezze; a volte queste incertezze si sono riflesse pure nella nostra fede.

Non sempre è filato tutto liscio.

Eppure con tutte le nostre incertezze e le difficoltà che esse comportano - e possiamo dire che quest’anno trascorso, tra pandemia, divieti di spostamento, chiusure, lutti, ebbene tutte queste cose, non hanno fatto altro che aumentare, in molti casi, il senso d’incertezza – eppure siamo qui, a leggere questi versetti, queste parole del Vangelo, che ci toccano nel profondo, toccano le corde più intime della nostra stessa fede e ci pongono degli interrogativi importanti, quelli relativi appunto alla resurrezione del Cristo, che è un elemento centrale della fede cristiana, oserei dire, che è l’elemento centrale; per dirla con Lutero, parafrasandolo, è l’articolo sul quale la fede cristiana sta o cade (articulus stantis vel cadentis fidei).

Ma il Vangelo continua a raccontare e le parole del Risorto ci annunciano tre momenti importanti:

uno al passato, Gesù dice ‘‘Ogni potere mi è stato dato’’, ossia qualcosa che è già avvenuta e che dura ancora nel momento nel quale il Risorto parla;

uno al presente, ‘‘Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli’’, un presente che è ancora presente, anche oggi, non è ancora passato;

uno al futuro, ‘‘io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente’’, un futuro dunque carico di promesse e di forza.

Poche settimane fa è stato presentato un libro a fumetti di Andrea Tridico, che frequenta talvolta la Chiesa Valdese di Torino, intitolato “Il Sentiero”; questo libro narra la storia del Glorioso Rimpatrio dei valdesi e la incrocia con quella di un ragazzo ivoriano, Enoch è il suo nome, che nel 2019 arriva in Italia con uno dei tanti barconi.

Durante il lungo viaggio che aveva intrapreso con la sorella, ha vissuto situazioni terribili: il deserto, i trafficanti, lo stupro e la morte della sorella, la traversata su un gommone.

Enoch arriva in Italia e rientra nel programma di accoglienza della Chiesa Valdese e accolto in casa da una nostra sorella di chiesa a Torre Pellice. Mentre si trovava nella biblioteca del Centro Culturale, trova una copia del diario di David Mondon, valdese esiliato a Ginevra che prese poi parte (à la Glorieuse Rentrée) al Glorioso Rimpatrio. Enoch s’identifica con questo giovane e con i suoi racconti, facendo un parallelo tra la sua migrazione e il Glorioso Rimpatrio.

Ma la vita lo colpisce ancora: viene aggredito e picchiato solo perché straniero. Tenta di fuggire in Francia ma ha un incidente e rischia di morire.

La sua fede, quella nella quale è stato cresciuto (Enoch è cristiano), non solo vacilla, ma cade, rotola rovinosamente come la sua vita.

I suoi dubbi e le sue ansie diventano enormi. Si chiede se Dio è ancora veramente al suo fianco.

Come dargli torto!

Le parole del Vangelo di oggi ci riportano in qualche modo a questa storia.

I tre momenti descritti dal Risorto, il passato con il potere che gli fu dato, il potere di parlare dell’amore del Padre, il potere di guarire, il potere di amare fino all’ultimo momento, perdonando chi lo aveva fatto condannare e crocifiggere, non è semplicemente un sentimento umano ma è qualcosa di più, molto di più.

Il momento presente ci chiama alla testimonianza della fede, testimonianza che probabilmente non sappiamo più esprimere in modo chiaro e completo e forse la decrescita stabile delle nostre comunità, ne è il sintomo più chiaro. Il Cristo Risorto ci chiama anche a questo, ci chiama ad esprimere le nostre convinzioni, la nostra fede; senza denigrare la fede altrui laddove c’è, senza banalizzarla, senza offenderla; ma senza banalizzare o offendere nemmeno chi una fede non la esprime o non sa esprimerla. Ma in maniera mite, come mite fu Gesù, ci chiama ad esplicitarla, a comunicarla esattamente come la donna, sorella di chiesa, che nel racconto non solo accoglie questo giovane, ma lo sostiene quando la sua vita e con essa la sua fede, vacillano e cadono.

Noi abbiamo un argomento valido, più che valido: l’amore! Quello del Padre verso i suoi figli e figlie, quello del Cristo che perdona tutto, tutti e tutte, quello dello Spirito, che suscita fede e doni, quello reciproco tra esseri umani, che è un riflesso di quello del Padre e che apre le braccia e accoglie.

E poi c’è l’ultimo momento, è quello futuro, ma che parte dal nostro presente: la sua presenza al nostro fianco finché vivremo. E forse quest’ultimo momento è il più problematico, il più complesso, quello meno facile da vivere e da dire. Se avessimo avuto Enoch qui oggi, forse non avremmo saputo esattamente cosa dirgli.

Si perché ancora una volta, la vita che viviamo non sempre ci viene incontro, non sempre è d’aiuto; c’è chi vive il dramma della perdita di una persona cara; c’è chi convive con una malattia debilitante e invalidante; c’è chi ha perso il lavoro e non sa come fare. C’è chi ha perso la propria serenità familiare e questo lo/la fa sentire distante da qualunque rapporto umano e anche con il divino, con il buon Dio. La lista potrebbe continuare a lungo.

Non è facile porre fede a questa promessa che il Risorto pronuncia, “io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente”; non lo è!

E i drammi che sottintendono a questo, non sono, né possono essere semplificati oltremodo, senza correre il rischio di banalizzarli.

Eppure, il nostro essere qui oggi, dentro questa sala di culto, testimonianza di chi ci ha preceduti e ha creduto che questo luogo fosse importante, quale simbolo della fede concreta e vissuta, quale testimonianza oggettiva del credo della comunità, il nostro essere qui anche oggi, dobbiamo comprenderlo non come la buona azione settimanale, quella del buon cristiano, ma come la risposta ad un appello che ci è stato rivolto e chiaramente anche come testimonianza.

Cosa vuol dire per noi oggi “fate miei discepoli tutti i popoli”?

Forse il Vangelo di oggi ci sta invitando ad avere coraggio, a tenere in particolare considerazione l’amore del buon Dio e trasmetterlo con tutta la forza che abbiamo.

Forse in questa nostra società governata dall’efficienza del consumismo, c’è bisogno di una pausa di riflessione e forse noi potremmo essere, come credenti, coloro i quali pongono un motivo di riflessione, vero e profondo; riflessione che inizia da noi stessi, per poi estendersi agli altri che ci circondano, persone conosciute e a noi care e persone sconosciute ma bisognose di una parola di conforto e d’amore.

Non avremo risolto i problemi del mondo, proprio no! Ma magari avremo provato a risolvere il problema di un singolo, di una persona, facendo intravedere, al nostro potenziale interlocutore, una speranza, un soggetto di riflessione, gioendo anche di questo, di questi piccoli progressi, di queste piccole cose, ma anche grandi cose, perché fatte con amore.

E forse in questo modo potremo anche sperimentare la presenza del Cristo accanto a noi, agendo verso l’altro, verso l’altra, “tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente”, dice il Vangelo.

Adesso dunque, care sorelle e cari fratelli, non ci resta che prendere il nostro coraggio, e se ne fossimo sprovvisti, potremmo sempre chiederlo al buon Dio, e assieme al nostro coraggio, anche la nostra poca o tanta fede e provare a dire: caro fratello, cara sorella, non disperare, anche se può sembrare banale dirlo e affermarlo, anche se è difficile vederlo, anche se è difficile crederlo, anche se è difficile sentirlo, il buon Dio, in Cristo, ti è vicino, capisce il tuo tormento, comprende le tue difficoltà. Lo sa, lo sa perché l’ha provato prima di noi, in Gesù, perché ha scelto di provarlo, non era obbligato ma lo ha fatto, l’ha voluto fare e quindi sa cosa si prova a dire “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”.

Lo sa, per questo motivo è con te, è con noi, “tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente”.

Amen.





domenica 18 luglio 2021

Predicazione di domenica 18 luglio 2021 su 1 Re 17 a cura di Marco Gisola

1 Re 17,1-7

1 Elia, il Tisbita, uno di quelli che si erano stabiliti in Galaad, disse ad Acab: «Com’è vero che vive il SIGNORE, Dio d’Israele, che io servo, non ci sarà né rugiada né pioggia in questi anni, se non alla mia parola».

2 La parola del SIGNORE gli fu rivolta in questi termini: 3 «Parti di qua, va’ verso oriente, e nasconditi presso il torrente Cherit, che è di fronte al Giordano. 4 Tu berrai al torrente, e io ho comandato ai corvi che là ti diano da mangiare». 5 Egli dunque partì, e fece secondo la parola del SIGNORE; andò e si stabilì presso il torrente Cherit, che è di fronte al Giordano. 6 E i corvi gli portavano del pane e della carne la mattina, e del pane e della carne la sera; e beveva al torrente. 7 Ma di lì a qualche tempo il torrente rimase asciutto, perché non pioveva sul paese.



Nel brano di oggi incontriamo uno dei personaggi più famosi e anche più straordinari dell’Antico Testamento: il profeta Elia. Il secondo libro dei Re racconterà che Elia verrà rapito in cielo su un carro di fuoco e proprio perché rapito in cielo, gli ebrei ne attendono il ritorno come precursore del messia: prima del messia ritornerà Elia. Per questo gli ebrei lasciano una sedia vuota per Elia durante la cena di pasqua.

Il brano di oggi è la prima volta che Elia fa la sua comparsa; sul suo conto ci viene detto molto poco. Il racconto ci dice solo da dove viene: “Elia il tisbita”: Tisbe è il luogo da cui proviene, che si trovava in una regione periferica di Israele; le sue origini sono dunque oscure, e non ci viene detto nulla né della sua famiglia né del suo passato.

Elia compare così, quasi dal nulla per rivolgere al re Acab una parola di giudizio, cioè l’annuncio di una terribile siccità.

Acab è re di Israele e di Samaria, cioè della parte settentrionale del regno, mentre la parte meridionale chiamata Giuda, aveva un altro re. Acab è un re infedele e idolatra: il capitolo precedente ci dice che “fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti quelli che lo avevano preceduto”.

Acab aveva sposato Izebel o Gezabele, una donna cananea e insieme a lei costruisce altari al Dio cananeo Baal e alla dea Astarte e a Baal costruisce anche un tempio.

La parola che Elia rivolge ad Acab è una parola di giudizio, in cui Elia annuncia una cosa terribile per chi vive di prodotti della terra, la siccità: “non ci sarà né rugiada né pioggia in questi anni”. Siccità vuol dire niente raccolti, vuol dunque dire niente cibo.

Elia rivolge questa parola di giudizio ad Acab e poi se ne va, senza che il racconto ci dica come Acab abbia reagito e che cosa abbia fatto o detto. Elia va via perché Dio gli dice di andare a nascondersi: evidentemente con Acab non c’è da stare tranquilli, anzi c’è motivo di avere paura.

Dio dice ad Elia di andare presso un torrente da cui potrà bere e gli dice che Dio ha ordinato a dei corvi che gli portino da mangiare. Elia fa come Dio gli aveva detto e si reca al torrente e qui in effetti i corvi gli portano pane e carne da mangiare.

La permanenza di Elia al torrente è molto di più che una fuga dalla probabile vendetta di Acab per le sue parole. Il fatto che Elia vada dove Dio gli dice di andare è il segno che non può più tornare alla vita di prima, qualunque essa fosse.

Ora Elia è il profeta, si è presentato ad Acab come “servo di Dio” e la sua vita dipende ora tutta da Dio. Non si è profeti part-time, ma questo dice a noi non si è neanche credenti part-time o cristiani part-time: la chiamata di Dio coinvolge tutta l’esistenza, anche se non nel modo in cui è toccato ad Elia.

Queste riflessioni, insieme a diverse altre cose che vi sto dicendo, le ha scritte il pastore Giorgio Tourn in questo bel libretto su Elia (Claudiana, 2005), in cui, proprio a proposito dei corvi che nutrono Elia, Tourn scrive una cosa molto bella e importante: ricevendo il cibo dai corvi Elia deve imparare che un credente non vive di ciò che possiede, ma vive di ciò che riceve.

Elia si è presentato come servo di Dio. Ma essere servi di Dio non è un fatto, non è una divisa da indossare, e tanto meno un privilegio. È un compito, un dono e anche un cammino, che Elia sembra aver appena iniziato.

E infatti Elia, che ha annunciato la siccità deve ora lui stesso sperimentare la sete, perché il ruscello presso il quale Dio lo ha mandato a nascondersi, dopo un po’ si asciuga.


1 Re 17,8-16

8 Allora la parola del SIGNORE gli fu rivolta in questi termini: 9 «Àlzati, va’ ad abitare a Sarepta dei Sidoni; io ho ordinato a una vedova di laggiù che ti dia da mangiare». 10 Egli dunque si alzò, e andò a Sarepta; e, quando giunse alla porta della città, c’era una donna vedova, che raccoglieva legna. Egli la chiamò, e le disse: «Ti prego, vammi a cercare un po’ d’acqua in un vaso, affinché io beva». 11 E mentre lei andava a prenderla, egli le gridò dietro: «Portami, ti prego, anche un pezzo di pane». 12 Lei rispose: «Com’è vero che vive il SIGNORE, il tuo Dio, del pane non ne ho; ho solo un pugno di farina in un vaso, e un po’ d’olio in un vasetto; ed ecco, sto raccogliendo due rami secchi per andare a cuocerla per me e per mio figlio; la mangeremo, e poi moriremo». 13 Elia le disse: «Non temere; va’ e fa’ come hai detto; ma fanne prima una piccola focaccia per me, e portamela; poi ne farai per te e per tuo figlio. 14 Infatti così dice il SIGNORE, Dio d’Israele: “La farina nel vaso non si esaurirà e l’olio nel vasetto non calerà, fino al giorno che il SIGNORE manderà la pioggia sulla terra”». 15 Quella andò e fece come Elia le aveva detto; lei, la sua famiglia ed Elia ebbero di che mangiare per molto tempo. 16 La farina nel vaso non si esaurì, e l’olio nel vasetto non calò, secondo la parola che il SIGNORE aveva pronunciata per bocca d’Elia.



Elia non ha solo sete, ha anche fame. Dopo averlo nutrito attraverso i corvi, cioè con un suo intervento miracoloso diretto, ora Dio decide di provvedere al nutrimento di Elia attraverso altri esseri umani. E chi sceglie Dio per nutrire il suo profeta?

Sceglie una donna vedova e straniera; dunque una persona tre volte fragile o per meglio dire tre volte resa fragile dalla sua società: perché donna, perché vedova e, dal punto di vista ebraico, perché straniera. Dio manda infatti Elia a Sarepta di Sidone, nel territorio dei fenici, fuori da Israele. La donna che nutrirà Elia è dunque pagana.

Questa donna sarà citata da Gesù, quando nella discussione con i suoi concittadini di Nazareth dirà che con tutte le vedove che erano presenti in Israele Dio aveva mandato Elia proprio dalla vedova di Sarepta al di fuori di Israele.

Ma la donna non è solo vedova e straniera, è anche povera, anzi è ridotta in miseria a tal punto che, quando Elia le chiede di portarle un po’ di pane, lei dice che non può, perché userà l’ultima farina che le rimane e l’ultimo residuo di olio per fare un po’ di pane e placare la fame sua e di suo figlio, e poi si lasceranno morire.

Il grande profeta Elia, quello che secondo la tradizione ebraica non morirà ma sarà portato in cielo sopra un carro di fuoco deve sperimentare l’aiuto di una vedova straniera… che non può aiutarlo. Che non potrebbe aiutarlo, se non intervenisse Dio stesso.

Elia è sicuro che Dio interverrà e dice alla donna di impastare sia per lui, sia per lei stessa e per suo figlio e dichiara che la farina non diminuirà e l’olio non scenderà di livello.

Avviene un miracolo di moltiplicazione dell’olio e della farina, cosicché la donna può nutrire se stessa e suo figlio e anche questo misterioso ospite che le è capitato in casa, che chiedendole da mangiare ha fatto sì che potesse mangiare anche lei con suo figlio.

La bellezza di questo episodio è che Elia salva e salvando viene salvato, aiutando viene aiutato. O per meglio dire: Dio salva sia Elia, sia la donna e suo figlio, creando tra loro un legame salvifico. Dio li salva entrambi, ma li salva insieme, soltanto insieme si salvano e vengono salvati.

Come sottolineerà Gesù a Nazaret, è significativo che questo accada fuori da Israele. Elia ha dovuto fuggire per paura di Acab e della moglie Izebel. Nel suo paese rischiava di morire, in terra straniera e pagana trova vita e salvezza, e la trova per mano di una vedova che non ha nulla.

Una anticipazione – e quindi indirettamente una conferma – di quel che scriverà Paolo, cioè che Dio ha scelto le cose che non sono – come questa vedova poverissima – per ridurre al niente le cose che sono, il re e la regina.

Elia, la donna e il figlio sono salvi dalla morte causata dalla siccità e dalla mancanza di cibo. Ma il cammino interiore di Elia non è ancora finito. Prima di proseguire il suo cammino di profeta e tornare in Israele, deve fare ancora un pezzo di strada dentro di sé.

Deve confrontarsi con il limite della vita, cioè con la morte, ma non la sua, ma quella del giovane figlio della donna che Dio ha salvato con lui.



1 Re 17,17-24

17 Dopo queste cose, il figlio di quella donna, che era la padrona di casa, si ammalò; e la sua malattia fu così grave, che egli cessò di respirare. 18 Allora la donna disse a Elia: «Che ho da fare con te, o uomo di Dio? Sei forse venuto da me per rinnovare il ricordo delle mie iniquità e far morire mio figlio?» 19 Egli le rispose: «Dammi tuo figlio». Lo prese dalle braccia di lei; lo portò su nella camera di sopra, dove egli alloggiava, e lo coricò sul suo letto. 20 Poi invocò il SIGNORE, e disse: «SIGNORE mio Dio, colpisci di sventura anche questa vedova, della quale io sono ospite, facendole morire il figlio?» 21 Si distese quindi tre volte sul bambino e invocò il SIGNORE, e disse: «SIGNORE, mio Dio, torni, ti prego, l’anima di questo bambino in lui!» 22 Il SIGNORE esaudì la voce d’Elia: l’anima del bambino tornò in lui, ed egli visse. 23 Elia prese il bambino dalla camera di sopra e lo portò al pian terreno della casa, e lo restituì a sua madre, dicendole: «Guarda! tuo figlio è vivo». 24 Allora la donna disse a Elia: «Ora riconosco che tu sei un uomo di Dio, e che la parola del SIGNORE, che è nella tua bocca, è verità».



La storia tocca il culmine della tragedia familiare: la morte di un figlio. La madre rimprovera Elia, che in realtà non c’entra nulla, ma è molto umano il bisogno di dare la colpa a qualcuno davanti alle tragedie.

La donna ha capito che Elia non è una persona qualunque, che con lui c’è Dio (da pagana penserà che c’è un qualche dio, non importa quale…) e dunque quest’uomo e il suo Dio, secondo lei, devono c’entrare qualcosa con la morte di suo figlio.

Elia non si scoraggia. Dio non c’entra con la morte del ragazzo, ma può c’entrare con la sua vita, con il suo ritorno alla vita.

Elia dunque prega. È la prima volta che il racconto ci dice che Elia preghi. Fa parte del cammino che Elia deve fare: finora era stato molto sicuro di sé, era stato molto sicuro che Dio fosse con lui e in effetti era così, Dio lo aveva protetto e nutrito senza che Elia dovesse chiedere nulla.

Ora Elia deve chiedere. La sua prima preghiera è in realtà una domanda, anzi una protesta: «SIGNORE mio Dio, colpisci di sventura anche questa vedova, della quale io sono ospite, facendole morire il figlio?». Ma poi arriva la richiesta: «SIGNORE, mio Dio, torni, ti prego, l’anima [cioè la vita] di questo bambino in lui!».

«Il SIGNORE esaudì la voce d’Elia». Il ragazzo torna a vivere. E anche la madre in qualche modo torna a vivere e anche lei fa un cammino che non so se si può definire conversione, ma sicuramente di fiducia: «Ora riconosco che tu sei un uomo di Dio, e che la parola del SIGNORE, che è nella tua bocca, è verità».

La donna riconosce che la Parola di Dio che è nella bocca di Elia è verità. È la frase culminante del racconto: una donna straniera viene salvata due volte, insieme a suo figlio, dalla morte per opera di Dio che si serve di Elia e riconosce questa verità.

Ma anche Elia in qualche modo torna a vivere, la sua fede torna a vivere. Ha dovuto arrivare a confrontarsi con il limite estremo, il limite della morte di un ragazzo, limite davanti al quale tutti siamo impotenti. Ha dovuto umiliarsi e chiedere.

Finora era parso molto sicuro della presenza di Dio, sapeva che Dio era con lui. Questa esperienza lo ha portato a dover chiedere l’aiuto di Dio, non per sé, ma per il figlio della donna e per la donna stessa. Ma indirettamente anche per sé, per la sua fede.

Dopo aver fatto questo cammino dentro di sé Elia potrà fare il cammino di ritorno verso Israele, dove incontrerà di nuovo il re Acab e avrà luogo lo scontro con i profeti di Baal. Vincerà – o meglio: Dio vincerà - e proprio perché vincerà dovrà di nuovo fuggire fino al monte Oreb.

Elia era sicuro che Dio fosse con lui, ma Dio lo ha messo alla prova, gli ha fatto sperimentare il bisogno e al tempo stesso la sua provvidenza, gli ha fatto sperimentare che è importante riconoscere il bisogno e il bisogno di essere aiutati, magari da una vedova che non ha nulla, per capire che tutto è donato da Dio e tutto è ricevuto.

Ha dovuto imparare a chiedere l’aiuto di Dio e questo lo ha fatto crescere e lo ha reso pronto a nuovi cammini.

La storia di Elia è straordinaria, piena di prodigi e quasi eroica, al punto che ci sembra lontana anni-luce dalle nostre piccole vite. Ma Elia non è un eroe. È un profeta, dunque un servo, come dice lui stesso. E come dice la donna, è la parola che è dentro di lui che è verità, non Elia. E la parola è dentro di lui perché Dio gliela ha donata.

È giusto che Elia rimanga un personaggio stra-ordinario, così come la Bibbia ce lo presenta. Ma la straordinarietà della sua figura è solo la straordinarietà della Parola che Dio gli ha affidata, Parola che nutre – come fanno i corvi - che crea comunione – come quella che nasce tra la donna ed Elia – che dona la vita e dona la nuova vita – come al figlio della donna.

È questa parola che è stra-ordinaria e fa tutto questo anche nelle nostre piccole e normali vite. Che il Signore ci dia la stessa fiducia a cui è arrivata questa anonima donna, che riconosce che nei cammini tortuosi di ogni nostra esistenza, cammina con noi questa Parola che è verità che nutre e fa vivere.

Predicazione di domenica 4 luglio 2021 su 1 Corinzi 1,18-25 a cura di Marco Gisola

Poiché la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: «Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l’intelligenza degli intelligenti». Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dov’è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione.  I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.


“I Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza”. E noi? Noi a volte vorremmo tutti e due, vorremmo miracoli e vorremmo sapienza. Vorremmo vedere e vorremmo sapere. Vorremmo vedere dei segni, dei segni concreti per poter dire “qui c’è Dio”, “questo lo ha fatto Dio”, “Dio ha voluto così”. E vorremmo sapere, abbiamo tanti perché, tante domande a cui vorremmo poter dare una risposta. Sapere perché qualcosa è successo, sapere che cosa succederà, sapere qualcosa di più sul regno di Dio. È umano tutto ciò, molto umano, è nella nostra natura voler vedere e voler sapere.
Ma l’evangelo non consiste nel vedere e non consiste nel sapere, e Dio si rivela in ciò che è scandalo per chi vuol vedere e pazzia per chi vuole sapere.
Vuoi vedere? Dio ti fa vedere Gesù crocifisso. Un uomo crocifisso è un uomo appeso alla croce, appeso a lungo alla croce, un uomo agonizzante, sofferente, alla fine. Era una morte lenta ad atroce, che diventava spettacolo, macabro e terribile spettacolo, perché doveva spaventare quelli che pensavano di ribellarsi ai romani – era infatti la morte dei ribelli – e perché i romani stessi potessero dimostrare e mostrare il loro potere e la loro forza. Era una morte, appunto, da vedere, a cui si poteva assistere. Vuoi vedere? Questo ti fa vedere Dio, un essere umano crocifisso. Questo è il miracolo che Dio ci fa vedere. E come ben sappiamo, Gesù ne ha fatti di miracoli, ne ha fatti molti di miracoli i cui effetti erano ben visibili: paralitici che camminavano, indemoniati liberati dal demonio, ciechi che tornavano a vedere… chi lo ha seguito ne ha viste tante di cose straordinarie! Ma l’ultimo e definitivo miracolo, l’evento di salvezza che Dio stesso opera per noi, si vede solo lì, nel Gesù crocifisso. Scandalo, non solo per i giudei, ma per tutti.
Scandalo vuol dire inciampo; inciampiamo nel crocifisso, nel senso che non possiamo toglierlo di mezzo, non possiamo “bypassarlo”, non possiamo fare un’altra strada, ci incappiamo dentro. O meglio: possiamo fare un’altra strada ovviamente, ma non è più la strada della fede cristiana. La fede cristiana passa di lì. Questo c’è da vedere.
Vuoi sapere? Vuoi trovare Dio attraverso la tua intelligenza, il tuo studio, la tua meditazione, vuoi trovare Dio nelle tue idee o nelle tue emozioni? Non lo trovi. Non lo trovi a partire da te, lo trovi al di fuori di te e non in ciò che è alto, bello, ricco e potente. Ma nel crocifisso. Se cerchiamo un Dio logico e razionale non lo troviamo, o se lo troviamo non è il Dio di Gesù Cristo, è qualcos’altro. Perchè il Dio di Gesù Cristo lo troviamo appunto in Gesù Cristo, e in lui crocifisso. Pochi versetti più avanti in questa stessa lettera Paolo scriverà: “quando venni da voi, non venni ad annunciarvi la testimonianza di Dio con eccellenza di parola o di sapienza; poiché mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso” (2,2). Di non sapere altro fuorché Gesù crocifisso. E dunque, per chi vuole sapere, il Cristo crocifisso è pazzia, dice Paolo. Che cosa c’è da sapere in un uomo crocifisso? Nulla, non c’è nulla da sapere se non constatare il suo fallimento e la sua fine.
Ecco, scandalo e pazzia questo è il Cristo crocifisso per la nostra voglia di vedere e per la nostra voglia di sapere. Scandalo e pazzia per i nostri occhi umani e per la nostra mente umana. Ma Dio – ci dice Paolo – rende pazzo ciò che per noi è saggio e intelligente. Dio, cioè rovescia tutto, mette le cose sottosopra: ciò che alla nostra mente umana appare scandaloso e ciò che alla nostra sapienza umana appare folle, è invece proprio ciò che Dio ha scelto per rivelare la sua forza e la sua sapienza.
Forse davanti al Cristo crocifisso ci scandalizziamo, perché ci sembra troppo debole per c’entrare qualcosa con Dio... E invece è proprio quella la potenza di Dio. Forse davanti al Cristo crocifisso ci scandalizziamo, perché ci sembra totalmente folle che Dio venga a noi in questo modo, che il figlio di Dio faccia questa fine… E invece è proprio quella la sapienza di Dio. Ciò che a noi sembra folle e debole, in realtà non lo è. O meglio: lo è per la nostra logica e per la nostra ragione, ma non lo è per Dio. Ciò che, umanamente parlando, è debole e folle è invece forza e sapienza di Dio.
Dio si rivela nel Gesù crocifisso. E nella croce pronuncia innanzitutto il nostro giudizio, il giudizio sulla potenza umana, quella che ha portato Gesù sulla croce, e sulla sapienza umana, che non ha potuto riconoscere in Gesù il figlio di Dio e lo ha anzi respinto come un impostore e lo ha ucciso. Nella croce Dio pronuncia il suo giudizio su di noi; sbaglieremmo a dare una lettura romantica della croce, vedendovi solo l’amore di Dio per noi e vedendo noi solo come i destinatari del suo amore. Che l’evento della croce è il culmine dell’amore di Dio per noi è vero, ma se dimentichiamo che essa è anche giudizio su di noi, è solo una mezza verità e dunque è una mezza bugia. Una lettura romantica o mielosa della croce sarebbe quella che Bonhoeffer chiamava “grazia a buon mercato”, perché grazia senza giudizio, dunque un fraintendimento dell’evangelo. La croce è il giudizio su di noi, è il giudizio sulla nostra potenza e sulla nostra sapienza, che vengono smascherate e giudicate, che crollano davanti alla croce.
La nostra potenza e la nostra sapienza davanti alla croce o crollano o la rifiutano. Per usare un’immagine, davanti alla croce o crolliamo noi o crolla la croce, nel senso che la rifiutiamo e la eliminiamo dall’orizzonte, magari trasformandola in un bel simbolo da appendere al muro, ma rifiutando il giudizio che essa è nei nostri confronti. Perché prima di essere i destinatari dell’amore di Dio che lì si rivela, siamo coloro che quella croce l’hanno eretta e ci hanno crocifisso Gesù, costruendo quindi il nostro stesso giudizio. Essa è il giudizio e dunque il limite contro il quale si infrangono la nostra voglia di miracoli e la nostra voglia di sapienza. È il giudizio sul nostro voler vedere e voler sapere.
Se non possiamo vedere e non possiamo sapere, allora possiamo solo credere. Noi vorremmo vedere e vorremmo sapere. Ma non è la nostra vista a darci la fede, non è la nostra intelligenza a darci la fede, è solo la grazia di Dio: “per quelli che sono chiamati … predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio”. Coloro a cui Dio, nella sua grazia, ha donato la fede, possono riconoscere nella croce – che da un punto di vista umano è scandalo e pazzia – la potenza di Dio e la sapienza di Dio. Che non si vedono nella croce, perché tutto appare tranne che potenza e sapienza – ma piuttosto debolezza e follia. Che lì nella croce sono nascoste la potenza e la sapienza di Dio può solo essere creduto. Che la croce è il nostro giudizio e anche la nostra salvezza può solo essere creduto. Può solo essere annunciato e creduto. E infatti Paolo dice che a Dio – nella sua sapienza - è piaciuto “salvare i credenti con la pazzia della predicazione”, cioè dell’annuncio del Cristo crocifisso: “ma noi predichiamo Cristo crocifisso”. Alla pretesa di potenza e di sapienza umana, Dio oppone questo “ma”: “ma noi predichiamo Cristo crocifisso”.
La fede non è questione di vedere e non è questione di sapere. La fede nasce dall’ascolto dell’annuncio del Cristo crocifisso, nostro giudizio e nostra salvezza; nella croce di Cristo Dio contemporaneamente ci giudica e ci salva dal giudizio. “Ma noi predichiamo Cristo crocifisso” e questo rimane il compito della chiesa, di ogni chiesa. Nel Cristo crocifisso apparentemente troviamo solo follia e debolezza. Ma “la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini”. Dio è più saggio della nostra presunta saggezza e più forte della nostra presunta forza. E nella croce si rivelano essere nulla sia la nostra presunta saggezza, sia la nostra presunta forza.
La croce rimane scandalo e follia, e guai se non fosse così, guai se la croce ci diventasse logica e normale. Davanti ad essa continuiamo ad inciampare, ma Dio viene a dirci che questa croce, che è scandalo e follia, è il nostro giudizio e anche la nostra salvezza.
Perché a Dio è piaciuto di salvare i credenti con la pazzia della predicazione, che ci fa “vedere” e ci fa “sapere” il Cristo crocifisso. Non c’è altro da vedere e non c’è altro da sapere, non c’è altro modo per vedere e per sapere ciò di cui abbiamo bisogno al di fuori dell’annuncio dell’evangelo.
Ci basta Gesù crocifisso, lì c’è tutta la nostra colpa, ma c’è anche tutta la grazia di Dio e dunque tutta la nostra salvezza.