Romani 9,1-8.14-16
Romani
9,1-5
Dico
la verità in Cristo, non mento - poiché la mia coscienza me lo
conferma per mezzo dello Spirito Santo - ho una grande tristezza
e una sofferenza continua nel mio cuore; perché io stesso
vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei
fratelli, miei parenti secondo la carne, cioè gli Israeliti, ai
quali appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la
legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali
appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il
Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!
Nei
capitoli 9, 10 e 11 della lettera ai Romani, Paolo affronta un tema
molto delicato: il rapporto con il popolo di Israele. Ma non il
rapporto tra cristiani ed ebrei, bensì il rapporto tra Dio e gli
ebrei.
Paolo
affronta questo argomento dicendo ben due volte che dice la verità.
Segno che forse ha timore di non essere creduto? Paolo parla
della sua tristezza e della sofferenza “continua” che ha nel
cuore pensando al suo popolo, al popolo ebraico, che chiama “i miei
fratelli”.
Paolo
non si sente un “ex”, non si sente uscito dal popolo ebraico, ma
si sente un ebreo che ha creduto nel messia da tempo promesso ad
Israele. La sua sofferenza è dovuta al fatto che non tutti gli
ebrei hanno creduto nel messia Gesù di Nazaret, e il suo affetto è
dovuto al fatto che agli Israeliti “appartengono
l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e
le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene,
secondo la carne, il Cristo”.
Paolo
sa bene che Dio si è rivelato a Israele attraverso tutte queste
cose, sa che le promesse di Dio, del Padre di Gesù, hanno
accompagnato la vita e la fede di Israele e che tutto questo non si
può cancellare.
Le
promesse sono state compiute in Cristo e Cristo stesso “secondo la
carne”, è ebreo. Il messia di Israele non poteva che venire da
Israele. Da Israele per Israele e non solo per Israele ma per tutta
l'umanità.
Più
avanti, al cap. 11, Paolo dirà che “i doni e la vocazione di Dio
sono irrevocabili” (11,29), un’affermazione che era stata
dimenticata dai cristiani e che è stata rivalutata nel rapporto
e nel dialogo tra cristiani ed ebrei dopo la tragedia della Shoah, lo
sterminio tentato dai nazisti (cristiani) contro gli ebrei.
Nei
secoli c’è stato odio dei cristiani nei confronti degli ebrei,
troppo odio, di cui la Shoah è stata solo il drammatico epilogo,
anzi non l’epilogo, perché l'antisemitismo è ancora molto
presente.
Sarebbe
stato più saggio fermarsi da un lato alla tristezza di Paolo,
tristezza comprensibile perché molti ebrei non hanno creduto in
Cristo, e dall’altro all’affetto di Paolo nei confronti degli
ebrei; se ci fossimo fermati a questo, molte tragedie non sarebbe
successe.
Paolo
arriva a dire che vorrebbe piuttosto essere lui stesso separato da
Cristo per amore dei suoi fratelli! Invece a questo affetto pian
piano nel cristianesimo si è sostituito l’odio verso Israele e la
discriminazione degli ebrei, perché si è imposto il pensiero che la
chiesa avesse semplicemente sostituito Israele nell’amore di Dio.
Ecco
quindi il primo pensiero: quando pensiamo a Israele (come popolo, non
come Stato, che è un'altra cosa), ricordiamoci dell’affetto
che Paolo provava per i suoi fratelli, e accanto alla tristezza o al
dispiacere perché non hanno creduto in Cristo, proviamo anche –
duemila anni dopo Paolo – a manifestare riconoscenza al popolo a
cui Gesù apparteneva per tutto ciò che esso ci ha dato e ci dona
ancora nella riflessione sull’AT.
Romani
9:6-8
6
Però non è che la parola di Dio sia caduta a terra; infatti non
tutti i discendenti d'Israele sono Israele; 7
né per il fatto di essere stirpe d'Abraamo, sono tutti figli
d'Abraamo; anzi: «È in Isacco che ti sarà riconosciuta una
discendenza». 8
Cioè, non i figli della carne sono figli di Dio; ma i figli della
promessa sono considerati come discendenza.
Dopo
questa premessa, Paolo affronta poi il tema da un punto di vista
teologico e entra in quel terreno su cui bisogna muoversi molto
delicatamente, che è quello della elezione da parte di Dio.
Israele
è il popolo eletto, lo abbiamo ascoltato in Esodo 19, ma non basta
essere discendenti di Abramo per essere eletti – dice Paolo -
perché non è il sangue, o la discendenza a garantire
l’elezione, ma è la promessa.
Questo
Paolo lo dice per Israele, ma vale esattamente anche per noi
cristiani. Al sangue e alla discendenza si è sostituita nel
cristianesimo l’idea di appartenenza, ma il risultato è stato
spesso lo stesso: appartenere alla chiesa come appartenere al popolo
di Israele è stato ritenuto sufficiente a garantire la salvezza.
Ma
Paolo dice che per Israele – e dunque anche per i cristiani – non
è l'appartenenza che fa la salvezza, ma è la promessa di Dio.
Non
siamo salvati perché apparteniamo a una chiesa cristiana o perché
siamo battezzati, siamo salvati perché Dio lo ha promesso e
mantiene le sue promesse.
Siamo
salvati perché Dio ci rivolge ogni giorno la sua Parola che è la
sua promessa, compiuta nel dono che Cristo ha fatto di sé. Perché
ogni giorno ci chiama dal peccato alla grazia, dall’odio o
dall’invidia alla riconciliazione, dalla schiavitù alla libertà.
Dio
chiama, e chiamando promette: promette che più forte del nostro
peccato è la sua grazia, promette che più forte del nostro odio e
della nostra invidia è la sua riconciliazione, promette che più
forte della nostra schiavitù è la libertà che egli ci dona.
Ascoltare
questa Parola e ricevere la promessa che la Parola ci annuncia è la
prima cosa che dobbiamo fare, anzi: che possiamo fare, è il primo
dono della grazia. Da questo ascoltare e da questo ricevere
nasce il nostro credere, la nostra fede.
Nessuna
appartenenza, nessun gruppo, nessuna chiesa possono fare quello che
fa la Parola ascoltata, accolta e creduta.
“non
i figli della carne sono figli di Dio; ma i figli della promessa sono
considerati come discendenza”.
Siamo figli di una promessa, il nostro essere figli non dipende da
una qualche realtà o qualità umana, ma dalla decisione di Dio.
Anche
perché guardando alla nostra realtà umana che cosa vediamo? Vediamo
colpa, laddove Dio promette perdono; vediamo odio e invidia laddove
Dio promette riconciliazione; vediamo schiavitù, laddove Dio
promette libertà. Ma il nostro perdono, la nostra riconciliazione e
la nostra libertà stanno solo nella promessa di Dio e sono veri,
reali e possibili solo perché Dio li promette.
Romani
9,14-16
14 Che diremo dunque? Vi è forse ingiustizia in Dio? No di certo! 15 Poiché egli dice a Mosè: «Io avrò misericordia di chi avrò misericordia e avrò compassione di chi avrò compassione». 16 Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia.
14 Che diremo dunque? Vi è forse ingiustizia in Dio? No di certo! 15 Poiché egli dice a Mosè: «Io avrò misericordia di chi avrò misericordia e avrò compassione di chi avrò compassione». 16 Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia.
Ed
ecco poi un terzo punto: Paolo è chiaro: tutto dipende dalla
decisione di Dio: “Non
dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa
misericordia”.
Questo vuol dire che Dio è arbitrario? c’è quindi
ingiustizia in Dio?
Noi
in genere quando affrontiamo il tema delle elezione – o della
predestinazione – focalizziamo la nostra attenzione sui
chiamati. E le domande che ci poniamo sono: chi è eletto? Quanti
sono i predestinati? Chi e quanti sono i non eletti?
E
perché gli uni sì e gli altri no? Noi vogliamo sapere chi è
dentro e chi è fuori, chi è di qua e chi è di là. Domande che non
hanno risposta, che vorrebbero costringere Dio in una logica umana.
Paolo
invece focalizza la sua attenzione su chi elegge, su Dio, che agisce
liberamente e sovranamente, chiamando chi meno ci aspetteremmo. E
proprio la dottrina dell’elezione infrange tutte le barriere,
abolisce tutte le distinzioni tra dentro e fuori.
L’idea
dell’elezione non vuole creare una barriera tra una certa quantità
di eletti e una certa quantità di non eletti, ma anzi vuole abolire
le barriere: la decisione di Dio in Cristo abolisce la barriera tra
ebrei e pagani, come abolisce ogni barriera umana, religiosa o
non.
L’idea
dell’elezione è quella che elimina ogni garanzia umana di salvezza
e sposta tutto sull’azione di Dio. E quindi manda in crisi
chiunque si ritenga possessore esclusivo della verità e della
misericordia di Dio. Dio ha eletto Israele, è vero, ma non è
vincolato solo a Israele.
E
la stessa cosa vale per i cristiani: Dio non è vincolato ai
cristiani, tanto meno ai cristiani di una o dell’altra chiesa, Dio
è libero di chiamare chi e come vuole.
«Io
avrò misericordia di chi avrò misericordia e avrò compassione di
chi avrò compassione» dice
Dio a Mosè (Esodo 33,19). la libertà di Dio è totale; ad alcuni
questa idea fa paura, come se la libertà di Dio fosse un
capriccio;
ma è la nostra libertà che a volte diventa capricciosa, non quella
di Dio. La libertà di Dio è grazia, e per questo – è il caso di
dire “grazie a Dio” - è lui a decidere della salvezza e non noi.
L’idea
dell’elezione non mira a dividere l’umanità in due parti, ma
vuole semplice-mente sottolineare che l’iniziativa è di Dio, solo
ed esclusivamente di Dio. Questo esclude che qualcuno possa dire chi
e quanti sono gli eletti e chi e quanti sono i non eletti.
Credere
nel Dio che elegge e che salva nella sua libera grazia, significa
smettere di porsi queste domande e quindi smettere di fare conti e
alzare barriere.
Significa
anzi lasciare cadere ogni preoccupazione e vivere semplicemente
nella fiducia nella promessa di Dio, sapendo che la sua libertà
coincide con la sua misericordia.
Questo
ci è sufficiente per credere, per essergli grati e per cercare di
essere testimoni del suo amore.