“Non
attestare il falso contro il tuo prossimo”
Questo
comandamento non vuol dire “non dire bugie”, come a volte si
pensa, ma si riferisce a un ambito molto preciso, che è l'esercizio
della giustizia; in tempi in cui non esistevano prove 'scientifiche',
i processi erano spesso condotti in base alla testimonianza dei
testimoni oculari, che erano quindi determinanti per l'esito del
processo.
Il
comandamento è rivolto, come gli altri, agli Israeliti maschi adulti
che godevano dei quattro diritti fondamentali di matrimonio,
culto, guerra e il diritto ad amministrare la giustizia e si
riferisce proprio a questo ultimo ambito, fondamentale per la
vita sociale in Israele.
Il
verbo significa “deporre contro” oppure “rispondere a” e il
sostantivo usato è “testimone” accompagnato dall’aggettivo
“bugiardo”. Quindi “non deporre contro il tuo prossimo
come testimone bugiardo”.
Nell’antico
Israele il processo si tiene alla porta della città, quella che
tutti devono attraversare per andare al lavoro nei campi o nei
pascoli e vi partecipano tutti quelli che ne hanno diritto.
Si
discute la causa e poi viene emessa una sentenza, oppure viene
confermato un accordo che avviene tra le parti, come vediamo nel
libro di Rut, quando Booz si impegna a sposare Rut dopo che il
parente più prossimo rinuncia a questo diritto.
La
parola dei testimoni era quindi determinante per la sentenza e poteva
significare per l'imputato la vita o la morte, come nel caso di
Nabot, che non voleva vendere la sua vigna e quindi la moglie del re
fa raccogliere contro di lui false testimonianze che lo portano
alla condanna alla lapidazione.
Il
testimone di cui si parla qui non è però soltanto il testimone in
un processo come lo intendiamo noi oggi; il testimone può anche
essere al tempo stesso l’accusatore:
Levitico
5,1ss ci dice che chi vede un delitto è tenuto a denunciarlo e
a farsi carico in qualche modo dell’accusa, che poi sarà
supportata da altri testimoni: “Una
persona pecca se, udite le parole di giuramento, quale testimone non
dichiara ciò che ha visto o ciò che sa. Porterà la propria colpa”.
Se
uno non denuncia un reato di cui è stato testimone se ne addossa
la colpa. Un’idea che mi sembra molto importante e molto attuale.
Nei
casi di reati gravi, che prevedono la condanna a morte, non basta la
testimonianza di una persona, i testimoni devono essere due o tre,
come dice Deut:
17,5-7:
“Farai
condurre alle porte della tua città quell'uomo o quella donna che
avrà commesso quell'atto malvagio e lapiderai a morte quell'uomo o
quella donna. Il condannato sarà messo a morte in base alla
deposizione di due o di tre testimoni; non sarà messo a morte in
base alla deposizione di un solo testimone”.
E
poi il testo continua dicendo così: “La
mano dei testimoni sarà la prima a levarsi contro di lui per farlo
morire, poi la mano di tutto il popolo; così toglierai via il male
di mezzo a te”.
Chi
contribuisce, con la denuncia e la testimonianza, a far condannare
qualcuno a morte, deve poi assumersi la responsabilità di essere il
primo a tirare la pietra della lapidazione.
Per
quanto questo oggi ci sembra molto arcaico e nel nostro diritto
non sarebbe accettabile, il significato di questa norma è che chi è
responsabile con la sua testimonianza della condanna di un uomo, deve
esserne responsabile anche praticamente lanciando la prima pietra.
Quest’uso
si presta senz’altro ad abuso, ma dietro a queste norme che abbiamo
letto c’è l’idea che la responsabilità della giustizia in
Israele è collettiva.
Ed
è confermata dall’altro testo che ho citato poco fa - che dice che
se sei testimone di un reato e non lo denunci, sei corresponsabile
del reato cui hai assistito - mi sembra molto moderna, in una società
come la nostra in cui regna molta indifferenza.
E
comunque tutte e due queste leggi ci dicono che il singolo Israelita
– noi diremmo oggi: il singolo cittadino – è corresponsabile
della giustizia che regna nella società in cui vive.
Questo
comandamento non riguarda quindi solo il singolo e la sua coscienza,
e non riguarda nemmeno il fatto di mentire a qualcuno diciamo
“privatamente”. Mentire nel processo significa mentire al popolo
e di conseguenza mentire a Dio.
Significa
rompere l’equilibrio che tiene su la società Israelitica del tempo
e in fondo è uno dei pilastri di tutte le società di ogni tempo
e luogo: l’esercizio della giustizia.
La
giustizia non è solo una cosa che “uso” quando ne ho bisogno,
sperando di non averne mai bisogno, ma è qualcosa che io stesso
contribuisco a costruire giorno per giorno con il mio comportamento,
ne sono in qualche modo soggetto.
Per
questo è così importante che la giustizia sia giusta, cioè che
quando viene emessa una condanna, la condanna corrisponda a una reale
responsabilità di reato.
Proprio
nell’AT nei libri dei profeti più volte è condannata la
corruzione di chi amministra la giustizia, perché su di essa si
regge la vita nella terra promessa del popolo di Israele e si regge
la vita di ogni società, antica o moderna.
Mi
sembra che questo comandamento voglia dire che tutti hanno la loro
piccola parte nell’amministrazione della giustizia, anche il
testimone, che deve quindi dire le cose come stanno, perché è
importante che nell’ambito pubblico emerga la verità e ci si
possa fidare.
Quindi
possiamo forse attualizzare questo comandamento andando anche oltre
la sfera del processo e dell’amministrazione della giustizia.
Non attestare il falso contro il tuo prossimo vale per chiunque,
in particolare per chi abbia un ruolo pubblico.
Se
applichiamo questo ai politici, ciò significa che sono chiamati a
dire la verità, sia quando raccontano quello che vorrebbero fare se
fossero eletti, sia quando raccontano quello che hanno fatto.
Politici, sia di maggioranza, sia di opposizione, sindacalisti,
giornalisti…
C’è
bisogno di verità pubblica, di dire le cose come stanno e non
nasconderle. Nel dibattito pubblico sembra oggi che si cerchi di più
la parla urlata che la parola vera; molti preferiscono dire bugie
urlandole, anziché dire la verità senza gridarla.
Pensiamo
poi alla delicatissima questione dell’informazione: se ogni
giornalista e ogni giornale riportasse i fatti così come sono, dando
ovviamente la propria lettura, la propria interpretazione e la
propria opinione sui fatti, noi cittadini ci guadagneremmo molto e ne
guadagnerebbe la democrazia.
La
verità crea fiducia, mentre la menzogna crea sfiducia, nella vita
pubblica come nella vita privata. E viceversa: la sfiducia porta
a mentire, a cercare altre strade rispetto alla verità e alla
giustizia. Le mafie trionfano tanto più quanto meno fiducia c’è
nello stato e nella sua giustizia.
Insomma,
questo comandamento è rivolto al cittadino Israelita di due millenni
e mezzo fa ma ha ancora molto da dire anche a noi oggi, cittadini
delle democrazie del ventunesimo secolo.
Siamo
corresponsabili della giustizia che accade o non accade nel nostro
paese e nel nostro mondo e lo siamo innanzitutto con il non attestare
il falso contro il nostro prossimo, non solo nei processi, che è
l’ambito proprio del comandamento, ma in tutte le relazioni
pubbliche e anche private che portiamo avanti.
La
giustizia nella società in cui viviamo interessa molto a Dio e per
questo la ricerca della giustizia è una vera e propria vocazione che
tanti brani della Bibbia, compreso questo comandamento, ci
rivolgono.
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