sabato 25 aprile 2020

Predicazione di Domenica 26 aprile su 1 Pietro 2,19-25 a cura di Marco Gisola

1 Pietro 2,(19)21-25
19 […] è una grazia se qualcuno sopporta, per motivo di coscienza dinanzi a Dio, sofferenze che si subiscono ingiustamente. 20 Infatti, che vanto c'è se voi sopportate pazientemente quando siete malmenati per le vostre mancanze? Ma se soffrite perché avete agito bene, e lo sopportate pazientemente, questa è una grazia davanti a Dio. 21 Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme.
22 Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno.
23 Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente; 24 egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati guariti. 25 Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.


Il brano di oggi è un invito a sopportare le sofferenze che si subiscono ingiustamente e questo invito viene rivolto sulla base del comportamento che Gesù stesso ha tenuto nella sua passione e davanti alla croce. Cristo ci ha lasciato un esempio, dice il testo, di come comportarci davanti alla sofferenza ingiusta, lui che «soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente», cioè Dio, che è accanto a chi soffre ingiustamente.
Per capire perché Pietro, o chi per esso (è infatti molto discusso che le lettere che vanno sotto il nome di Pietro siano veramente dell’apostolo Pietro) dice queste cose a coloro cui scrive, dobbiamo capire chi sono i destinatari delle sue lettere. I lettori di questa lettera, come è indicato all’inizio della lettera, sono “gli eletti [cioè i cristiani] che vivono come forestieri dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia” (1,1). Sono dunque cristiani che vivono in mezzo ai pagani e che per questo motivo hanno a volte la vita difficile. Alcuni di loro, è detto nei versetti precedenti, lavorano come servi per padroni “difficili”, probabilmente pagani, e tutti loro hanno a che fare con un’autorità politica pagana. Da diversi accenni che troviamo nella lettera, comprendiamo che essi sperimentano la difficoltà di essere diversi dagli altri.
Questa diversità è fonte probabilmente, se non ancora di vere e proprie persecuzioni, comunque di difficoltà, di critiche, forse di diffidenza e di calunnia. Come fare a vivere la propria fede quando intorno c’è ostilità, o perlomeno la sfiducia di chi ci circonda? Come fare a conciliare la vita comunitaria e la spiritualità e tutto ciò che caratterizza una chiesa cristiana con una vita pubblica in cui ci si trova in mezzo a non credenti che sono a volte anche ostili? Problemi molto distanti dai nostri, che viviamo in una società (almeno teoricamente) a maggioranza cristiana.
Dunque, i credenti della fine del primo secolo a cui si rivolgono queste parole soffrivano a causa della loro fede. Soffrivano ingiustamente. E cosa dice la Parola di Dio a quei cristiani che soffrono ingiustamente a causa della loro fede? E dunque ai cristiani che anche oggi soffrono ingiustamente a causa della loro fede? Dice: Cristo è con voi, Cristo ha patito come voi, lui, il vostro pastore e guardiano delle vostre anime è come voi e con voi. Non siete soli, non siete pecore erranti, abbandonate, ma siete tornati al vostro pastore che ha conosciuto la sofferenza come voi e che vi accompagna nella vostra. La parola tradotta con “guardiano” in greco è episcopo (che in italiano è diventato vescovo) e significa letteralmente “sor-vegliante” cioè colui o colei che osserva e veglia da sopra, dall’alto. Cristo, dall’alto, guarda con amore e veglia su coloro che soffrono ingiustamente a causa sua.
Non fraintendiamo queste parole come se fossero un generale invito a sopportare la sofferenza o a sopportare tutte le sofferenze. No, queste parole non sono rivolte a chi in queste settimane ha perso un parente a causa del coronavirus, non sono rivolte a chi sta lottando contro un tumore. Sono rivolte a chi soffre ingiustamente a causa della propria fede.
Quando l’apostolo dice che «questa è una grazia davanti a Dio» e che «a questo siete stati chiamati» non vuol dire “siete stati chiamati a soffrire” o che la sofferenza in sé sia una grazia, ma vuol dire che la sofferenza ingiusta che si subisce è segno e parte del discepolato. È conseguenza dell’essere discepoli e discepole di Cristo. Niente “dolorismo” quindi, nessuna ricerca della sofferenza e nessun merito nella sofferenza.
La sofferenza è dolore, e il dolore è contrario alla volontà di Dio; Gesù ha sempre liberato le persone che incontrava dalla sofferenza che procurava loro dolore e causava emarginazione. Come è chiaro che l’ingiustizia, che provoca queste sofferenze, è assolutamente contraria alla volontà di Dio e Gesù stesso si è sempre opposto all’ingiustizia.
Ma capita che dei cristiani soffrano a causa della loro fede, capita in molti paesi del mondo, e capita che dei cristiani soffrano a causa del loro tentativo di essere coerenti con l’evangelo. A loro la Parola di Dio dice: Cristo che ha sofferto come voi e prima di voi, è con voi, è dalla vostra parte, veglia sulle vostre anime e vi dà forza di sopportare quello che non potete evitare.
Noi oggi riflettiamo su questi pochi versetti, ma non dobbiamo dimenticare che essi si trovano in un contesto più ampio e i versetti che precedono dicono un’altra cosa importante che ci aiuta anche a capire queste parole. Poco prima del nostro brano l’autore di questa lettera dà diverse istruzioni a questi cristiani che vivono immersi nella società dell’impero, che a è volte ostile. Il problema che si pone è come rapportarsi a questi pagani, che magari sono compagni o datori di lavoro, familiari, amici… sono le persone che hanno l’autorità politica e governano una città.
L’autore dice chiaramente: i pagani devono potere osservare «le vostre opere buone» e quindi dare «gloria a Dio» (v. 12). E la volontà di Dio è espressa in questo modo: la volontà di Dio è «che, facendo il bene, turiate la bocca all'ignoranza degli uomini stolti» (v. 15). Prima di esortare i cristiani dell’Asia minore a sopportare le sofferenze ingiuste, l’autore di questa lettera li esorta a tentare di “prevenire” (diciamo così … ) le ingiustizie. E come? Facendo il bene!
Qual’è l’unica arma che ha una piccola comunità cristiana che vive in mezzo all’ostilità dei pagani? l’unica arma che ha – anzi: l’unica arma che è consentito ai cristiani di usare! – è Il bene, è il fare il bene. Un’arma – beninteso – nonviolenta, che è quel modo di essere e di rapportarsi agli altri che Gesù stesso ci ha insegnato quando ha detto «se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra» (Matteo 5,39), che non significa subire per il gusto di subire, ma significa non rispondere a violenza con violenza, come ha anche detto l’apostolo Paolo quando ha scritto «non rendete male per male» (Romani 12,7).
Opporsi al male facendo il bene, questo è il modo di stare nel mondo e di rapportarsi agli altri dei discepoli e delle discepole di Cristo. Di questo modo di stare nel mondo e di rapportarsi agli altri – anche e sopratutto quelli che non la pensano come noi e ci vogliono male – fa parte anche il sopportare le sofferenze ingiuste, NON allo scopo – ribadiamolo ancora – di soffrire per soffrire, ma allo scopo di non rispondere all’ingiustizia con altra ingiustizia.
I cristiani venivano guardati di malocchio perché erano diversi dagli altri, non praticavano il culto degli dèi, non veneravano l’imperatore… L’autore di questa lettera, in fondo, chiede loro proprio di essere diversi, di essere diversi nel senso di essere discepoli e discepole di Cristo nella loro vita quotidiana, nel loro rapporto con le altre persone, a partire da quelle ostili. Questa diversità è la loro prima testimonianza, questa diversità è il loro essere discepoli e discepole di Cristo nel fare come Cristo ha fatto davanti alla sofferenza ingiusta che lui ha subito. E l’evangelo che oggi riceviamo è che Cristo – pastore e guardiano/sorvegliante delle nostre anime – è dalla parte di chi fa il bene e sopporta le sofferenze ingiuste, che quindi non è da solo, come una pecora errante, ma è vegliato e sostenuto dal suo pastore.
Un’ultima cosa va detta, visto il periodo in cui leggiamo questo brano: fa sicuramente un certo effetto leggere queste parole intorno al 25 aprile, festa della liberazione; liberazione che è avvenuta perché molti giovani l’8 settembre 1943 hanno deciso di non sopportare più la tirannia fascista e nazista ma di iniziare una guerra di liberazione.
Non hanno voluto sopportare la sofferenza ingiusta che avrebbero dovuto subire e hanno fatto una scelta di campo. Tra loro molto cristiani, molti credenti che lo hanno fatto anche per ragioni di fede, che hanno forse dato maggior peso a quell’altra parola biblica (pronunciata, anche questa, dall’apostolo Pietro), che dice che «bisogna obbedire a Dio anziché agli uomini» (Atti 5,29).
Hanno fatto la scelta che in tutt’altro contesto ha fatto Bonhoeffer quando, davanti alla domanda come poteva un cristiano partecipare al complotto per uccidere un uomo (Bonhoeffer collaborò indirettamente al tentativo di uccidere Hitler in un attentato che fallì nel luglio 1944), rispose che se un cristiano vede un pazzo che, alla guida di un’auto, sta facendo una strage, il suo compito non è soltanto quello di curare i feriti e di seppellire i morti, ma anche quello di fermare il pazzo alla guida.
Noi speriamo che la storia non ci metta più davanti a scelte del genere, ma forse “resistenza” è la parola giusta per definire anche l’atteggiamento che suggerisce il Pietro della lettera: una resistenza nonviolenta, portata avanti facendo il bene per dare una buona testimonianza del proprio Signore che è venuto a portare perdono, gioia e pace, ovvero il “bene” per eccellenza e, se necessario, nel sopportare le sofferenze ingiuste che questa testimonianza comporta, come ha fatto Cristo stesso. Che il Signore, che ci ha promesso di vegliare su di noi, ci aiuti e accompagni in questa resistenza quotidiana nonviolenta.

sabato 18 aprile 2020

Predicazione di domenica 19 aprile 2020 su Isaia 40,25-31 a cura di Marco Gisola

Domenica 19 aprile 2020 – prima dopo Pasqua
Isaia 40,25-31

«A chi dunque mi vorreste assomigliare, a chi sarei io uguale?» dice il Santo. Levate gli occhi in alto e guardate: Chi ha creato queste cose? Egli le fa uscire e conta il loro esercito, le chiama tutte per nome; per la grandezza del suo potere e per la potenza della sua forza, non ne manca una. Perché dici tu, Gia­cobbe, e perché parli così, Israele: «La mia via è occulta al Signore e al mio diritto non bada il mio Dio?» Non lo sai tu? Non l’hai mai udito? Il Signore è Dio eterno, il creatore degli estremi confini della terra; egli non si affatica e non si stanca; la sua intelligenza è imperscrutabile. Egli dà forza allo stanco e ac­cresce il vigore a colui che è spossato. I giovani si affaticano e si stancano; i più forti vacillano e cadono; ma quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano.

Sperare è come volare come un’aquila. Questa è l’immagine di questo bellissimo testo del profeta Isaia che ci viene proposto questa domenica dopo Pasqua.
Sperare è volare senza stancarsi; ma non “senza stancarsi” fisicamente, tutti noi ci stanchiamo, è una cosa più che normale…
Sperare, potremmo dire, è non stancarsi di andare avanti, di guardare avanti, anzi di guardare in alto: «Levate gli occhi in alto e guardate: Chi ha creato queste cose? Egli le fa uscire e conta il loro esercito, le chiama tutte per nome…»
Qui il profeta parla al popolo che è in esilio in Babilonia. E al popolo, che vede solo la sua sofferenza e la sua tristezza, Dio chiede di guardare in alto, all’opera di Dio, e gli parla degli astri, delle stelle. Dio le ha create e le conosce una ad una, le chiama addirittura per nome…
Dio invita il popolo a guardare in alto perché non perda la speranza, perché non dubiti che il Dio che ha creato quelle stelle e tutto ciò che esiste è lo stesso Dio che verrà a liberarlo dall’esilio e a ricondurlo a casa. Il Dio creatore è anche il Dio liberatore, che – come è scritto all’inizio di questo stesso capitolo - ha appena detto al popolo in esilio
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamate­le che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato» (40,1-2).
L’esilio sta per finire, questa è la promessa di Dio. Ma il popolo è ancora lì, a Babilonia, e stenta ancora a credere che la liberazione sia vicina. Per questo il profeta torna dal popolo e va a invitarlo a guardare in alto, va a nutrire la speranza del popolo in Dio, che lo libererà.
Perché sperare è anche distogliere lo sguardo da se stessi (e dal proprio dolore) per guardare in alto, per guardare a Dio, per guardare avanti.
I versetti che abbiamo letto sono la conclusione di un discorso che, come dicevamo, è cominciato all’inizio del capitolo, con le parole di consolazione che ho citato sopra e in cui il popolo è invitato a preparare la strada al Signore che viene a liberare Israele dall’esilio in babilonia (brano ripreso dal Giovanni il battista che invita chi lo ascolta ad accogliere Gesù).
Ma subito dopo, e quindi appena prima del brano che esaminiamo oggi, c’è un brano polemico che si po­trebbe definire una disputa, una discussione, che sembra quasi riecheggiare alcune affermazioni del libro di Giobbe. Così si rivolge il profeta al popolo, parlando di Dio:
«Chi ha misurato le acque nel cavo della sua mano o preso le dimensioni del cielo con il palmo?
Chi ha raccolto la polvere della terra in una misura o pesato le montagne con la stadera
e i colli con la bilancia? Chi ha preso le dimensioni dello Spirito del SIGNORE o chi gli è stato consiglie­re per insegnargli qualcosa?
»
Il popolo dubita e Dio, attraverso Isaia, risponde ai dubbi del popolo, vi risponde con decisione e con un pizzico di rimprove­ro, ma li ascolta e quindi li prende sul serio. E la risposta è un invito alla fiducia, alla fiducia nel Dio crea­tore che ha «creato queste cose» e che Israele conosce già: «Non lo sai tu? Non l’hai mai udito?».
Eh sì, perché Israele lo sa che Dio è il creatore e che è anche il redentore, il liberatore; lo sa perché Dio ha liberato i suoi antenati dall’Egitto e quindi è in grado di liberarlo ora dall’esilio babilonese; lo ha udito, perché glielo hanno detto tutti coloro che Dio stesso ha inviato a annunciare al popolo la sua parola, da Mosè ai profeti. Dio risponde ai dubbi di Israele, Dio risponde ai nostri dubbi, ma non con dimostrazioni, bensì con la pro­clamazione della sua parola. Dopo la disputa, arriva la bellissima parola di grazia e di speranza:
Egli dà forza allo stanco e accresce il vigore a colui che è spossato. I giovani si affaticano e si stanca­no; i più forti vacillano e cadono; ma quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano.
La sua parola dà speranza e quindi dà forza. Dà forza allo stanco e vigore a chi è spossato. Dio conosce la nostra stanchezza, conosce anche la stanchezza che stiamo vivendo in questo momento di lutti e di dolore per molti e di quarantena e di limitazioni per tutti.
Conosce la stanchezza di medici, infermieri e operatori sanitari che lavorano ogni giorno per curare perso­ne (non banalmente “malati”, ma persone) e salvare vite; conosce la stanchezza dei nonni che non posso­no vedere i loro nipoti da settimane, quando magari erano abituati a vederli tutti i giorni; conosce la stan­chezza di chi vive solo e non ha che il telefono per sentire voci amiche…
Conosce la stanchezza dei giovani che non possono incontrare i loro amici, degli anziani che non possono vedere i loro figli; conosce la stanchezza di chi non lavora ed è senza stipendio ed è angosciato per il suo futuro…
Perché da soli non vinciamo la nostra stanchezza, non troviamo il riposo che anche Gesù ci ha promesso quando ha detto: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo» (Matteo 11,28).
Da soli non ce la facciamo perché, dice Dio, anche «i giovani si affaticano e si stancano; i più forti vacil­lano e cadono»… se facciamo affidamento sulle nostre sole forze non andiamo lontano, nemmeno i più gio­vani e forti vanno molto lontano, figuriamoci gli altri…! Ma…
«Ma quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano».
La nuova forza è la forza della speranza, che vince la stanchezza. Non quella fisica (quella ogni tanto tor­na e il nostro corpo ha bisogno di riposo), ma quella dell’animo, quella della fede che non smette mai di guardare in alto e di guardare avanti.
E quindi vola, vola come un aquila, uccello che ha destato ammirazione fin dall’antichità perché vola mol­to in alto e può scendere in picchiata a grande velocità per catturare le sue prede. L’immagine dell’aquila è utilizzata nell’Esodo, nel racconto del patto tra Dio e Israele, per parlare della liberazione dall’Egitto: «Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d’aquila e vi ho condotti a me» (Esodo 19,4)
In questi giorni in cui tra le tante vittime del Coronavirus dobbiamo contare anche lo scrittore Luis Sepùl­veda, potremmo forse usare un’altra immagine e dire che quelli che sperano nel Signore imparano a vola­re come la gabbianella del suo famoso romanzo (diventato poi film di animazione) “la gabbianella e il gat­to che le insegnò a volare”.
Non si impara da soli a volare, ci vuole un gatto che ci aiuti, anzi una comunità di gatti che tutti insieme insegnano a volare alla gabbianella che non sa ancora di poter volare. E nella sto­ria della gabbianella volare equivale a vivere, a essere ciò che si è, ovvero un uccello che può volare.
Anche per noi volare – ovvero sperare – equivale a vivere, a vivere sotto lo sguardo e la misericordia del Si­gnore, ed equivale a essere ciò che si è, o meglio ciò che si è diventati in Cristo: donne e uomini la cui vita è stata riscattata da Gesù Cristo e che per questo vivono sperando. E chi ci insegna a volare (cioè a sperare) non è il gatto o la comunità di gatti di Sepùlveda, ma è l’evangelo, che è donato e affidato alla comunità dei cre­denti, l’evangelo che risuona da Isaia fino all’annuncio gioioso di Pasqua.
L’evangelo della resurrezione è come la parola di Isaia a Israele: «consolate, consolate il mio popolo...». la schiavitù del peccato e della morte è finita, ora si può vivere sperando, si può volare, si può correre per amore e camminare per fede, perché quelli che sperano nel Signore …. corrono e non si stancano, cammi­nano e non si affaticano.
È una promessa quella che ci raggiunge oggi attraverso il profeta Isaia e che percorre tutta la Bibbia, dall’inizio alla fine, e che culmina nell’evangelo di Pasqua che ci dice che Cristo è risorto, la morte è vin­ta e ha vinto Dio, cioè ha vinto la speranza.
Anche a noi, che a volte siamo stanchi giunge l’evangelo, per bocca del profeta Isaia: «Egli dà forza allo stanco». E quindi, abbi fede, affidati al Signore, spera, e sperando volerai, anche quando – come la gab­bianella – non sai di poterci riuscire.
Spera, e sperando correrai senza stancarti incontro al tuo prossimo con amore, sperando camminerai sen­za affaticarti per seguire Gesù con fiducia.
Spera, e sperando volerai come l’aquila, la fiducia in Dio che dà forza allo stanco sarà la tua forza, l’amo­re e la grazia che Dio ci ha manifestato nel Cristo crocifisso e risorto saranno le tue ali.


sabato 11 aprile 2020

Predicazione di domenica 12 aprile 2020 - Pasqua di resurrezione su Giovanni 20,11-18 a cura di Pietro Magliola

Domenica 12 aprile 2020 - Pasqua di resurrezione
Evangelo secondo Giovanni, 20, 11-18

Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: «Rabbunì!», che significa: Maestro! Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: «Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto.


Il racconto della Pasqua tramandatoci da Giovanni presenta alcune diversità in confronto allo stesso episodio, così come trasmessoci da Matteo, Marco e Luca. Si potrebbe pensare che Giovanni si preoccupi di portare poco a poco i suoi lettori all’incontro con il Risorto, quasi che dare la notizia improvvisamente fosse una cosa talmente inconcepibile da non permetterne la elaborazione da parte di chi la riceve. Sembra lo schema usato da Luca nel racconto dei discepoli di Emmaus, dove i due compagni di viaggio di Gesù vengono da questi portati poco a poco a riconoscerlo.
Ripercorriamo dunque brevemente il racconto di Giovanni.
Quel mattino del primo giorno dopo il sabato era stato sconvolgente per Maria Maddalena.
Recatasi al sepolcro di Gesù, aveva trovato la pietra rotolata via e aveva constatato con sgomento che il corpo del Maestro non c’era più. Subito si era precipitata ad avvertire Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava, i quali erano corsi sul posto per verificare quanto riferito loro, ed essa li aveva accompagnati. Poi, dopo che i due discepoli erano tornati a casa loro, era rimasta lì, a piangere accanto al sepolcro vuoto.
Non ci viene detto se cercasse una ragione di quanto accaduto, che cosa pensasse davanti a quella tomba. Sappiamo solo che piangeva.
Ad un certo punto, guardando dentro al sepolcro, vede due angeli. L’angelo è un messaggero di Dio (angelo, in greco, significa proprio messaggero); ma questi angeli, a differenza di quanto raccontato dai sinottici, secondo i quali è proprio l’angelo ad annunziare alle donne la resurrezione, non recano a Maria nessun annuncio, le rivolgono soltanto una domanda: “perché piangi?” . “Perché hanno portato via il corpo di Gesu”, è la sua risposta.
Improvvisamente Maria avverte una presenza alle sue spalle. Si volta, vede un uomo, ma non riconosce in lui Gesù, bensì pensa che sia l’ortolano. Gesù non si rivela subito,anzi, anche lui la interroga: “Perché piangi? Chi cerchi?”
Due domande, invece di una sola. Al già sentito “perché piangi?” si aggiunge “chi cerchi?” Maria (e noi con lei) veniamo portati quasi per mano al momento decisivo. Le domande significano: “Qual è il motivo della tua tristezza? Sei proprio certa che oggi sia il tempo giusto per piangere?” e “Tu cerchi un cadavere su cui piangere. Sei sicura che la morte abbia avuto l’ultima parola? Non è che, per trovare il Signore, devi cercare qualcosa di diverso da un cadavere?” . Maria, ricordiamocelo, era la sorella di Lazzaro. Credeva nella risurrezione dell’ultimo giorno, e aveva assistito all’uscita di suo fratello dalla tomba. Aveva sperimentato la potenza di Dio che vince la morte. Ma tutto questo pare esser stato dimenticato. Gesù, il maestro, era morto, e non c’era più nulla da fare se non piangere sul suo corpo e attendere l’ultimo giorno.
La presenza degli angeli di cui abbiamo parlato prima dovrebbe metterci sull’avviso che Dio è in qualche modo intervenuto in quel sepolcro. Ed è intervenuto risuscitando il Crocifisso. E’ di capitale importanza che il Crocifisso e il Risorto siano la stessa persona. Con la risurrezione, Dio dichiara che la causa di Gesù (per così dire) è la sua causa, che il predicatore sconfitto ed ucciso è il Figlio, che la morte è stata sconfitta e non potrà avere su di Lui alcun potere.
Duemila anni dopo, siamo ancora in grado di cogliere la portata di questo annuncio? Oppure ci siamo assuefatti e la Pasqua è una data come un’altra, un appuntamento del calendario ecclesiastico? Non si tratta di fare o di farsi la morale, ma di riflettere su che cosa la risurrezione vuol dire per noi, e se necessario di ripensare a questo annuncio per porlo, o porlo nuovamente, al centro della nostra vita.
Chi riceve l’annuncio di Pasqua sa che non deve più piangere, che non deve cercare un cadavere o accontentarsi di osservare una tomba vuota. Dio non si manifesta in un cadavere né in una tomba vuota, ma in Gesù risorto.
Riprendiamo il filo del racconto. Maria chiede al presunto ortolano la restituzione del corpo del Signore, se fosse stato proprio lui a portarlo via. Ed ecco che Gesù si rivela, non con un’affermazione (Sono io Gesù), ma con una chiamata, con un nome, con il nome di lei: Maria!
Questa chiamata apre, per così dire, gli occhi a Maria, che comprende finalmente con chi stia parlando. Colui che gli sta davanti è Gesù, il Risorto. Non è più questione di cercare un morto su cui piangere, per trovare Gesù bisogna guardare al Risorto, ad un vivente. Con un avvertimento: è fondamentale la chiamata da parte di Dio. La relazione Dio – uomo è una relazione di fede, non empirica, razionale, dimostrabile scientificamente. Non è neppure un’ascesi, o l’esito di una ricerca, magari appassionata e sincera; non è una cosa a disposizione dell’uomo.
E’ Dio che chiama, e questa chiamata ha un nome: grazia. Questo racconto ci dice che Gesù chiama ciascuno e ciascuna con il suo nome: Maria! Piera! Massimiliano! Anna! Lilia! Stefano! Pietro! Per Dio, l’umanità non è una massa confusa da chiamare all’adunata come dei soldati in una caserma, ma siamo noi, ognuno di noi, nella propria individualità.
Maria ha finalmente ritrovato il suo Maestro e Signore. “Rabbunì! Maestro!” esclama. E’ la gioia della Pasqua che si libera in quel grido. Ma, come nel racconto dei discepoli di Emmaus, Gesù non rimane a lungo con lei. Le affida la missione di annunciare ai suoi fratelli (non li chiama discepoli, ma fratelli) che è risorto e che deve salire al Padre. “Non trattenermi”: il Risorto non è manovrabile a nostro piacimento, non possiamo pensare di disporne, né usarlo come un talismano a nostro favore o, come purtroppo è successo e continua a succedere, contro qualcun altro.
Non trattenermi” vuol dire anche che Gesù non rimane indefinitamente su questa Terra. Egli deve ascendere al cielo e il suo posto verrà preso dallo Spirito. Sotto la guida dello Spirito, la missione della chiesa nascente non sarà diretta soltanto più a Israele, ma si aprirà al mondo, per portare anche ai pagani la notizia della risurrezione. Dio si rivela come il Dio di tutti gli uomini. Chi ha udito l’annuncio della resurrezione è, come i discepoli, fratello di Gesù e membro della famiglia dei figli di Dio.
Noi cerchiamo un morto su cui piangere, o gridiamo con gioia “Rabbunì, Maestro!” ? Che il Signore ci dia la grazia di ricevere e di ascoltare la sua chiamata!

Predicazione di domenica 12 aprile 2020 - Pasqua di resurrezione su 1 Corinzi 15,19-28 a cura di Marco Gisola

Domenica 12 aprile 2020 - Pasqua di resurrezione
1 Corinzi 15,19-28


19 Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini.
20 Ma ora Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono morti. 21 Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti. 22 Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati; 23 ma ciascuno al suo turno: Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta; 24 poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. 25 Poiché bisogna ch'egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. 26 L'ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte. 27 Difatti, Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi; ma quando dice che ogni cosa gli è sottoposta, è chiaro che colui che gli ha sottoposto ogni cosa, ne è eccettuato. 28 Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti.


Sperare in Cristo per questa vita è già un enorme dono. Sapere che la malvagità, l’indifferenza, l’egoismo umani non hanno l’ultima parola, ovvero non hanno ragione, è una cosa meravigliosa. Sapere che anche gli eventi che non capiamo e non governiamo, come le disgrazie e le malattie, per quanto siano terribili (come il virus che sta facendo migliaia di vittime in queste settimane e ci ha sconvolto l’esistenza), non possono farci perdere la fiducia nella misericordia di Dio, è anche questa una grandissima consolazione.
Ma l’evangelo ci promette di più, ci promette più di questo. Non soltanto ci invita a sperare in Cristo per questa vita, per ogni aspetto di questa vita: spirituale, personale, sociale… Ma ci promette che l’amore di Dio va oltre questa vita, potremmo dire che l’amore di Dio ci porta oltre questa vita, ci accompagna anche quando questa nostra vita terrena termina.
Pasqua è questo annuncio meraviglioso, questo evangelo luminoso: non soltanto per questa vita ci è dato di sperare, ma anche oltre questa vita, anche davanti alla morte ci è data una speranza.
Non soltanto per questa vita, ma anche oltre. È essenziale per la nostra fede tenere insieme questa vita e la vita eterna, quelli che ogni tanto vengono chiamati - con termini peraltro non biblici - l’aldiqua e l’aldilà.
Il rischio è di considerare soltanto uno dei due e dimenticare l’altro. C’è chi punta tutto sull’aldiqua e sul (sacrosanto!) impegno sociale per trasformare il mondo e la società, e non si cura dell’aldilà. E c’è chi invece ha una grande fede nella vita eterna ma non si preoccupa e non si occupa della vita terrena e della qualità di questa vita terrena, dei diritti degli ultimi, della giustizia, ecc.
Inoltre, forse tutti noi abbiamo fasi della vita in cui guardiamo di più a questa vita (probabilmente nell’età giovanile) e fasi in cui guardiamo di più alla vita eterna (nella nostra vecchiaia), cosa che è umanamente comprensibile.
Ma dobbiamo davvero sforzarci di tenere insieme la vita terrena e la vita eterna. Questa vita è un dono meraviglioso, che Dio ci ha donato perché la vivessimo in pienezza, nutrendola con l’ascolto della sua parola e vivendola nel servizio, nella fiducia e nella gioia.
In una recente conferenza sul teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (impiccato 75 anni fa dai nazisti per la sua partecipazione alla resistenza) è stato ricordato che Bonhoeffer ha potuto dire (mentre lo portavano al patibolo) che la sua fine (a 42 anni!) era per lui “l'inizio della vita”, manifestando così una grande fede nella resurrezione dei morti. Ma che pochi anni prima aveva scritto anche queste parole: Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore”.
Il futuro meraviglioso che Dio ci ha preparato nel suo regno e un “futuro migliore” (come dice Bonhoeffer) in questa vita in questo mondo non si contrappongono, ma sono due aspetti della stessa fede. Direi proprio della stessa fede nella resurrezione!
La Resurrezione riguarda tanto la nostra vita dopo la morte quanto la nostra vita qui ed ora. È la stessa speranza nella vittoria del bene sul male, dell’amore sull’odio, della comunione sulla discriminazione… in una parola: di Dio sul peccato umano e su tutte le sue contraddizioni.
La speranza nella vita eterna è speranza che è pura attesa di un puro dono che Dio ci offre per pura grazia. La speranza per questa vita è speranza attiva, sollecita, attenta, che richiede tutto il nostro amore e il nostro impegno.
Se sperassimo in Cristo «per questa vita soltanto», noi saremmo «i più miseri fra tutti gli uomini», perché non avremmo capito la portata dell’evangelo, non avremmo capito fin dove l’amore di Dio arriva, perché, dice Paolo, «l’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte». L’amore di Dio è più forte anche della morte, che è l’ “ultimo nemico”, quello più forte.
E davanti alla scena delle bare una a fianco all’altra che abbiamo visto in questi giorni, davanti alla morte nella solitudine di molte donne e uomini intubati, nei reparti di rianimazione o di terapia intensiva, la crudeltà di quell’ “ultimo nemico” l’abbiamo vista tutta. Ma proprio davanti a questa triste realtà, l’evangelo della risurrezione è l’unica parola che può dare una qualche consolazione.
Consolazione che non toglie il dolore – lo diciamo sempre ai funerali… - il dolore rimane forte, ma l’evangelo vuole portarci a sollevare un po’ lo sguardo oltre il dolore e oltre la morte, offrendoci una speranza più forte della morte.
L’evangelo della resurrezione ci parla della vittoria di Dio: «dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna ch'egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. E l’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte».
Paolo usa il linguaggio del suo tempo per descrivere l’opera di Dio come una vittoria sul male. Principati, potestà e potenze erano ritenute essere forze ostili a Dio e agli esseri umani. Paolo usa un linguaggio mitologico, che ci sembra molto distante.
Noi oggi non ci esprimeremmo così, eppure quante cose ci sono che non capiamo? La brutta esperienza che stiamo facendo di questo terribile virus in fondo ci mostra quante cose non capiamo e non sono sotto il nostro controllo; proprio noi, che pensiamo di poter avere tutto sotto controllo, grazie alla scienza e alla tecnica…!
Questo virus ora viene studiato, analizzato, si capirà (lo si sta capendo) che cosa è, da dove viene… Si troverà la cura e un vaccino…? Probabilmente sì, lo speriamo… ma intanto esso ci ha mostrato tutta la nostra debolezza e tutta la nostra fragilità.
L’evangelo ci dice che l’amore di Dio è più forte anche di quello che non conosciamo, anche di quello che non ci saremmo mai aspettati che potesse accadere. L’amore di Dio è più forte di tutto ciò che porta morte, che sia la malvagità umana che continua a fare una guerra dopo l’altra e a sfruttare il suo prossimo rendendolo schiavo e le risorse del creato senza scrupoli, oppure una pandemia come quella che ha colpito l’umanità in questi mesi.
Perché “l’ultimo nemico” non è soltanto il nostro nemico, ma è il nemico anche e prima di tutto di Dio! E Dio lo ha sconfitto con la potenza dell’amore, dell’amore incarnato e crocifisso, incarnato in Gesù, che è stato crocifisso dall’umanità che vuole solo difendere il proprio potere.
«Se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede» ha scritto Paolo pochi versetti prima del nostro testo (15,14). La nostra fede e la nostra speranza hanno le loro radici in ciò che è accaduto all’alba di quel mattino di Pasqua: la tomba era vuota, non c’era il cadavere, perché Gesù è risorto! Ed è risorto perché noi sperassimo non «per questa vita soltanto» ma anche oltre, perché la nostra speranza non avesse fine.
È risorto perché sperassimo, sì, per questa vita e ogni giorno di questa vita che ci è data, perché vivessimo ogni giorno di questa vita sperando e cercando la volontà di Dio, volontà di giustizia, di pace e di gioia. E – ripeto - se anche ci fosse solo questo sarebbe già moltissimo, sarebbe già un dono enorme.
Ma c’è di più, l’evangelo promette di più, dona di più. Ti fa sperare di più. Non permette che ti sia tolta la speranza nemmeno davanti a una fila di bare messe una accanto all’altra…!
Dio ha vinto, non il male. L’amore ha vinto, non l’odio. La vita ha vinto, non la morte. Ha vinto per te, e ti ha fatto partecipe di questa vittoria sul male, sull’odio, sulla morte, ti ha fatto partecipe della resurrezione. Per questo puoi sperare, per tutta la tua vita e ogni giorno della tua vita, ma non soltanto… puoi sperare oltre… puoi sperare di più! Questo è l’evangelo di Pasqua.


venerdì 10 aprile 2020

Predicazione del Venerdì Santo su 1 Corinzi 5,17-21 a cura di Marco Gisola

Venerdì Santo – 10 aprile 2020
2 Corinzi 5,19-21
17 «Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove.
18 E tutto questo viene da Dio che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione» 19 Infatti Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe, e ha messo in noi la parola della riconciliazione. 20 Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio. 21 Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui.


1. Paolo utilizza una bellissima parola per descrivere l’evento della croce: riconciliazione. È una bellissima parola che usiamo forse troppo poco per parlare dell’opera di Cristo e anche di ciò a cui Cristo ci chiama: siamo donne e uomini innanzitutto riconciliati da Dio, per grazia, e poi donne e uomini che Dio stesso chiama alla riconciliazione tra di noi e a cercare riconciliazione nel mondo.
Ma in queste parole di Paolo, al centro c’è ciò che Dio ha fatto in Cristo per noi: «Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo». La parola riconciliazione presuppone che vi sia una frattura, qualcosa di rotto che viene ricomposto, qualcuno lontano che viene riportato vicino, qualcuno ostile che viene appunto riconciliato, ri-appacificato.
La parola riconciliazione esprime uno stravolgimento totale della realtà, da negativa a positiva, da lontano a vicino, da contrapposto a unito. È ciò che Paolo esprime nei primi di questi versetti, quando dice che «Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove. E tutto questo viene da Dio che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione».
La riconciliazione è la grande novità, la nuova realtà che Dio ci ha offerto in Cristo, anzi potremmo dire che Dio ha creato per noi in Cristo. Lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo, l’evento in cui questa grande novità accade è la morte di Gesù sulla croce nel giorno che noi chiamiamo il venerdì santo.
Noi siamo lontani da Dio e ostili nei suoi confronti, ma in Cristo Dio si avvicina a noi, che siamo lontani, nel suo amore che vince l’ostilità e perdona il peccato che ci allontana e separa da lui.
In queste parole di Paolo il soggetto della riconciliazione è sempre Dio; è sempre Dio che riconcilia e sempre noi coloro che vengono riconciliati. Lui è il soggetto della riconciliazione e noi i destinatari e i beneficiari, coloro che ricevono la riconciliazione; quella riconciliazione, che spesso non cerchiamo, Dio la mette in atto per noi e la mette in atto in Gesù che va da solo verso la croce.
La sua solitudine nell’andare verso la croce è il segno di quanto ci fosse bisogno e ci sia bisogno di riconciliazione ed è segno di quanto quella riconciliazione potesse essere soltanto opera esclusiva di Dio e della sua grazia, e non nostra. Gesù va da solo verso la croce, va da solo, senza di noi a riconciliare Dio con noi.

2. E come Dio ci riconcilia in Cristo con sé? «Non imputando agli uomini le loro colpe», dice Paolo. Il linguaggio della giustificazione si intreccia con quello della riconciliazione, due parole, due modi diversi ed entrambi ricchissimi di significato per dire che cosa Dio ha fatto per noi in Cristo.
Dio non ci ha imputato le nostre colpe. La colpa c’è, è evidente. Basta guardasi intorno per vedere le conseguenze delle colpe umane, del peccato umano, ovvero della situazione di non-amore per Dio e di non-amore per il prossimo e per il creato. Ma basta anche guardarsi dentro, guardare ciascuno e ciascuna dentro di sé per vedere la nostra colpa (e non solo quella degli altri…).
E la vediamo dentro di noi anche quando viviamo ed agiamo con le migliori intenzioni! Senza dubbio Paolo si sforzava di essere un buon cristiano, eppure lui stesso arriva ad ammettere che non riesce a fare il bene che vorrebbe fare e compie invece il male che non vorrebbe fare!: «il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio» (Romani 7,19).
La colpa c’è, ma non viene «imputata»; detto in altre parole: la colpa c’è, ma non c’è la condanna. La grazia di Dio non cancella la colpa, ma cancella la condanna che dovrebbe seguire a quella colpa. La condanna la prende Gesù su di sé andando a morire per noi.

3. Paolo usa poi un’altra espressione molto significativa per esprimere questo fatto: «Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui».
Gesù non ha conosciuto peccato ma, per grazia di Dio, diventa peccato per noi. Paolo non dice che diventa peccatore, ma che diventa peccato, il che è una cosa diversa. Continua a non essere peccatore, ma diventa peccato perché prende il nostro peccato su di sé.
Lutero ha espresso in modo molto chiaro ed efficace questo fatto utilizzando l’espressione “felice scambio”: «così l’anima credente può credere e gloriarsi di tutte le cose che Cristo ha come se fossero sue, e Cristo si attribuisce tutte le cose dell’anima come se fossero sue. […] Cristo è pieno di grazia, vita e salvezza, l’anima è piena di peccato, morte e dannazione. Ora si interpone tra loro la fede e accade che il peccato, la morte e l’inferno sono di Cristo, mentre la grazia, la vita e la salvezza sono dell’anima […]. Qui si compie il felice scambio…» (da La libertà del cristiano, 1520)
Lutero esprime nel suo linguaggio vivace e diretto ciò che Paolo dice quando afferma che Cristo diventa peccato per noi e noi diventiamo giustizia di Dio in lui. Ciò che non è nostro e non può essere nostro, cioè la giustizia di Dio, lo diventa in Cristo; ma lo diventa come dono, non come possesso. E ciò che può solo essere nostro, il peccato, diventa di Cristo, perché egli lo prende su di sé.
Il peccato diventa di Cristo, come dicevamo, non nel senso che egli diventa peccatore, ma nel senso che egli prende la nostra condanna. E noi riceviamo la sua giustizia, siamo giustificati. Il che non significa che non siamo più peccatori, ma che non siamo più condannati.
Forse il linguaggio giuridico della giustificazione a prima vista può apparirci un po’ freddo. Ma immaginatevi un colpevole, processato e condannato a molti anni di prigione, a cui venga detto: la condanna che ti meriti è di tot anni di galera. Te la meriti perché sei colpevole, su questo non c’è dubbio.
E invece no, niente prigione, vai, sei libero, la porta della prigione è aperta, anzi non ci entri nemmeno in prigione. Sei giustificato, ovvero libero.
Ma non sei soltanto giustificato, sei anche – e torniamo all’inizio – riconciliato. La riconciliazione è l’altro lato della medaglia: su un lato la giustificazione, sull’altro la riconciliazione.

4. La riconciliazione è un dono, e come tutti i doni va usato e curato e messo a frutto. Per questo Paolo può dire poco prima «Dio ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo» e subito dopo «vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio. La grazia di Dio e la nostra vocazione.
Siamo riconciliati con Dio e questa è opera di Dio soltanto, l’opera che ha compiuta nella morte di suo figlio sulla croce. Ma Dio ci chiede di vivere questa riconciliazione, per questo Paolo chiede, anzi supplica, Siate riconciliati con Dio. Vivete da riconciliati e non vivete come se la riconciliazione non ci fosse stata.
Dio chiama noi – riconciliati da lui – a vivere e ad annunciare la riconciliazione: siamo «ambasciatori per Cristo», cioè inviati a costruire e ad annunciare riconciliazione. Siamo inviati ad annunciare riconciliazione, non condanna; ad annunciare pace, non giudizio; ad annunciare evangelo, non legge.
Ci è stato affidato il «ministero [in greco diaconia, cioè servizio] della riconciliazione». Dio ci ha voluti persone riconciliate annunciatrici di riconciliazione. Riconciliati, ovvero peccatori perdonati, nulla più di questo; e solo e proprio perché riconciliati, annunciatori di riconciliazione; solo e proprio perché perdonati annunciatori di perdono; solo e proprio perché graziati annunciatori di grazia.
La novità di Dio, la novità che la grazia di Dio ci ha portato in Gesù Cristo ha nome (uno dei tanti nomi…) riconciliazione.
Essa è dono di Dio ed è di conseguenza nostra vocazione, spirituale, umana, sociale, politica…
Oggi, venerdì santo, celebriamo il dono di Dio per noi, che si è compiuto sulla croce, che ci parla allo stesso tempo della nostra colpa e del nostro perdono, per cui Cristo è morto.
Su quella croce è avvenuta la nostra riconciliazione con Dio. Essa è opera della grazia di Dio soltanto ed è la grande novità che siamo chiamati a credere, a vivere, ad annunciare e a costruire.