domenica 26 giugno 2022

Predicazione di domenica 26 giugno 2022 su 2 Corinzi 4,5-10 a cura di Marco Gisola

 2 Corinzi 4,5-10

5 Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù quale Signore, e quanto a noi ci dichiariamo vostri servi per amore di Gesù; 6 perché il Dio che disse: «Splenda la luce fra le tenebre» è quello che risplendé nei nostri cuori per far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio, che rifulge nel volto di Gesù Cristo. 7 Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi. 8 Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all’estremo; perplessi, ma non disperati; 9 perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi; 10 portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo;

Un tesoro in vasi di terra, ovvero una cosa molto preziosa, anzi preziosissima, contenuta e trasportata da contenitori molto molto fragili: questa è l’immagine molto semplice e molto efficace che l’apostolo Paolo usa per descrivere la realtà sua e di tutti i cristiani.

Un tesoro in vasi di terra: è chiaro che il tesoro è Gesù, nostro Signore, è - come ha scritto Paolo - il Dio che ha voluto risplendere “nei nostri cuori per fare brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Cristo”.

Il volto di Gesù ci rivela il volto di Dio, la volontà di Dio: questo è il tesoro, questo è l’evangelo, la buona notizia che ci annuncia che Cristo è venuto per rivelarci la grazia di Dio ed è morto e risorto per la nostra salvezza.

Il tesoro è Gesù, la sua opera di salvezza e liberazione, il suo amore che ci rende figli e figlie di Dio.

Il tesoro è la vocazione che ha rivolto ai suoi discepoli, che per seguirlo hanno lasciato ciò che avevano, ma hanno trovato molte sorelle e fratelli e un senso e uno scopo per la loro esistenza. Come noi.

È la libertà che ha portato a chi viveva emarginato e prigioniero di una malattia o di un pregiudizio e dunque la vita nuova che ha offerto alle vittime dell’ingiustizia, ma anche ai colpevoli, come Zaccheo, all’adultera che non ha condannato e ai lebbrosi che ha guarito reinserendoli nella vita sociale e religiosa. È il regno di Dio, che ha raccontato nelle sue parabole, in cui non vi sono né primi né ultimi, ma tutti sono uguali.

Il tesoro è il perdono, ovvero la possibilità di ricominciare che ha sempre offerto a tutti, a partire dai suoi discepoli, che spesso non lo hanno capito, che a volte gli hanno chiesto esattamente il contrario di quello che lui aveva sempre insegnato, che lo hanno tradito e rinnegato, mentre Gesù non li ha mai abbandonati anche quando loro lo hanno abbandonato.

Possibilità di ricominciare e possibilità di riscatto che ha offerto a uomini e donne, a farisei e a pubblicani, a ebrei e a pagani.

Il tesoro sta nel fatto che l’amore di Dio che Gesù ha incarnato è arrivato fino alla croce, al dono totale di se stesso e che nella risurrezione di Gesù Dio ha davvero fatto brillare la gloria di Dio nel mondo e nascere una speranza nuova per tutti e tutte.

Il tesoro è Gesù ed è dunque l’annuncio di Gesù, l’annuncio che Gesù è morto per noi ed è stato risuscitato. Il tesoro è dunque l’evangelo, la buona notizia che per l’umanità è possibile una nuova vita e dunque c’è speranza, speranza di perdono, speranza di giustizia, speranza di pace.

Ogni domenica noi ci ritroviamo qui per riscoprire questo tesoro. Per ascoltarne ogni volta l’annuncio, che risuscita anche noi.

Noi, che siamo invece i vasi di terra; lo è Paolo, l’apostolo parla innanzitutto di sé stesso e dei suoi compagni di predicazione, parla delle difficoltà e delle ostilità che ha incontrato e incontra nel suo cammino di apostolo.

Ma con lui siamo tutti noi, tutti i cristiani e le cristiane. Vaso di terra è la nostra fragile umanità con tutti i suoi limiti e difetti e anche con il suo peccato. Il vaso di terra sono le nostre colpe e il tesoro è il perdono di Dio, che non ci imputa le nostre colpe.

Vaso di terra è anche la Bibbia, mentre il tesoro che essa contiene è la Parola di Dio - con la P maiuscola. La Bibbia è vaso di terra perché è stata scritta da esseri umani, ispirati ma pur sempre umani, e ha bisogno della nostra preghiera e del nostro impegno per poter cercare di comprenderla e interpretarla.

Ma anche la nostra interpretazione è un vaso di terra, e non va mai confusa con il tesoro che è la Parola di Dio. Interpretazione necessaria, eppure sempre provvisoria, che ha sempre bisogno dello Spirito che ci aiuti a incontrare nella Bibbia il volto di Gesù che brilla per noi, come luce di amore e di grazia.

Un tesoro in vasi di terra: un’immagine composta da due parti che sono tra loro contraddittorie e proprio per questo l’immagine è molto efficace. Molto efficace perché molto semplice.

Eppure è difficile tenere insieme le due parti; c’è sempre il rischio di dimenticarne una o di metterla tra parentesi: c’è il rischio di vedere solo il tesoro e pensare che siamo noi il tesoro, che la chiesa è il tesoro, rischiando di non vedere più che invece siamo solo il vaso, che è fragile e debole.

E se vediamo soltanto il tesoro, e non il vaso di terra che lo contiene, il rischio è quello di cadere nell’orgoglio.

Ma c’è anche l’altro rischio, quello opposto, quello di vedere soltanto il vaso di terra, soltanto la fragilità umana e allora il rischio è la depressione, è il lamento: “siamo fragili, siamo pochi, siamo anziani…”

E dimenticare che proprio a questi fragili vasi è affidato il tesoro, che non è mai il vaso, ma è pur sempre nel vaso, perché ci è dato, affidato da Dio, il tesoro dell’evangelo.

Dio, che nella sua immensa libertà, ha scelto anche noi, anche questi vasi che siamo noi, che sei tu, per affidare anche – non soltanto a noi ma anche a noi, anche a te, il suo tesoro.

Il preziosissimo tesoro che è Gesù, che è l’evangelo della grazia, dell’amore e della speranza, che ci viene raccontato e annunciato dalla prima all’ultima pagina della Bibbia. Qui ci viene annunciato da queste parole di Paolo, in un modo apparentemente poco evidente, ma che mi sembra molto significativo.

Nel brano che abbiamo letto Paolo parla delle proprie difficoltà e tribolazioni nell’opera di annuncio dell’evangelo e scrive: “noi siamo tribolati in ogni maniera ma non ridotti all’estremo, perplessi ma non disperati, perseguitati ma non abbandonati, atterrati ma non uccisi”.

In queste parole di Paolo c’è tutta l'immagine del tesoro nel vaso di terra. Il vaso di terra è evidente, è lui, l’apostolo che subisce tutte queste ostilità e vive tutte queste difficoltà.

Ciò che segnala la presenza del tesoro sono invece due paroline, piccole ma importantissime: ma non: tribolati ma non ridotti all’estremo, perplessi ma non disperati, perseguitati ma non abbandonati, atterrati ma non uccisi.

Questo “ma non” è l’effetto della grazia di Dio, del tesoro affidato al vaso di terra che è Paolo e che siamo tutti noi.

Vaso di terra che umanamente è tribolato, perplesso, perseguitato, atterrato, ma non ridotto all’estremo, ma non disperato, ma non abbandonato, ma non ucciso.

Questo ma non è l’opera di Dio, che ha affidato il tesoro dell’evangelo ai fragili vasi di terra che siamo, è l’opera di Dio che nella sua grazia, ha scelto anche noi per affidarci il suo tesoro.

Queste parole di Paolo mi aiutano a salutarvi, lasciandovi un augurio – che poi tra cristiani l’augurio è in realtà una preghiera. Io vorrei certo augurarvi ogni bene, salute e felicità… tutte cose importanti nella vita.

Ma siamo vasi di terra e il nostro bene, la nostra salute e la nostra felicità dipendono da molte cose che non sono sotto il nostro controllo.

E allora vi auguro e prego che questo “ma non” della grazia di Dio operi in voi e per voi.

Vi auguro e prego che, se vi capiterà di essere tribolati, il Signore faccia sì che non siate ridotti all'estremo;

che se vi capiterà di essere perplessi, confusi, disorientati, il Signore faccia sì che non siate disperati, ovvero che non perdiate mai la speranza;

che se sarete perseguitati da qualche male o da qualche angoscia, il Signore faccia sì che sappiate di non essere abbandonati;

che se sarete atterrati, cioè gettati a terra, il Signore faccia sì che non siate “uccisi”, ovvero che possiate non soccombere alle fatiche e ai dolori della vita, e possiate ogni volta che cadete, essere da lui rialzati.

Questo è il tesoro dell’evangelo, questa era la fede di Paolo.

Possa essere anche la nostra e vostra fede, ogni giorno della nostra vita.





giovedì 23 giugno 2022

Predicazione di domenica 19 giugno 2022 su Luca 16,19-31 a cura di Graziella Graziano

 Luca 16,19-31

19 «C'era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso, e ogni giorno si divertiva splendidamente; 20 e c'era un mendicante, chiamato Lazzaro, che stava alla porta di lui, pieno di ulceri, 21 e bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; e perfino i cani venivano a leccargli le ulceri. 22 Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abraamo; morì anche il ricco, e fu sepolto. 23 E nell'Ades, essendo nei tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abraamo, e Lazzaro nel suo seno; 24 ed esclamò: "Padre Abraamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro a intingere la punta del dito nell'acqua per rinfrescarmi la lingua, perché sono tormentato in questa fiamma". 25 Ma Abraamo disse: "Figlio, ricòrdati che tu nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato. 26 Oltre a tutto questo, fra noi e voi è posta una grande voragine, perché quelli che vorrebbero passare di qui a voi non possano, né di là si passi da noi". 27 Ed egli disse: "Ti prego, dunque, o padre, che tu lo mandi a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli, affinché attesti loro queste cose, e non vengano anche loro in questo luogo di tormento". 29 Abraamo disse: "Hanno Mosè e i profeti; ascoltino quelli". 30 Ed egli: "No, padre Abraamo; ma se qualcuno dai morti va a loro, si ravvedranno". 31 Abraamo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno persuadere neppure se uno dei morti risuscita"».


È un testo molto conosciuto quello che il lezionario ci propone per questa domenica, molto conosciuto, ma non per questo scontato o di facile comprensione.

Anche le altre due letture che sono proposte per la giornata di oggi sono connesse al tema della nostra predicazione, perché parlano di ravvedimento, di non fidarsi di chi dice che va tutto bene, della fede che salva e dell’amore.

Torniamo al testo allora. Mi sembra che ci siano alcune cose importanti da sottolineare: la prima è che il ricco non è andato a finire nei tormenti solo perché era ricco e che Lazzaro non è stato portato dagli angeli in seno ad Abramo solo perché era povero.

Il ricco, non viene detto il suo nome, a differenza del povero, è finito nei tormenti perché si vestiva lussuosamente e ogni giorno si divertiva splendidamente e non pensava ad altro; nella sua vita, la povertà degli altri, e le altre in generale non entravano nel suo orizzonte, non avevano diritto di cittadinanza. Persino dopo morto pensa di potersi comportare da padrone e si rivolge ad Abramo, non a Lazzaro, pretendendo aiuto: prima dice ad Abramo di mandare Lazzaro a rinfrescargli le labbra e poi gli chiede di mandarlo dai suoi fratelli. Dunque, il ricco è lì soprattutto perché non ha capito e continua a non capire, continua a pensare di poter controllare almeno quello che succede ai suoi fratelli, visto che lui è morto, e di poter continuare ad esercitare il controllo secondo il suo sistema consolidato di potere/oppressione.

Del povero invece viene detto il nome: Lazzaro, che significa Dio aiuta. Lazzaro è povero e malato, non dice e non fa nulla. Vive la sua povertà e la sua malattia e alla fine della storia è prelevato dagli angeli e accudito da Abramo, Lazzaro può contare solo sull’aiuto che gli viene da Dio.

Ad una prima lettura potremmo essere prese da una sorta di soddisfazione; c’è giustizia alla fine: il ricco viene punito e il povero viene ricompensato! Ma in realtà possiamo provare anche fastidio di fronte ad un racconto che può suonare nel senso di tenere a bada i poveri con la promessa di un aldilà migliore e di fare paura ai ricchi minacciandoli con le pene dell’inferno. Ma intanto in questo mondo i poveri soffrono la fame e la miseria e i ricchi se la godono…

La lettura del vangelo però ci porta oltre, ci porta a fare i conti con la realtà di un mondo dove le risorse sono finite: tu hai già avuto la tua parte dice Abramo al ricco. Non è tutto disponibile all’infinito. È molto importante per il nostro mondo questa lezione, è sempre il discorso dei dieci panini e delle dieci persone: al mondo ci sono disponibili 10 panini e 10 persone che devono mangiare, quindi ce n’è per tutte, ma nel nostro mondo ci sono due persone che mangiano 8 panini e 8 persone cui restano solo 2 panini: il 2% della popolazione mondiale consuma l’80% delle risorse…

E lo stesso discorso si può spostare sul consumo dell’acqua. Mai come in questo momento dovremmo essere in grado di capire che non ce ne sarà per tutti come prima, che forse comincerà anche per il nostro mondo occidentale a crearsi il bisogno di acqua, di energia, di terra. Sono previsti, entro il 2030, 50 milioni di migranti per sete.

E allora saremo chiamati a dare ascolto non ai falsi profeti che promettono soluzioni facili e sempre dentro una logica di rapina del suprematismo bianco, ma a chi ci dice che verranno tempi bui, in cui in qualche modo dovremo cominciare a fare i conti con la rovina che il nostro civilissimo mondo occidentale ha portato sul pianeta, dovremo imparare a dare ascolto a chi richiama ad una responsabilità personale e collettiva. E tutto questo lo dovremo fare e lo potremo fare non per guadagnare il posto di Lazzaro, non per paura di trovarci dalla parte dell’Ade dove c’è il ricco, ma perché ci ricorderemo dell’amore di Dio per noi, come abbiamo sentito nella lettera di Giovanni, perché nell’amore non c’è paura, chi ha paura teme il castigo, quindi chi ha paura non è perfetto nell’amore. E ancora chi non ama suo fratello che ha visto non può amare Dio che non ha visto.

L’invito insomma è quello di sempre, dell’intera Bibbia: guardarci intorno, guardare fuori di noi, allargare il nostro orizzonte verso l’altro e l’altra. E non è solo nel senso della pur sacrosanta attività di diaconia, questo è certo un pezzo del nostro orizzonte, che però non può e non deve diventare un alibi e non può esaurire il mandato dell’amore. Il mandato dell’amore ci dice, certo, di aiutare i fratelli e le sorelle in difficoltà, ma ci dice credo, di impegnarci soprattutto per superare il sistema di ingiustizia che permea la nostra vita e quella del mondo intorno a noi; ci chiede di non abituarci allo spettacolo della guerra, di non smettere di indignarci di fronte alle ingiustizie sociali, di vincere la tendenza a chiuderci nelle nostre case protette; ci chiede insomma di sentirci sempre mobilitati a testimoniare l’amore di Dio che Gesù è venuto a compiere.

Da questa parabola dell’evangelo di Luca ci viene un’altra lezione importante: Abraamo disse: "Hanno Mosè e i profeti; ascoltino quelli" e ancora "Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno persuadere neppure se uno dei morti risuscita". È chiaro che attraverso queste parole noi scopriamo che il ricco, e i suoi parenti che lui vorrebbe avvisare, non hanno seguito la Legge, né i profeti. Queste parole, dette al tempo di Gesù, erano un chiaro invito a seguire gli insegnamenti di quella parte della Bibbia che noi oggi chiamiamo Antico Testamento o Primo Testamento; tutto quello che c’è da sapere per testimoniare la fede in Dio si trova già lì. Noi cristiani abbiamo il compimento di quella Parola in Gesù Cristo, abbiamo la spiegazione di quella Parola nelle parabole con le quali Gesù ci ha orientato nella lettura, parabole che sono giunte fino a noi attraverso la redazione dei testi che compongono quello che noi chiamiamo il Nuovo Testamento o Secondo Testamento, che prosegue e vivifica l’Antico.

Allora le parole che Luca mette in bocca ad Abraamo sono un chiaro invito ad assumerci le nostre responsabilità di credenti salvati per grazia e non per opere, fedeli alla Scrittura nel suo canone completo, confortati dallo spirito santo che a Pentecoste Gesù, morto e risorto per noi, ci ha lasciato: sola Scriptura, sola gratia, sola fide, solus Christus, questa è la nostra fede.

E questo è anche il nostro compito: di leggere, meditare e testimoniare la Scrittura che, sola, ci può orientare nella vita: non nella vita della Chiesa, non nella vita religiosa, non nella vita dello spirito, ma nella vita vera, quella che viviamo quotidianamente nelle nostre case, nei luoghi di lavoro, nel sociale.

Non è un invito a ritirarci in meditazione della Scrittura. È, al contrario, un invito a portare la Scrittura nella nostra vita, a vivere secondo quelle parole che possono davvero cambiare la nostra prospettiva e il mondo intorno a noi; è un invito a scoprire il mondo entrando in quella dimensione di vita che è la dimensione dell’amore, così come la Bibbia ce lo fa conoscere: l’amore di Dio per il mondo e per l’umanità intera, che in Cristo ha trovato, per noi, il suo compimento perfetto.

Questa parabola ci parla della necessità di ascoltare la Bibbia, nel senso di fare ciò che essa prescrive, perché è nella nostra possibilità farlo; ci dice che tutto quello che dobbiamo sapere e tutto quello che possiamo essere e tutto quello che possiamo fare e tutto quello che possiamo desiderare, è scritto lì.

Non c’è altro.

La nostra vita, il nostro mondo, non sono altro che il dono d’amore di Dio per tutti e tutte noi.

Questa parabola ci dice anche che il Signore c’è per tutti e per ciascuna e che lo si può trovare nella Bibbia e nei fratelli e nelle sorelle, ma che per incontrarlo bisogna ascoltare la sua parola e grazie a questa uscire da noi stessi per andare nel mondo e diventare operatori di pace e di giustizia. Non sono due parole astratte, meno che mai oggi, quando la pace sembra vacillare ovunque e la giustizia sembra vestire sempre di più i panni del potere economico.

Non vorrei trasformare l’evangelo di Luca in un manuale per la rivoluzione perché non veniamo giustificati per mezzo delle opere (nemmeno per quelle sociali), bensì per la fede in Gesù Cristo. È la fede in Gesù Cristo che ci rende liberi di andare incontro a Lazzaro, non la paura della punizione o la presunta assunzione di un compito morale e sociale, ma non possiamo stare a guardare. Non siamo spettatori ma protagonisti del cambiamento che può avvenire, testimoni dell’evangelo e non lettori solamente, testimoni gioiosi e convinti della salvezza che abbiamo ricevuto per grazia mediante la fede.

L’evangelista si rivolgeva ad un pubblico che aveva in mente una teologia secondo la quale il segno della benedizione di Dio era visibile nell’abbondanza di beni materiali, la condizione di ricchezza dimostrava il favore presso Dio. Luca era in polemica con i farisei che credevano nel valore della ricchezza e della vita piena di benedizioni materiali, cioè era in polemica con una lettura distorta della Scrittura, che non riconosceva invece che Dio interviene a favore dei deboli e degli oppressi e che chiede al suo popolo di collaborare affinché la giustizia sia instaurata tra le nazioni.

Oggi questa parabola è un atto di accusa nei confronti di chi pensa che il mondo sia dato così come noi lo conosciamo e che le differenze fanno parte di un ordine che non può, e persino non deve, essere capovolto.

Noi sappiamo invece che siamo chiamati tutti e tutte a testimoniare la parola del Signore che converte noi e il mondo intorno a noi, che salva e che redime, che restituisce la giustizia e che ci assicura che la promessa del Regno è già stata mantenuta in Cristo. A noi sta di renderla vera e operante.

Amen

lunedì 23 maggio 2022

Predicazione di domenica 22 maggio 2022 su Giovanni 14,23-29 a cura di Daniel Attinger

LA PROMESSA DELLO SPIRITO SANTO

Giovanni 14,23-29


Gesù gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto.

Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti. Avete udito che vi ho detto: "Io me ne vado, e torno da voi"; se voi mi amaste, vi rallegrereste che io vada al Padre, perché il Padre è maggiore di me. Ora ve l'ho detto prima che avvenga, affinché, quando sarà avvenuto, crediate.




Cari fratelli e sorelle,

In questa VIa domenica di Pasqua ci viene ricordato, una volta ancora, il grande annun­cio pasquale: Gesù Cristo, colui che è stato crocifisso, è risorto ed è vivente! È un messaggio così straordinario che occorrono ben otto domeniche, tutto il tempo che passa tra Pasqua e la festa di Pentecoste che celebre­remo fra quindici giorni, per tentare di capire questo mes­sag­gio. Anzi, a dire il vero, sono tutte le domeniche che, in un modo o in un altro, ci offrono delle variazioni su quell’unico tema.

Per renderci conto della nostra difficoltà a comprendere questo messaggio, basti pen­sare che se vi dicessi che ho in­contrato l’altro giorno, per le strade di Biella, la signora Zaldera, che era dei nostri, vi chiedereste, a giusta ragione, se non avessi perso la testa. Il problema, infatti, consiste nel sape­re cosa si intende quando si parla di resurre­zione.

Nella Bibbia, indipendentemente dalla figura di Gesù, sono menzionati alcuni casi di risurrezione: quello molto conosciuto di Lazzaro, fratello di Marta e Maria, quello del ragaz­zo di Nain, che era figlio unico di una donna vedova, o ancora quello della figlia di Giairo. Ma in questi casi si parla di una realtà diversa dall’evento di Pasqua. Infatti, quelle persone tornate in vita per la potenza di Gesù sono poi morte una seconda volta ed aspet­tano an­ch’esse la resurrezione dei morti che professiamo.

Per Gesù si tratta di qualcos’altro: perché Gesù risorto non è identico a ciò che era pri­ma. Da risorto, non lo si riconosce subito; sembra poi che possa essere presente nel con­tempo in diversi luoghi; entra d’improvviso in una stanza dove si trovano i discepoli, le cui porte sono state accuratamente chiuse per paura della gente; ma nello stesso tempo lo si può toccare, e mangia i pezzi di pesce che i suoi discepoli gli offrono; e soprat­tutto, Gesù risorto non muore più.

Per una mente normale tutto ciò sa di inverosimile, per cui non è affatto strano che molta gente pensi che i cristiani sono stati vittime di allucinazioni.

Ecco per il problema. E allora cosa possiamo dire noi che, nonostante tutto, crediamo nella risurrezione di Gesù? L’occa­sione di una predicazione non basta evidentemente per dire la nostra fede. Ma ogni predicazione può costituire un tassello che, aggiunto man mano ad altri, forma alla fine un mosaico che dia una certa immagine della risurrezione in cui crediamo.

Oggi, il tassello è la promessa dello Spirito santo di cui Ge­sù parla ai suoi discepoli durante l’ultimo pasto che condivide con loro, prima della sua passione e morte in croce.

Che rapporto c’è tra questa promessa e la resurrezione? Il rapporto non è immediato, ma vedremo che esiste ed è anche importantissimo.

Ascoltiamo dunque il testo che abbiamo letto. Cosa dice?

In un primo tempo, Gesù parla dell’amore: “Se uno mi ama, mio Padre lo amerà e noi verremo a lui e resteremo stabilmente vicino a lui”. La risurrezione di Gesù non fa parte degli eventi verificabili scientificamente: è un’esperienza che viviamo e dal­la quale nasce in noi l’amore; non l’amore spontaneo come quello che nasce tra due persone che si trovano bene l’una con l’altra, ma un amore che si rivela nell’obbedienza ai comanda­menti del Signore, e particolarmente al comandamento nuovo appena dato ai discepoli: “Amatevi gli uni gli altri, come e poi­ché io ho amato voi”. E Gesù ha appena mostrato cosa significa questo amore quando ha lavato i piedi ai suoi discepoli, anche a Giuda che lo tradiva e a Pietro che lo avrebbe rinnegato: si trat­ta quindi di un amore che pur odiando il peccato, ama il pecca­tore e va fino all’amore per i nemici, come ha insegnato Gesù nel discorso sul monte.

Quest’esperienza non fa parte delle nostre capacità; amare il nemico fino a preferire che egli viva, anche se per questo io debba morire, è al di là di ciò che si può chiedere a un essere umano. Ecco allora il secondo tempo della parola di Gesù: la promessa dello Spirito santo. Ma, perché lo possiamo ricevere, occorre la manifestazione dell’amore totale di Gesù per noi, cioè la sua morte. Essa è la prova che egli ha preferito la nostra vita alla sua, ma nel contempo, avendo vissuto l’amore divino in pienezza, la sua morte è anche ritorno al Padre da dove manda quello Spirito che lo animava quando viveva tra noi. Di fatto, al momento della morte di Gesù, Giovanni scrive: “chinato il capo, effuse lo Spirito”. La sua morte è effusione dello Spirito.

Ma cos’è questo Spirito? Gesù lo chiama “Paraclito”, parola che qualifica un avvocato in tribunale, oppure uno che esorta, incoraggia e consola e dunque qualcuno che costituisce un so­stegno solido per la vita. Appena prima Gesù l’aveva chiamato un “altro Paraclito”. Se è altro, ciò significa che succede a un “primo”, cioè a Gesù stesso che era il primo Paraclito. Questo Spirito, datoci da Dio, esercita dunque in noi lo stesso ruolo di quello che Gesù eser­citava nei confronti dei suoi discepoli: ci insegna ogni cosa, ricordandoci e facendoci capire le parole che Gesù ha proclamato. Ma non solo: questo Spirito è il portatore in noi della pace, pace con se stessi, pace con gli altri e questo perché quando lo Spirito ci è dato, è Dio stesso a fare in noi la sua dimora.

Forse penserete che tutto ciò è un bel discorso, che rischia però di essere vuoto perché nulla di ciò può essere controllato.

Invece, non è così. Per capirlo occorre fermarsi brevemen­te su due pensieri.

Il primo concerne la fede: spesso pensiamo che la fede sia l’adesione ad una credenza, a dei dogmi o a delle affermazioni sulle quali fondiamo il nostro esistere. Ci facciamo cioè un’idea intellettuale della fede, mentre in realtà la fede è fondamental­mente un atto di fidu­cia, un abbandonarsi a Dio con la convin­zione che egli diventa l’attore stesso della nostra vita, colui che la conduce e le dà la sua direzione. Il credere è dunque qualcosa che gli altri possono vedere, e che possono vedere nel compor­tamento e nella vita del credente. Così, non possiamo vedere lo Spirito santo, ma lo possiamo vedere agire in noi. Suscita in noi parole di consolazione, di incoraggiamento, di speranza; fa di noi dei portatori di pace; ci ispira gesti di amore, di tenerezza, di bontà. Fa che in noi qualcosa della vita di Gesù diventi visi­bile agli occhi di quelli con cui viviamo.

Ed ecco il secondo pensiero: in queste condizioni, se cioè è lo Spirito a suscitare in noi un comportamento che rivela la nostra fede, allora occorre chiedere lo Spirito e chiederlo con insistenza, affinché questo dono ci sia sempre rinnovato. Infatti, non possediamo mai lo Spirito, perché è lui che ci possiede, ma il suo dono è certo per chi lo chiede, come ci ha pro­messo Gesù stesso: “Se voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vo­stri figli, tanto di più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che lo chiedono” (Lc 11,13). La domanda dello Spirito santo è l’unica preghiera della quale sappiamo con certezza che vie­ne esaudita. Allora, non esitiamo a rinnovare questa richie­sta, e vedremo lo Spirito del Ri­sorto agire in noi e conformare la nostra vita alla sua, e diventeremo, come Lui, testimoni del­l’amore del Padre: questa sarà la risurrezione, anche nostra.

Amen.



lunedì 16 maggio 2022

Predicazione di domenica 15 maggio 2022 su Colossesi 3,12-17 a cura di Marco Gisola

Colossesi 3,12-17

12 Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. 13 Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. 14 Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione. 15 E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti.

16 La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali. 17 Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando Dio Padre per mezzo di lui.



1. La parola di Dio di oggi parla di noi e parla a noi. Parla di noi perché ci dice che cosa siamo, chi siamo: per Dio siamo “eletti di Dio, santi e amati”. Questo siamo per Dio. Sono tutti verbi al passivo, il cui soggetto ovviamente è Dio stesso: siamo eletti perché Dio ci ha eletti, cioè scelti; siamo santi non secondo il linguaggio comune per cui si intende persone quasi perfette, ma nel senso letterale biblico che vuol di nuovo dire scelti, messi da parte da Dio; e siamo amati perché Dio ci ha amati in Cristo e ci ama.

Per Dio e grazie a Dio siamo tutto questo: siamo eletti, santi e amati. Questo la parola di Dio dice di noi oggi, questo siamo in Cristo, per pura grazia e libera decisione di Dio. Ora tutto questo è appunto pura grazia, è libera decisione di Dio; non è un premio, non è un diritto, non è un privilegio essere eletti, santi ed amati, ma è un dono di Dio e come tutti i doni di Dio ci è dato affinché lo viviamo con gli altri e per gli altri.

E in questo senso questo brano parla non solo di noi ma anche a noi: è infatti un brano “esortativo”, come si dice, cioè un brano che dà indicazioni e suggerimenti ai cristiani della chiesa di Colosse. E infatti comincia con un verbo all’imperativo: “vestitevi” come eletti di Dio santi e amati di sentimenti di misericordia, di benevolenza, ecc. Potremmo dire: poiché avete avuto la grazia di essere scelti da Dio per amore, ora vivete questo dono e questa vocazione, “vestitevi”. Poco prima aveva scritto “vi siete spogliati dell’uomo vecchio e vi siete rivestiti del nuovo”. L’apostolo si rivolge qui a dei cristiani che erano pagani che hanno vissuto un enorme cambiamento, che viene rappresentato dall’immagine dello spogliarsi e del rivestirsi, cioè di cambiare abito. Potremmo quasi dire, con un’altra metafora, cambiare pelle, cambiare vita.

Di che cosa bisogna rivestirsi, di che cosa devono vestirsi i cristiani di Colosse – e noi con loro - giorno dopo giorno? Come tutte le mattine quando ci alziamo ci mettiamo i vestiti con i quali andiamo incontro al nostro prossimo, così dobbiamo vestirci di sentimenti di misericordia, benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza, dobbiamo sopportarci gli uni gli altri e perdonarci a vicenda e sopra tutte queste cose “vestirci dell’amore” scrive l’apostolo.

L’apostolo si rivolge a una comunità, non a delle persone singole e sole, ma a “eletti, santi e amati” tutte parole al plurale, persone che sono chiamate a vivere insieme la fede, la gioia e la riconoscenza a Cristo. E vivere insieme la fede, la gioia, la speranza, la riconoscenza verso il Signore significa ogni giorno relazionarsi con il prossimo che Dio ci ha messo accanto. E questo è un impegno, anzi un compito, quello di curare queste relazioni; curare le relazioni con le sorelle e i fratelli è il compito che il Signore ci dà ogni giorno: “vestitevi” di questi sentimenti, ogni giorno, come ogni giorno ci mettiamo i vestiti.

Per stare insieme agli altri e insieme agli altri vivere la fede è necessario che coltiviamo e curiamo benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza ed è anche necessario qualche volta che ci sopportiamo, perché il prossimo che il Signore mi ha messo accanto non è sempre come io vorrei che fosse. E a volte dobbiamo anche perdonarci a vicenda, perché le relazioni umane - anche quelle fraterne e sorerne che ci sono date di vivere nella chiesa - a volte lasciano delle ferite, perché siamo peccatori e se non fossimo peccatori non saremmo qui, perché non saremmo cristiani! Perché i cristiani sono peccatori e peccatrici perdonati.

È un compito che ci viene dato: il compito di curare il nostro essere comunità e dunque curare le relazioni tra noi, tra i membri della comunità. È un compito, perché non è spontaneo. Questi sentimenti di misericordia, benevolenza, umiltà, ecc. non nascono spontaneamente del nostro cuore come potrebbe farci pensare la parola “sentimenti”. Questi sentimenti – che potremmo anche chiamare modi di essere, modi di porsi davanti agli altri e con gli altri, vanno coltivati, curati e fatti crescere.

2. E come può accadere questo? Come nascono, crescono e vengono coltivati i sentimenti di cui parla l’apostolo? Questo ci viene detto più o meno a metà di questo brano quando l’apostolo scrive: “la parola di Cristo abiti in voi abbondantemente”. È la parola di Dio che crea la chiesa ed è la parola di Dio che cura, coltiva e fa crescere le relazioni all’interno della chiesa, che fa nascere e crescere in noi misericordia, benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza… È la Parola di Dio che ci aiuta a sopportarci, perché ci dice che il legame che ci lega non è fatto di simpatia o di somiglianze, ma è fondato nella morte e resurrezione di Cristo. È la parola di Dio che ci insegna a perdonare, perché come scrive qui l’apostolo “come il signore vi ha perdonati così fate anche voi”.

Siamo perdonati, dunque perdoniamo, riconosciamo il dono del perdono che Dio ci ha donato in Cristo come un enorme dono e viviamolo nel nostro perdonare. Solo rimettendoci continuamente in ascolto della Parola di Dio, lasciandoci giudicare e interrogare da lei, lasciandoci consolare ed istruire da lei, possiamo tentare di vivere ciò che l’apostolo descrive in queste righe.

3. E la conclusione del nostro brano mi sembra che menzioni i due ambiti, i due luoghi dove siamo chiamati a vivere sentimenti di misericordia, benevolenza umiltà, ecc.: il culto e la vita quotidiana. “La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali”. Il luogo dove ci ammaestriamo ed esortiamo a vicenda è il culto, ed è significativo che l’apostolo dia così tanta importanza al canto. Il canto accompagna ogni momento del nostro culto, è lode, confessione di peccato, confessione di fede, espressione di fiducia, domanda, intercessione… nel canto esprimiamo ogni aspetto della nostra fede, ogni aspetto della nostra vita nella fede. Il canto è comunitario, tutti vi partecipano, ognuno canta al Signore e tutti cantano insieme. È comunitario anche nel modo in cui si canta: nessuno deve prevalere, nessuna voce deve coprire quella degli altri; e tutti devono andare allo stesso tempo, in modo che il canto sia davvero corale. Per cantare insieme è necessario ascoltarsi a vicenda, un esercizio indispensabile per il canto e anche per la vita!

E l’altro ambito è quello della vita quotidiana: “Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù”: un’indicazione che ci appare generica, ma che è generica per comprendere ogni ambito della nostra vita: “qualunque cosa…”, “ogni cosa…” cioè tutto ciò che fate e dite (“parole e opere”) sia guidato da quei sentimenti di misericordia, umiltà, ecc. Non è poco e non è generico, ma è la nostra intera vita, che è così testimonianza in atti e in parole dell’immenso dono di grazia che abbiamo ricevuto in Cristo.

4. E infine – scrive l‘apostolo - fate tutto ciò “ringraziando Dio Padre per mezzo di lui”. Ve l’ho già citato altre volte quello che dice il catechismo di Heidelberg, un catechismo riformato del ‘500 che Paolo Ricca ha ritradotto e commentato alcuni anni fa. Alla domanda “Quante cose è necessario che tu sappia per poter felicemente vivere e morire in questa consolazione [cioè nel sapere che si appartiene a Cristo]?” La risposta è: “tre cose: in primo luogo quanto grandi sono il mio peccato e la mia miseria. In secondo luogo, come vengo redento da tutti i miei peccati e dalla mia miseria. E in terzo luogo come devo esser grato a Dio per questa redenzione”.

Queste parole dell’apostolo fanno parte di questo “terzo luogo”: la nostra vita di cristiani è tutta un esprimere la nostra gratitudine a Dio per la redenzione, cioè per la liberazione, per il perdono, per la salvezza che ci ha donato in Cristo. Tutto ciò che facciamo e diciamo – dice il nostro brano di oggi e il catechismo di Heidelberg con lui – è espressione della nostra gratitudine a Dio. Null’altro che gratitudine. Quel che riusciamo effettivamente a vivere della misericordia, della benevolenza, della umiltà, della mansuetudine, della pazienza, della sopportazione e del perdono di cui si parla qui, è pura e semplice gratitudine. Se e quando riusciamo a vivere qualche briciola di tutto ciò non è altro che riconoscenza a Dio per ciò che ha fatto per noi.

Come “come eletti di Dio, santi e amati” siamo chiamati a vestirci di tutti questi sentimenti, di questo modo di essere non per essere buoni – solo Dio è buono, ha detto Gesù – ma per essere grati al Signore ed esprimere questa gratitudine nell’amore verso il prossimo che lui ci ha dato. E possa la Parola di Dio abitare abbondantemente in tutti noi e continuare a ricordarcelo e ad insegnarcelo.

lunedì 25 aprile 2022

Predicazione di domenica 24 aprile 2022 su Colossesi 2,12-15 a cura di Marco Gisola

Colossesi 2,12-15

12 siete stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. 13 Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati; 14 egli ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l’ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce; 15 ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce.

Al venerdì santo e a Pasqua abbiamo annunciato che Gesù Cristo è morto e risorto per noi. Il testo di oggi ci dice che il venerdì santo e il giorno di Pasqua siamo morti e risorti anche noi: siete stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. Questo è il significato del battesimo cristiano, scrive l’apostolo, questo è ciò che è stato proclamato il giorno in cui siamo stati battezzati, non importa se molto o poco tempo fa, non importa se da bambini o da adulti, se per aspersione o per immersione.

Il tuo battesimo ha questo significato: Gesù Cristo è morto e risorto anche per te. Gesù Cristo è morto e risorto per tutta l’umanità, ma poiché è morto e risorto per delle persone ben precise, con un nome e una esistenza unici, nell’istante del battesimo si annuncia che Gesù Cristo è morto per Tizio o per Caia, che vengono chiamati per nome mentre vengono battezzati. Il testo dice siete stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui. Siamo stati sepolti e siamo anche già stati risuscitati con lui: mentre lui, Gesù, veniva sepolto e mentre veniva risuscitato, ci portava con sé. Non ci portava né nella tomba e nemmeno in cielo ovviamente, ma ci portava in una nuova vita. La morte e resurrezione di Cristo ha fatto morire e risorgere anche noi, nel senso che ha fatto iniziare per noi una nuova vita in Cristo, come dice l’apostolo “mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti”.

Che cosa caratterizza questa nuova vita? Questo brano parla di almeno due caratteristiche:

1. La prima è il perdono: Voi, che eravate morti nei peccati […], Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati. Siamo stati risuscitati perché siamo stati perdonati. Il peccato è morte, il perdono è vita. Il peccato uccide, il perdono fa risorgere. E non è un modo di dire: il peccato, anche quando non toglie davvero la vita a qualcuno - come nel caso della guerra, del terrorismo, dei femminicidi, ecc. - è però la morte di una relazione. E il perdono è rinascita di una relazione.

Forse “morte” ci sembra una parola troppo grossa, spesso le relazioni non si interrompono, ma molte volte le relazioni si incrinano; non sono uccise, ma sono spesso vengono ferite e le ferite faticano a guarire. Non ci si parla più, oppure ci si parla malamente o alle spalle. Il perdono in questo senso è guarigione, a volte vera e propria rinascita di una relazione e questa guarigione o rinascita si chiama riconciliazione. È ciò che ha fatto Gesù morendo in croce per noi, come dice l’apostolo Paolo quando scrive che “Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe, e ha messo in noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,19).

E il nostro brano di oggi dice che eravamo “morti nei peccati” e che il perdono di Dio ci ha vivificati, ci ha riconciliati con Dio stesso, ci ha fatto capire che mentre il peccato è divisione e rottura, il perdono è riconciliazione, ri-unione e con ciò ci ha resi capaci di cercare la riconciliazione.

Le terribili notizie che ci arrivano ogni giorno dall’Ucraina, oltre a mostrarci tutto il dramma delle vittime, dei profughi e della distruzione, fanno anche riflettere su quanto odio venga seminato ogni giorno che la guerra procede. E anche quando la guerra finirà, l’odio purtroppo rimarrà a lungo. Quando le morti delle persone termineranno, rimarrà la morte dentro le persone, nel cuore di molte persone vive, ma con il cuore pieno di odio. Solo la riconciliazione potrà fare rivivere quelle relazioni interrotte e uccise dal dramma della guerra. Prima bisognerà ovviamente fare giustizia, e poi, per rivivere, dopo la guerra e dopo tutto quell’odio, per risorgere dalle ceneri della guerra, sarà necessario un lungo cammino di riconciliazione.

Non esagera l’apostolo quando dice che è questione di vita e di morte, perché il peccato uccide, il perdono fa rivivere, il peccato separa, il perdono riconcilia. La riconciliazione con Dio l’ha fatta per noi Dio stesso, in Cristo. In lui, nella sua morte e resurrezione, siamo anche noi morti e risorti a nuova vita. Risuscitati perché perdonati.


2. La seconda caratteristica della nuova vita è la libertà. Siamo stati risuscitati perché siamo stati liberati. La parola libertà non c’è nel testo, ma possiamo leggere così l’ultima frase del brano che abbiamo letto, che a prima vista non è così chiara, quando dice che Dio ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce.

I “principati” e le “potenze” sono parole che non usiamo più, perché non fanno parte del nostro linguaggio e della nostra cultura. Nel linguaggio del primo secolo “principati” e “potenze” erano delle forze che si pensava potessero dominare gli esseri umani, ed erano legate a una visione del mondo di cui facevano parte anche i demoni, che incontriamo così spesso nel NT. I principati e le potenze sono forze che dominano la volontà umana; i demoni sono forze che si impossessano della volontà umana e fanno fare alle loro vittime ciò che vogliono. È ovvio che questo modo di pensare per noi è superato. Ma ciò che questo modo di pensare e questo linguaggio esprimono è invece sempre straordinariamente attuale.

Ci sono tante forze che cercano di dominare la nostra volontà. A partire da quella antichissima che nella Bibbia va sotto il nome di “mammona”: tutto ciò che ha a che fare non solo con la ricchezza – perché è una forza che ha molto potere anche su chi ricco non è – quanto piuttosto con il possesso. E dunque la moda, il mercato, la finanza, gli oggetti che si desidera possedere. E pensiamo a quell’altra potenza che va sotto il nome di “successo”, che una volta era riservato a personaggi dell’arte e dello spettacolo e oggi, nel mondo dei “social” è invece ricercato da tutti coloro che vogliono essere “influencer”, parola che in sé contiene l’idea del successo ma anche del potere, il potere di influenzare gli altri.

E per tornare a ciò che dicevamo prima, quale potenza ha l’odio, una vera e propria potenza demoniaca, che spinge gli esseri umani a individuare un nemico, un diverso, uno che può diventare nostra vittima. A volte purtroppo è odio religioso, quando la religione sfocia nel fanatismo. A volte è odio nazionalistico, quando il nemico è lo straniero. A volte è la persona che ha la pelle di un altro colore, a volte il nemico di turno invece ha lo stesso colore di pelle, ma è omosessuale o disabile. A volte è semplicemente uno che tifa per una squadra di calcio diversa… Non è forse l’odio una fortissima potenza diabolica, nel senso biblico della parola, cioè che divide, che separa gli esseri umani gli uni dagli altri e li mette gli uni contro gli altri…?

Tutte queste potenze che ci mettono gli uni contro gli altri sono state “spogliate” dice il nostro brano, e Dio ha trionfato su di loro per mezzo della croce. Ce ne ha liberato. Ha trionfato perdendo, a viste umane; ma solo a viste umane. In realtà ha vinto, ha sconfitto l’odio, ma non chi odia. Gesù – lo abbiamo detto nel culto del giovedì santo – secondo il vangelo di Luca è morto perdonando, pronunciando un’ultima parola di riconciliazione. La riconciliazione è stato il trionfo che è avvenuto sulla croce.

E dunque la croce ci ha liberati da tutte queste potenze, dal potere che tutte queste forze hanno su di noi, perché è attraente possedere, influenzare, dominare. Persino odiare è molto attraente per alcuni, perché l’odio è il motore che ci spinge a voler dominare sugli altri.

Sulla croce è stato inchiodato “il documento a noi ostile”, scrive l’apostolo, un termine un po’ oscuro, che potrebbe essere una sorta di elenco di debiti o di prescrizioni legalistiche, comunque qualcosa che vincola e che lega. Potremmo dire che sulla croce è stata crocifissa la nostra schiavitù. 

 

Siamo stati risuscitati perché siamo stati perdonati e perché siamo stati liberati. Questo è il meraviglioso dono che ci è stato fatto tra il venerdì santo e la Pasqua e che viene proclamato su ciascuno e ciascuna di noi nel nostro battesimo. Il dono del perdono e della libertà. Perdonati in Cristo e liberati in Cristo, perché morti e risuscitati con lui. Questo è l’evangelo, la bella notizia che riceviamo questa domenica dopo Pasqua e ogni giorno della nostra vita, che possiamo ricominciare nel perdono e nella liberazione che opera in noi la grazia di Dio.

domenica 17 aprile 2022

Predicazione della domenica di Pasqua (17 aprile 2022) su Marco 16,1-8 a cura di Marco Gisola

 Marco 16,1-8

1 Passato il sabato, Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo, e Salome comprarono degli aromi per andare a ungere Gesù. 2 La mattina del primo giorno della settimana, molto presto, vennero al sepolcro al levar del sole. 3 E dicevano tra di loro: «Chi ci rotolerà la pietra dall’apertura del sepolcro?» 4 Ma, alzati gli occhi, videro che la pietra era stata rotolata; ed era pure molto grande. 5 Entrate nel sepolcro, videro un giovane seduto a destra, vestito di una veste bianca, e furono spaventate. 6 Ma egli disse loro: «Non vi spaventate! Voi cercate Gesù il Nazareno che è stato crocifisso; egli è risuscitato; non è qui; ecco il luogo dove l’avevano messo. 7 Ma andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea; là lo vedrete, come vi ha detto». 8 Esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro, perché erano prese da tremito e da stupore; e non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura.



Gesù è risorto e la sua resurrezione fa paura! Questa è la prima impressione che ci dà questo racconto del vangelo di Marco, che termina - in un modo che ci sembra strano - con la paura delle donne che fuggono dal sepolcro e non dicono nulla a nessuno.

Gesù è risorto, ma non ci crediamo. Gesù è risorto, ma fuggiamo via, come per non avere più davanti agli occhi quella tomba vuota, quell’assenza di una salma che avremmo voluto trovare.

Così finisce questo brano, ma così probabilmente finiva l’intero vangelo di Marco. Molti manoscritti del vangelo di Marco finivano qui e i versetti che noi troviamo dopo sono stati aggiunti in un secondo momento, da qualcuno che probabilmente era scandalizzato dal fatto che un vangelo finisse così.

Questo racconto ci stupisce, ci sconcerta, ma forse… forse è proprio questo il racconto più autentico della nostra reazione davanti alla resurrezione di Gesù. Dico “nostra” appositamente, nostra e non delle donne, che sarebbe troppo facile giudicare col senno di poi. Quelle donne - ma è più corretto dire quelle discepole - siamo noi.

Immaginiamoci la scena: Gesù è morto, le discepole hanno comprato gli aromi e i profumi per sistemare il corpo di Gesù. Hanno aspettato che passasse il sabato, il giorno del riposo, in cui non si deve compiere alcun lavoro.

E poi, la sorpresa: la pietra rotolata, la tomba aperta, il corpo non c’è e invece dentro il sepolcro c’è un giovane seduto – è seduto e dunque evidentemente le aspettava! - è vestito di una veste bianca che indica che viene da Dio, che è un suo messaggero, e dice loro cose incredibili.

Eh sì, le discepole hanno paura, ma non perché sono paurose, ma perché ciò che vedono e ascoltano è incredibile e le sconvolge totalmente. Non solo per ciò che vedono – cioè l’angelo, che già è una scena piuttosto sconvolgente - ma anche per ciò che non vedono, ossia il corpo di Gesù.

Immaginiamoci come reagiremmo noi se dopo la morte di un nostro caro il suo corpo sparisse nel nulla!

E infine, in un crescendo di tensione, sconvolte per ciò che ascoltano, per l’annuncio che ricevono: egli è risuscitato, non è qui. Che non era lì lo avevano capito, ma “risuscitato” è un annuncio troppo grande e troppo bello, così grande e bello che fa paura, è difficile da credere.

Così siamo anche noi, se vogliamo essere sinceri, davanti all’annuncio della resurrezione di Gesù; sconcertati. E se non siamo anche spaventati, è solo perché dopo tanto tempo che lo ascoltiamo ci siamo abituati.

È troppo, è un annuncio troppo grande per la nostra piccola fede. La conclusione del vangelo di Marco ci vuol dunque dire che la resurrezione di Gesù è un messaggio così grande che incontra tutta la nostra umana diffidenza.

Ovviamente, dobbiamo anche dire che se il vangelo di Marco – e anche gli altri tre – sono stati scritti, se questi fatti sono stati raccontati e ri-raccontati, è perché poi l’annuncio della resurrezione è stato creduto. Sennò nemmeno noi saremmo qui.

Ci è voluto un po’ di tempo, ci sono voluti gli incontri con Gesù risorto, c’è voluto – diciamo così – un grosso lavoro dello Spirito Santo, ma poi alla fine l’incredibile è stato creduto. L’incredibile notizia che la vita ha vinto sulla morte è stata creduta.

Questo racconto del vangelo di Marco è particolare proprio perché tiene insieme queste due cose: ci dice contemporaneamente che Gesù è risorto, ovvero ci annuncia il meraviglioso evangelo di Pasqua della vittoria della vita sulla morte, e contemporaneamente ci dice che le prime persone che ricevono questo annuncio non ci credono, hanno paura e fuggono.

Marco non è un ingenuo, piuttosto vuole mostrarci che non è affatto scontato e non è affatto facile credere alla resurrezione. Marco vuole semplicemente dire le cose come stanno: Gesù è risorto, ma non è facile crederci.

Anzi, per essere corretti dobbiamo ribaltare la frase: Marco ci vuole dire che non è scontato crederci, ma Gesù è risorto. Gesù è risorto nonostante le nostre difficoltà e i nostri dubbi. Solo così, solo se ribaltiamo questa prospettiva il racconto è veramente evangelo, buona notizia, altrimenti è solo umano scetticismo.

Facciamo fatica a crederci, ma Gesù è risorto. Gesù è risorto nonostante i nostri umani dubbi e le nostre domande. L’incredibile è vero, è accaduto, Gesù è risorto: questo è l’evangelo.

Il centro del racconto non è la sua conclusione, non è la paura e il silenzio delle discepole, in questa paura e in questo silenzio c’è solo tutta la nostra umanità. Il centro del racconto è nelle parole dell’angelo, nell’annuncio, che va ripetuto, che va annunciato a tutto il mondo: Gesù è risorto, la morte è vinta.

L’angelo aveva detto «non vi spaventate» e le discepole hanno paura lo stesso. L’angelo aveva detto «andate a dire ai suoi discepoli … che egli vi precede in Galilea» e loro stanno zitte.

Ma il loro silenzio e la loro fuga non cancella il fatto che Gesù è risorto e non elimina la necessità di annunciarlo.

È solo che per loro è troppo presto, che la rassegnazione è ancora troppa per essere superata. Ed è per questo che ci sono stati altri incontri e altri annunci ed è per questo che anche noi continuiamo ad annunciarlo: perché è vero, nonostante appaia incredibile.

E che cosa continuiamo ad annunciare, o meglio: quale annuncio continuiamo a ricevere? Oltre all’annuncio del fatto che Gesù è risorto, l’angelo dice due cose alle tre discepole: dice loro “non vi spaventate!” e “andate”. L’annuncio della risurrezione di Gesù consola e invia.

L’annuncio della risurrezione di Gesù consola, perché dona la speranza che vince la paura e la rassegnazione. Gesù è risorto, la morte è vinta, ed è la morte che fa paura.

È tutto ciò che porta morte che fa paura: l’odio, la discriminazione, la sete di dominio, l’istinto violento, e tanti altri sentimenti che stanno dentro di noi e che vediamo tutti insieme nelle immagini che ci arrivano dall’Ucraina, ma non solo dall’Ucraina!

Tutto ciò fa paura, ma l’evangelo di Pasqua ci dice che la morte è vinta e che tutto ciò che porta morte non ha l’ultima parola.

E poi l’annuncio della risurrezione di Gesù invia, perché chi ha ricevuto questo annuncio ne diventa debitore verso gli altri. Chi ha ricevuto questo annuncio è debitore di speranza.

E tra l’altro è interessante che nella continuazione del capitolo, che come dicevo è probabilmente un aggiunta fatta in un secondo momento, chi ha fatto questa aggiunta ha ripreso l’episodio in cui Gesù appare a Maria Maddalena.

Maria Maddalena è una delle tre discepole del nostro testo. Quindi questa aggiunta ci vuole dire che il Signore non si è arreso al silenzio delle discepole che erano andate al sepolcro, ed è andato lui stesso incontro a una di esse a mostrarsi e a farsi riconoscere.

E infatti alle discepole al sepolcro l’angelo aveva detto «Gesù vi precede in Galilea, là lo vedrete». Bisogna partire, andare a incontrare Gesù, che è tornato dove tutto è iniziato e dove tutto ora ricomincia in modo nuovo. Prima si va a incontrare Gesù e poi si va ad annunciarlo agli altri.

La nostra Galilea è la Bibbia, è il culto, è ogni occasione in cui la Parola di Dio viene letta, annunciata e ascoltata, perché è nella sua parola che incontriamo il risorto e riceviamo l’annuncio che consola e che invia.

Ogni volta che veniamo qui, veniamo consolati e inviati dall’evangelo che ci dice che Gesù è risorto e che non c’è motivo di avere paura.

Quel giorno, tre discepole sono andate di mattina presto al sepolcro di Gesù per occuparsi della salma del loro amico e maestro. Lì hanno visto e ascoltato cose straordinarie, la tomba vuota, il messaggero di Dio, l’annuncio che Gesù è risorto.

Tre discepole sono fuggite impaurite e non hanno detto nulla. Ma non è finita lì. Quell’annuncio non poteva essere taciuto, non è stato taciuto. Quelle tre discepole e poi altre e altri, molte altre e molti altri hanno di nuovo ricevuto quell’annuncio, che è passato di voce in voce, fino ad oggi, fino a noi.

Anche a noi oggi l’evangelo dice: non spaventatevi, Gesù è risuscitato, la morte è vinta, Gesù vi precede in Galilea, dove tutto ricomincia e tutto sarà nuovo. Sembra incredibile, ma è vero: Cristo è risorto, tutto ricomincia, in lui tutto è nuovo.