LA PROMESSA DELLO SPIRITO SANTO
Giovanni 14,23-29
Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti. Avete udito che vi ho detto: "Io me ne vado, e torno da voi"; se voi mi amaste, vi rallegrereste che io vada al Padre, perché il Padre è maggiore di me. Ora ve l'ho detto prima che avvenga, affinché, quando sarà avvenuto, crediate.
Cari fratelli e sorelle,
In questa VIa domenica di Pasqua ci viene ricordato, una volta ancora, il grande annuncio pasquale: Gesù Cristo, colui che è stato crocifisso, è risorto ed è vivente! È un messaggio così straordinario che occorrono ben otto domeniche, tutto il tempo che passa tra Pasqua e la festa di Pentecoste che celebreremo fra quindici giorni, per tentare di capire questo messaggio. Anzi, a dire il vero, sono tutte le domeniche che, in un modo o in un altro, ci offrono delle variazioni su quell’unico tema.
Per renderci conto della nostra difficoltà a comprendere questo messaggio, basti pensare che se vi dicessi che ho incontrato l’altro giorno, per le strade di Biella, la signora Zaldera, che era dei nostri, vi chiedereste, a giusta ragione, se non avessi perso la testa. Il problema, infatti, consiste nel sapere cosa si intende quando si parla di resurrezione.
Nella Bibbia, indipendentemente dalla figura di Gesù, sono menzionati alcuni casi di risurrezione: quello molto conosciuto di Lazzaro, fratello di Marta e Maria, quello del ragazzo di Nain, che era figlio unico di una donna vedova, o ancora quello della figlia di Giairo. Ma in questi casi si parla di una realtà diversa dall’evento di Pasqua. Infatti, quelle persone tornate in vita per la potenza di Gesù sono poi morte una seconda volta ed aspettano anch’esse la resurrezione dei morti che professiamo.
Per Gesù si tratta di qualcos’altro: perché Gesù risorto non è identico a ciò che era prima. Da risorto, non lo si riconosce subito; sembra poi che possa essere presente nel contempo in diversi luoghi; entra d’improvviso in una stanza dove si trovano i discepoli, le cui porte sono state accuratamente chiuse per paura della gente; ma nello stesso tempo lo si può toccare, e mangia i pezzi di pesce che i suoi discepoli gli offrono; e soprattutto, Gesù risorto non muore più.
Per una mente normale tutto ciò sa di inverosimile, per cui non è affatto strano che molta gente pensi che i cristiani sono stati vittime di allucinazioni.
Ecco per il problema. E allora cosa possiamo dire noi che, nonostante tutto, crediamo nella risurrezione di Gesù? L’occasione di una predicazione non basta evidentemente per dire la nostra fede. Ma ogni predicazione può costituire un tassello che, aggiunto man mano ad altri, forma alla fine un mosaico che dia una certa immagine della risurrezione in cui crediamo.
Oggi, il tassello è la promessa dello Spirito santo di cui Gesù parla ai suoi discepoli durante l’ultimo pasto che condivide con loro, prima della sua passione e morte in croce.
Che rapporto c’è tra questa promessa e la resurrezione? Il rapporto non è immediato, ma vedremo che esiste ed è anche importantissimo.
Ascoltiamo dunque il testo che abbiamo letto. Cosa dice?
In un primo tempo, Gesù parla dell’amore: “Se uno mi ama, mio Padre lo amerà e noi verremo a lui e resteremo stabilmente vicino a lui”. La risurrezione di Gesù non fa parte degli eventi verificabili scientificamente: è un’esperienza che viviamo e dalla quale nasce in noi l’amore; non l’amore spontaneo come quello che nasce tra due persone che si trovano bene l’una con l’altra, ma un amore che si rivela nell’obbedienza ai comandamenti del Signore, e particolarmente al comandamento nuovo appena dato ai discepoli: “Amatevi gli uni gli altri, come e poiché io ho amato voi”. E Gesù ha appena mostrato cosa significa questo amore quando ha lavato i piedi ai suoi discepoli, anche a Giuda che lo tradiva e a Pietro che lo avrebbe rinnegato: si tratta quindi di un amore che pur odiando il peccato, ama il peccatore e va fino all’amore per i nemici, come ha insegnato Gesù nel discorso sul monte.
Quest’esperienza non fa parte delle nostre capacità; amare il nemico fino a preferire che egli viva, anche se per questo io debba morire, è al di là di ciò che si può chiedere a un essere umano. Ecco allora il secondo tempo della parola di Gesù: la promessa dello Spirito santo. Ma, perché lo possiamo ricevere, occorre la manifestazione dell’amore totale di Gesù per noi, cioè la sua morte. Essa è la prova che egli ha preferito la nostra vita alla sua, ma nel contempo, avendo vissuto l’amore divino in pienezza, la sua morte è anche ritorno al Padre da dove manda quello Spirito che lo animava quando viveva tra noi. Di fatto, al momento della morte di Gesù, Giovanni scrive: “chinato il capo, effuse lo Spirito”. La sua morte è effusione dello Spirito.
Ma cos’è questo Spirito? Gesù lo chiama “Paraclito”, parola che qualifica un avvocato in tribunale, oppure uno che esorta, incoraggia e consola e dunque qualcuno che costituisce un sostegno solido per la vita. Appena prima Gesù l’aveva chiamato un “altro Paraclito”. Se è altro, ciò significa che succede a un “primo”, cioè a Gesù stesso che era il primo Paraclito. Questo Spirito, datoci da Dio, esercita dunque in noi lo stesso ruolo di quello che Gesù esercitava nei confronti dei suoi discepoli: ci insegna ogni cosa, ricordandoci e facendoci capire le parole che Gesù ha proclamato. Ma non solo: questo Spirito è il portatore in noi della pace, pace con se stessi, pace con gli altri e questo perché quando lo Spirito ci è dato, è Dio stesso a fare in noi la sua dimora.
Forse penserete che tutto ciò è un bel discorso, che rischia però di essere vuoto perché nulla di ciò può essere controllato.
Invece, non è così. Per capirlo occorre fermarsi brevemente su due pensieri.
Il primo concerne la fede: spesso pensiamo che la fede sia l’adesione ad una credenza, a dei dogmi o a delle affermazioni sulle quali fondiamo il nostro esistere. Ci facciamo cioè un’idea intellettuale della fede, mentre in realtà la fede è fondamentalmente un atto di fiducia, un abbandonarsi a Dio con la convinzione che egli diventa l’attore stesso della nostra vita, colui che la conduce e le dà la sua direzione. Il credere è dunque qualcosa che gli altri possono vedere, e che possono vedere nel comportamento e nella vita del credente. Così, non possiamo vedere lo Spirito santo, ma lo possiamo vedere agire in noi. Suscita in noi parole di consolazione, di incoraggiamento, di speranza; fa di noi dei portatori di pace; ci ispira gesti di amore, di tenerezza, di bontà. Fa che in noi qualcosa della vita di Gesù diventi visibile agli occhi di quelli con cui viviamo.
Ed ecco il secondo pensiero: in queste condizioni, se cioè è lo Spirito a suscitare in noi un comportamento che rivela la nostra fede, allora occorre chiedere lo Spirito e chiederlo con insistenza, affinché questo dono ci sia sempre rinnovato. Infatti, non possediamo mai lo Spirito, perché è lui che ci possiede, ma il suo dono è certo per chi lo chiede, come ci ha promesso Gesù stesso: “Se voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, tanto di più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che lo chiedono” (Lc 11,13). La domanda dello Spirito santo è l’unica preghiera della quale sappiamo con certezza che viene esaudita. Allora, non esitiamo a rinnovare questa richiesta, e vedremo lo Spirito del Risorto agire in noi e conformare la nostra vita alla sua, e diventeremo, come Lui, testimoni dell’amore del Padre: questa sarà la risurrezione, anche nostra.
Amen.
Nessun commento:
Posta un commento