Or uno della folla gli disse: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». Ma Gesù gli rispose: «Uomo, chi mi ha costituito su di voi giudice o spartitore?» Poi disse loro: «State attenti e guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita». E disse loro questa parabola:
«La campagna di un uomo ricco fruttò abbondantemente; egli ragionava così, fra sé: "Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?" E disse: "Questo farò: demolirò i miei granai, ne costruirò altri più grandi, vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni, e dirò all'anima mia: 'Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divèrtiti'". Ma Dio gli disse: "Stolto, questa notte stessa l'anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?" Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio».
Gesù sta istruendo i suoi discepoli in vista della loro missione futura, quando viene interrotto da uno della folla che gli chiede un aiuto pratico: gli chiede di dirimere una questione giuridica, di eredità. Quest’uomo è in discussione – o forse sta litigando – con il fratello per via di un’eredità e chiede a Gesù di risolvere questa questione, da fare da “arbitro” o da “spartitore”. Evidentemente, a quei tempi, c’erano persone che avevano questo compito specifico in caso di eredità contese.
Ma Gesù rifiuta di prestarsi a fare lo “spartitore”, ha cose più importanti da fare e da dire. E prende lo spunto dalla richiesta di quell’uomo che gli chiedeva un aiuto per risolvere una questione di proprietà, di beni materiali, per dare un insegnamento proprio riguardo ai beni materiali e alle proprietà.
La parabola è molto nota: l’uomo ricco si preoccupa di come e dove conserverà i suoi raccolti e mentre fa progetti di abbattere e costruire granai ancora più grandi, non sa che la notte seguente dovrà morire. Non dobbiamo equivocare il senso di questa morte: non è la punizione per i suoi pensieri e per i suoi progetti. La morte che lo coglierà la notte seguente – io così l’ho intesa – è una morte naturale, e rappresenta il limite con cui egli non ha fatto i conti, perché è accecato dal suo delirio di onnipotenza e dal suo affanno di accumulare sempre più beni.
Egli pensa di poter disporre di tutto, sempre. La sua avarizia, o cupidigia, gli impedisce di vedere il limite. Non vede il limite, perché vede solo se stesso e vive solo per se stesso.
Gesù è sempre un maestro nel narrare le sue parabole: in questa parabola c’è un solo personaggio, perché nella vita di quest’uomo c’è un solo personaggio: lui stesso. l’uomo ricco basta a se stesso, parla persino con se stesso, non ha bisogno di altri interlocutori, è un dialogo tra sé e sé, è una vita tra sé e sé. Nella parabola c’è solo lui perché nella sua vita c’è solo lui.
Il grande assente nella parabola e nella sua vita è l’altro, l’altro essere umano, il prossimo, ma anche l’Altro, cioè Dio. Non accumula a vantaggio – per esempio – dei figli (ammesso che ne abbia), che almeno sarebbero un prossimo per cui lui si preoccupa. Accumula a suo esclusivo vantaggio e la sua vita è totalmente egocentrica.
Più volte torna nel dialogo che l’uomo fa con se stesso l’aggettivo possessivo: i miei raccolti, i miei granai, il mio grano, i miei beni, dirò all'anima mia: 'Anima, tu hai molti beni’...
Tutto ruota intorno a ciò che è suo. La morte improvvisa rappresenta ciò che non è suo, ovvero ciò che non è a sua disposizione, ciò che non può governare lui con la sua volontà.
“L’anima tua ti sarà ridomandata”: questa frase non è una minaccia, che vuole dirci che nel fare i nostri progetti dobbiamo fare i conti con la morte; essa piuttosto vuole dirci che nel fare i nostri progetti dobbiamo fare i conti con la vita e sapere ciò che conta veramente nella e per la nostra vita: «guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita».
La riflessione di oggi si ricollega a quella di venerdì sera sul primo comandamento: la colpa di quest’uomo è in fondo l’idolatria, egli fonda la sua vita sull’idolo della proprietà e da lì si aspetta la sua felicità.
E come dicevamo venerdì, dietro questa febbre del possesso e del possedere sempre di più, c’è in fondo l’idolatria di se stessi. L’uomo idolatra se stesso, desidera più di ogni altra cosa di essere felice con se stesso e pensa di poter ottenere questo attraverso i suoi beni.
E in questo non è cattivo, è stolto. Dobbiamo fare attenzione a come consideriamo il protagonista della parabola; la parabola non ci dice che l’uomo sia malvagio o ingiusto, non ci dice che le sue ricchezze siano frutto di azioni cattive o di ingiustizie. Magari l’uomo ha semplicemente lavorato duro e il raccolto è stato straordinariamente ricco.
Il “giudizio”, se così vogliamo dire, sull’uomo non è tanto un giudizio morale. Egli non ha trasgredito la legge e non ha fatto del male a nessuno. Non viene giudicato empio, malvagio; piuttosto l’uomo viene giudicato stolto, cioè sciocco.
Egli ha cercato la sua felicità e il senso della sua vita, laddove non c’è: nei beni. Questo indica la morte improvvisa: che la vita che quell’uomo si augurava non è dove egli la cercava. La vita va cercata altrove, e lungo tutto il suo ministero Gesù ha ripetuto più volte dove si trova la vita, nel duplice senso di senso della vita e anche di felicità.
Se Luca inserisce questo racconto nel suo vangelo, significa che la cupidigia e l’avarizia erano evidentemente problemi sentiti nelle prime comunità cristiane.
Le prime comunità erano probabilmente composte, forse in maggioranza, da poveri conquistati dal messaggio di liberazione di Gesù, ma anche da persone benestanti, come il contadino della parabola.
E probabilmente si era sperimentato che la cupidigia - oltre a essere causa o segno di ingiustizia sociale – rovinava la comunione all’interno della chiesa.
Ecco dunque la necessità di mettere alcune cose in chiaro: la vera vita è altrove, non nei beni materiali e nel loro accumulo.
Dove sia la vita, Gesù lo dice in molti altri passaggi e lo dice anche subito dopo questo racconto, quando fa ai suoi discepoli il famoso discorso sulle preoccupazioni, e dice loro di non essere in ansia per la loro vita ecc. (lo abbiamo letto nella versione di Matteo due domeniche fa).
La vera vita è nell’affidarsi a Dio, non nell’essere ansiosi; è nel donare, non nell’accumulare. La vera vita è nella libertà – per tornare ancora alla riflessione sul primo comandamento di venerdì sera – nella libertà dalla schiavitù dei beni materiali, che non vuol dire non possedere nulla, ma vuol dire essere contenti del necessario usare ciò che si ha nella riconoscenza e nella condivisione.
Ho usato il verbo “essere contenti” e non “accontentarsi” perché accontentarsi ha una sfumatura negativa, mentre essere contenti è positivo. Dio ci vuole contenti, non ci vuole frustrati! Ma ci insegna a essere contenti di ciò che è sufficiente, non di più.
E sopratutto ci insegna a cercare la vita – ovvero il senso della vita e la felicità – con gli altri, e non da soli. La solitudine dell’uomo della parabola colpisce, Gesù non dice esplicitamente che l’uomo è solo, ma lo descrive così: solo con se stesso.
«Quello che hai preparato, di chi sarà?» la domanda “per che cosa vivi?” sembra qui diventare “per chi vivi?” E non nel senso dell’eredità, perché come abbiamo detto nella parabola non è centrale la morte, che rovina i progetti dell’uomo, ma la vita che egli ha condotto fino a qui. Per chi vivi, qui ed ora?
Per chi vivi? Per i tuoi granai? Per dei beni? Per te stesso? Sei stolto, dice Gesù. Vivi per qualcuno, non per qualcosa. Vivi la tua vita con qualcuno, non da solo. Non da solo e non per te solo. Vivila alla presenza di Dio, sotto il suo sguardo, nell’orizzonte del suo perdono, nell’ascolto della sua Parola e non sarai solo.
Lì troverai i veri tesori, quelli che danno senso alla tua vita e la riempiono non di beni, ma di bene; non di ansia, ma di riconoscenza e di gioia per i doni che il Signore ci fa ogni giorno.
Non sarà ciò che accumuli e nemmeno ciò che fai, ma sarà ciò che ricevi che darà senso alla tua vita e ti renderà felice.
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