ERA
CIRCA LA DECIMA ORA
Letture:
1 Samuele 3,1-10; Giovanni 1,35-42
Cari
fratelli e sorelle,
La
domenica dopo la festa dell’Epifania, si rilegge tradizionalmente
nelle Chiese d’Occidente l’episodio del battesimo di Gesù
da parte di Giovanni Battista. Su ciò che avvenne dopo, gli
evangeli non concordano: secondo gli evangeli sinottici, Gesù
fu condotto nel deserto e fu tentato dal diavolo. Ma
quest’episodio è normalmente riletto all’inizio della
quaresima, nel tempo che ci prepara alla Pasqua, perciò si
legge solitamente, la domenica dopo il battesimo di Gesù, il
testo dell’evangelo secondo Giovanni che narra la chiamata dei
primi discepoli di Gesù. Questa vocazione riceve, come vedremo,
delle risonanze dalla chiamata di Samuele che abbiamo letto
come prima lettura.
Prima
però di vedere queste risonanze, vorrei sottolineare una
curiosa annotazione dell’evangelo. Dopo aver narrato
l’incontro di Gesù con i due discepoli di Giovanni Battista
che l’hanno seguito per vedere dove abitava, l’evangelista
conclude: “Era circa la decima ora”, vale a dire circa le
quattro del pomeriggio. A cosa serve questa indicazione
temporale? Forse m’incuriosisce questa frase perché sono
figlio di orologiaio, ma non è l’unica ragione!
Vi
sono nella nostra vita dei momenti – magari insignificanti per
gli altri – ma per noi decisivi; talmente decisivi che si sono
impressi nella nostra mente in modo indelebile. Li ricordiamo dicendo
ad esempio: “Me ne ricordo, come se fosse ieri”, oppure, per
sottolinearne l’importanza, si dice: “Mi ricordo
perfettamente: eravamo in quel bosco, o in quel luogo specifico”, o
ancora: “Ricordo, il cielo era nitidissimo”. Sono mezzi con i
quali cerchiamo di dire quanto un evento è stato per noi
assolutamente unico.
La
menzione di questa “decima ora” è di questo tipo. È un segnale
dato al lettore dell’evangelo per chiedergli di non passare troppo
rapidamente sull’episodio che ha appena letto, e per dirgli:
“Attenzione! C’è del senso da trovare in ciò che ho scritto!”
Ma allora, quale senso?
Ricordiamo:
Giovanni Battista ha designato Gesù, che era un suo discepolo, come
“l’agnello di Dio”. Questo titolo evoca la Pasqua, cioè la
liberazione dalla schiavitù d’Egitto: gli ebrei avevano
dovuto spargere il sangue di un agnello sugli stipiti delle loro
porte per essere risparmiati dall’ultima piaga. L’agnello era il
simbolo, l’immagine della liberazione. Ecco ciò che Giovanni
discerne in Gesù: è colui che viene a portare la liberazione e la
salvezza.
Andrea
e il suo compagno si mettono quindi a seguire Gesù che, voltatosi,
chiede loro: “Che cercate?”. Sorpresi, i due non sanno troppo
cosa dire: “Rabbi, dove dimori?” Per il lettore dell’evangelo,
questa domanda ha poco significato, sia perché il luogo dove
dimorava Gesù non ha per lui grande importanza, sia,
soprattutto, perché in realtà egli sa, non dove Gesù dimorava,
ma dove dimora:
il prologo dell’evangelo lo ha detto: “Nessuno ha mai visto
Dio. L’Unigenito che
è nel seno del Padre
lo ha rivelato”. Ecco la dimora di Gesù: non già una qualche casa
della Palestina, ma il seno del Padre: è là che Gesù abita ed è
proprio là che ha condotto i due discepoli quando ha detto
loro: “Venite e vedete!”
Ma
cosa significa vedere che Gesù dimora nel seno del Padre? Anzitutto
ciò dice la vicinanza di Gesù rispetto a Dio; è ciò che
esprimiamo con il titolo di Figlio: colui che nasce dal seno del
Padre è suo Figlio, non come lo può essere una creatura di Dio
qualunque, ma in un modo specifico, per cui pur essendo pienamente
uomo, come noi, egli è anche interamente Dio. Gesù è il
paradosso per eccellenza della fede cristiana; non un Dio
travestito da uomo o che fa finta di essere uomo, ma un Dio che
viene a condividere in tutto la nostra realtà umana fino alla morte
– e quale morte! Scandalo e follia per chiunque non crede.
Ma
dire di Gesù che dimora nel seno del Padre significa anche che egli
esce da lui. Ora cosa esce da Dio, se non la sua Parola? Proprio come
dice il Prologo dell’evangelo: il Cristo è la Parola di Dio,
Parola rivolta al Padre (vale a dire in dialogo con lui), ma
parola che s’indirizza a noi, esseri umani: non in una tempesta, né
con suono di tromba o di tamburo, ma che parla al nostro cuore,
con voce non lontana da noi, non al di là dei mari o dei monti, ma
vicinissima: nel cuore, proprio come la voce che chiamò: “Samuele,
Samuele”.
Samuele
non conosceva il Signore e perciò confonde la voce che lo chiama con
quella del vecchio sacerdote col quale viveva nel tempio di Silo.
Niente infatti distingueva la voce divina da una voce umana; già in
quella voce Dio si era fatto uomo. Ecco perché “la parola di Dio
era rara”: non già per scarsità, ma per il suo valore
preziosissimo; la Parola di Dio è più preziosa di una gemma,
appunto perché è parola di Dio indirizzata a noi, uomini.
Ma
se vi è una parola di Dio per noi, occorre ascoltarla: “Parla
Signore, il tuo servo ascolta!” Ecco una parola difficile,
perché vorremmo sempre dire esattamente il contrario: “Ascolta
Signore, perché il tuo servo parla”. Come possiamo ascoltare la
parola di Dio, di colui cioè che nessuno ha mai visto ma del quale
ci parla Gesù? Forse a due condizioni noi possiamo ascoltare questa
parola di Dio.
La
prima, assolutamente necessaria, è che occorre fare silenzio. Ora
questa è una delle cose più difficili oggi: siamo
costantemente assediati da mille rumori: le macchine, i computer,
gli apparecchi, tutto nella nostra vita è accompagnato da rumori.
Non si sopporta più il silenzio, perché il silenzio fa paura,
perché ci fa credere di essere soli, mentre in realtà è proprio in
quel silenzio che non siamo soli. Soli si è in mezzo ai rumori o
alle folle: più gridano più dicono la nostra solitudine! Nel
silenzio invece, stiamo davanti al Dio tre volte misericordioso
che ci ribadisce ciò che sempre vuol farci capire: “Io ti amo, ti
amo più di me stesso”.
Fratelli
e sorelle, questa proprio è la vocazione; non tanto uno scopo
da raggiungere o una missione da compiere, ma prima di tutto essere
raggiunti da questa voce che ci dice l’amore infinito di Dio per
noi e lasciarsi persuadère che davvero questa è la nostra
situazione davanti a Dio.
La
seconda condizione è data dal fatto che Andrea non è solo: sta con
un compagno anonimo, compagno quindi che possiamo essere noi. Se la
Parola di Dio si ascolta nel silenzio, la si ascolta anche
insieme a quelli che sono stati chiamati come noi: insieme nella
ricerca di Dio, nella vita fraterna e nella comune lettura della
Scrittura, luogo per eccellenza dove la Parola di Dio ci
vuol raggiungere. Il silenzio non impedisce, anzi favorisce la
comunione: comunione nell’ascolto e nella gioia di scoprirci figli
e figlie di Dio in Gesù, colui che è, come lo dirà più avanti
nell’evangelo di Giovanni, la via – il nostro cammino – e la
nostra vita. A Lui la lode e la gloria per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
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