Galati
2,16-21
(11
Ma quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistei in faccia perché era
da condannare. 12
Infatti, prima che fossero venuti alcuni da parte di Giacomo, egli
mangiava con persone non giudaiche; ma quando quelli furono arrivati,
cominciò a ritirarsi e a separarsi per timore dei circoncisi. 13
E anche gli altri Giudei si misero a simulare con lui; a tal punto
che perfino Barnaba fu trascinato dalla loro ipocrisia. 14
Ma quando vidi che non camminavano rettamente secondo la verità del
vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei giudeo,
vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai
costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?»
15 Noi Giudei di nascita, non stranieri peccatori,)
15 Noi Giudei di nascita, non stranieri peccatori,)
16
sappiamo che l'uomo non è giustificato per le opere della legge ma
soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù, e abbiamo anche noi
creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo
e non dalle opere della legge; perché dalle opere della legge
nessuno sarà giustificato. 17
Ma se nel cercare di essere giustificati in Cristo, siamo anche noi
trovati peccatori, vuol dire che Cristo è un servitore del peccato?
No di certo! 18
Infatti se riedifico quello che ho demolito, mi dimostro
trasgressore. 19
Quanto a me, per mezzo della legge, sono morto alla legge affinché
io viva per Dio. 20
Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella
fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per
me. 21
Io non annullo la grazia di Dio; perché se la giustizia si ottenesse
per mezzo della legge, Cristo sarebbe dunque morto inutilmente.
1.
Eccoci qui al centro di quello che potremmo chiamare l’“evangelo
secondo Paolo”: la giustificazione per fede. La seconda metà del
capitolo 2 della lettera ai Galati è quella in cui Paolo enuncia la
sua interpretazione dell’evangelo, utilizzando appunto
l’espressione “giustificazione per fede”.
Paolo
prende spunto da un “incidente diplomatico” che era avvenuto tra
lui e Pietro e che racconta ai Galati nei versetti che abbiamo
ascoltato: Pietro e Paolo erano ad Antiochia, una città fuori dalla
Palestina importante per la prima generazione cristiana, perché da
lì partivano le missioni in terra pagana.
Pietro
era venuto ad Antiochia da Gerusalemme e si era adattato all’uso
per cui tutti i cristiani mangiavano insieme, non si faceva più
distinzione tra cristiani provenienti dall'ebraismo, come Pietro e
Paolo appunto, e cristiani provenienti dal paganesimo.
La
legge di Mosè diceva che bisognava evitare la comunione di mensa con
i pagani e nei primi anni del cristianesimo a Gerusalemme questa
legge valeva anche nei confronti dei pagani convertiti al
cristianesimo.
Pietro
invece, ad Antiochia, si sente libero di mangiare con loro. Ma quando
arriva qualcuno da Gerusalemme, non sappiamo bene se in visita o con
lo scopo di controllare come vanno le cose ad Antiochia, Pietro fa un
passo indietro, non mangia più con i cristiani provenienti dal
paganesimo. Rompe la comunione di mensa con loro.
Paolo
davanti a questo atteggiamento si arrabbia moltissimo e lo rimprovera
pubblicamente. Il testo indicato per oggi, è quello in cui Paolo
spiega perché questo passo indietro di Pietro è stato per lui così
grave.
Qui
Paolo dice che è una questione di fede: c’è una ragione ben
precisa per cui Pietro sbaglia a rompere la comunione di mensa con i
cristiani provenienti dal paganesimo: la ragione è il fatto che
siamo giustificati per fede e non per opere e quindi non è più la
legge che determina la nostra vita.
Pietro
ha fatto il suo passo indietro per timore del giudizio di quelli di
Gerusalemme, perché così facendo non aveva osservato la legge. Ma
non è l’osservanza della legge che ti salva, dice Paolo, è la
fede nella grazia.
Non
è il tuo sforzo di essere perfetto che ti salva, ti salva l’amore
di Dio che ti ama imperfetto; anzi non solo imperfetto, ma colpevole.
Tutti
siamo d’accordo nel dire che non siamo perfetti, ma il discorso
biblico è molto più radicale: siamo colpevoli, siamo
responsabilmente colpevoli e questa colpa non può essere “espiata”
dalla nostra obbedienza, ma può solo essere perdonata dalla grazia
di Dio.
L’obbedienza
seguirà la grazia, sarà una conseguenza, una reazione alla grazia,
non una condizione alla grazia.
Questa
è la cosiddetta “dottrina della giustificazione per fede”, che
come vediamo per Paolo è tutt’altro che una teoria, ma ha
conseguenze molto, molto pratiche: è quella che, per esempio,
permette la comunione tra i cristiani provenienti dall’ebraismo e i
cristiani provenienti dal paganesimo. È quella che lo spingerà a
dichiarare l’uguaglianza di tutti gli esseri umani in Cristo.
La
dottrina della giustificazione per fede è stata rimessa al centro
della riflessione dalla Riforma. Su questo vorrei solo leggervi una
frase di un biblista cattolico, che mi sembra molto importante:
La
giustificazione per fede non è un’idea dei protestanti, è l’idea
della rivelazione, del Nuovo Testamento, è la proposta di Gesù
Cristo. Per essere cristiani bisogna condividerla. Se l’abbiamo
dimenticata e trascurata, abbiamo fatto male, dobbiamo recuperarla!
L’essenza stessa del vangelo è la persona di Gesù e l’opera da
lui compiuta; Paolo lo ha “solo” chiarito. (Claudio
Doglio)
2.
Paolo sa che questa sua idea incontra molte obiezioni e allora se ne
pone una lui stesso, anticipa una critica che probabilmente gli è
stata mossa più volte: «Ma se nel cercare di essere giustificati
in Cristo, siamo anche noi trovati peccatori, vuol dire che Cristo è
un servitore del peccato?»
Detto
in altre parole: se Cristo giustifica il peccatore, vuol dire che
allora peccare va bene e che anzi la dottrina della giustificazione
diventa addirittura un incentivo a peccare? È un’obiezione molto
comune: se in Cristo il mio peccato è giustificato, allora posso
tranquillamente peccare, il peccato non è più un problema!
La
risposta di Paolo è netta: «No di certo!». Chi fa questa
obiezione fraintende completamente la giustificazione per fede: Dio
giustifica – cioè perdona – il peccatore, non il suo peccato. Il
peccato è condannato, il peccatore è salvato.
Il
peccato rimane un problema, eccome! Rimane un grave problema, rimane
condannato. È il peccatore che non è condannato, è giudicato –
perché è peccatore e quindi è giudicato peccatore – e la
sentenza è: colpevole!
Colpevole,
ma graziato: questo è ciascuno e ciascuna di noi. Lo straordinario
non è che siamo colpevoli: questa è la norma, quante volte feriamo
il nostro prossimo, lo giudichiamo, lo ignoriamo, lo emarginiamo, lo
trattiamo diversamente da come Cristo vorrebbe. Questa è
l’ordinario.
Lo
straordinario è che se ci riconosciamo colpevoli, se ci riconosciamo
meritevoli di condanna, la condanna non c’è. C’è la sentenza:
colpevole! Ma c’è la grazia: colpevole graziato, dunque libero!
Pietro
era libero di mangiare con i cristiani provenienti dal paganesimo e
quando ha fatto quel passo indietro per una umanissima paura ha
rinunciato alla libertà che Cristo gli aveva dato. Per questo Paolo
si arrabbia così tanto.
La
colpa di Pietro è umanissima, non dobbiamo certo accanirci contro
Pietro perché Pietro siamo noi: quante volte temiamo il giudizio
altrui, quante non siamo completamente liberi?
La
colpa di Pietro è, per mancanza di libertà, quella di rompere la
comunione con altri cristiani. Pietro, rinunciando alla sua libertà,
«riedifica» ciò che Cristo ha demolito e questa è la sua colpa.
3.
La seconda parte del brano è tutta incentrata sulle parole vita –
morte. Sono frasi un po’ ermetiche, su cui gli studiosi dibattono
molto … «sono morto alla legge affinché io viva per Dio»:
non vivo più per la legge, ovvero non è più l’osservanza della
legge che mi dà la vita, la vita me la dà Dio, in Cristo.
La
legge non mi dà la vita e non è nemmeno più lo
scopo della mia vita. L'origine
e il senso della mia vita,
delle mie scelte piccole e grandi non è più nella legge, ma in
Cristo, cioè nella grazia e dunque nella gratuità. Non nel
tornaconto sta la ragione
delle mie scelte, ma nella gratuità.
E
poi prosegue in modo ancora più paradossale: «Sono stato
crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me!». È un’immagine, per
dire che la mia vita non è più mia. Non è più mia perché è
stata riscattata dalla morte
di Cristo, e dunque mi
è stata ri-donata, è come se fossi ri-nato, quindi è una nuova
vita che non vivo più da solo, ma che
vivo con Cristo che vive in
me, che con il suo Spirito e la sua Parola vuole entrare in me e
trasformare la mia esistenza.
E
poi Paolo torna con i piedi per terra: «La vita che vivo
ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha
amato e ha dato se stesso per me».
Io vivo la mia vita nella
carne, cioè nella mia piena umanità, come tutti gli esseri umani
(nel caso che la frase «Cristo vive in me»
potesse far pensare a qualcuno che la vita dei credenti fosse diversa
da tutte le altre).
Ma
questa vita che vivo nella carne, esattamente come tutti gli esseri
umani, la vivo nella fede. Per questo è nuova, è nuova ogni volta
che riesco a vivere nella fiducia, a vivere di fiducia. È la fiducia
che fa la differenza, è la speranza che fa la differenza e rende la
vita del credente diversa da una vita senza fiducia e senza speranza.
E
che cos’è che dà fiducia e dà speranza? In chi è riposta
questa fiducia? «nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e
ha dato se stesso per me». Pare
sia l’unico passo del NT in cui venga detto che Cristo «ha
dato se stesso per me», al
singolare.
Cristo
è morto e risorto per tutti/e, quindi è morto e risorto per me, e
per te, personalmente. Il fatto che sia morto per tutti non sminuisce
il fatto che sia morto per me e
per te.
In
colui che è morto per me ripongo la mia fiducia, dice Paolo. E
dicendo questo vuole che anche tu riponga la tua fiducia in colui che
è morto per te.
4.
Nell’ultima frase Paolo
ritorna al punto centrale,
quello che sta discutendo con i Galati sulla base dell’esempio di
ciò che è accaduto con Pietro ad Antiochia: «Io non
annullo la grazia di Dio; perché se la giustizia si ottenesse per
mezzo della legge, Cristo sarebbe dunque morto inutilmente».
Cristo
è morto per me, ha appena detto Paolo. È questo sufficiente per la
mia salvezza? Il fatto che Cristo è morto per te è sufficiente per
la tua salvezza?
Se
non fosse sufficiente, dice Paolo, se ci volessero ancora le opere
della legge, se la morte di Cristo non bastasse, ciò vorrebbe dire
che Cristo è morto inutilmente.
Se
alla croce io devo ancora aggiungere le mie opere, allora la morte di
Cristo non basta. È una delle affermazioni più sintetiche
dell’apostolo Paolo riguardo
alla conseguenza del rifiuto
della “dottrina” della giustificazione per fede: se la croce non
basta, la morte di Cristo è stata inutile.
Non
ci sono vie di mezzo: o la mia salvezza dipende da me oppure dipende
da Cristo. Una terza via non c’è. O Dio ha fatto tutto, oppure, se
ciò che Dio ha fatto in Cristo non basta, è come se non avesse
fatto nulla, perché, di fatto, non basta.
Paolo
ritorna al punto centrale che era appunto la giustificazione per fede
e dunque la libertà. Se Dio ha fatto tutto per la mia salvezza, sono
libero. Se Dio non ha fatto tutto per la mia salvezza non sono
libero, sono prigioniero della necessità di salvarmi con le mie
opere.
Se
invece Dio ha fatto tutto, sono libero. Libero prima di tutto di
riconoscere la mia colpa, di farci i conti e di elaborarla. Se invece
devo salvarmi da solo, rischio di rimuovere la mia colpa e di pensare
di poterla cancellare con qualche buona opera.
Ma
se è la grazia di Dio che mi salva, la mia colpa non mi schiaccia
più e posso quindi
innanzitutto portarla davanti
a Dio senza paura, e poi posso affrontarla e cercare di elaborarla
chiedendo perdono non solo a Dio ma anche
a chi ho fatto del male.
Ecco
qui dunque il centro dell’evangelo così come ce lo presenta
l’apostolo Paolo: l’evangelo della grazia, l'evangelo della
libertà, l'evangelo della fiducia nel Dio che ha fatto tutto per la
nostra salvezza, ovvero per darci una vita nuova, in cui siamo ogni
giorno messi davanti alla
nostra colpa e al nostro perdono, alla
condanna da un lato e alla grazia dall’altro.
Nella
certezza che la grazia è più forte della colpa e quindi anche
della condanna e che così Dio ci
grazia, appunto, e ci offre
ogni giorno una nuova possibilità di vita nella
libertà e nell’obbedienza.
Il
Signore ci dia di ricevere questo evangelo con riconoscenza e con
gioia.
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