Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. E, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. E il tentatore, avvicinatosi, gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani». Ma egli rispose: «Sta scritto: "Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio"».
Allora il diavolo lo portò con sé nella città santa, lo pose sul pinnacolo del tempio, e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; poiché sta scritto:
"Egli darà ordini ai suoi angeli a tuo riguardo,
ed essi ti porteranno sulle loro mani,
perché tu non urti con il piede contro una pietra"».
Gesù gli rispose: «È altresì scritto: "Non tentare il Signore Dio tuo"».
Di nuovo il diavolo lo portò con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, dicendogli: «Tutte queste cose ti darò, se tu ti prostri e mi adori». Allora Gesù gli disse: «Vattene, Satana, poiché sta scritto: "Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto"».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli si avvicinarono a lui e lo servivano.
Gesù sta per iniziare la sua opera nel mondo. Egli si è fatto battezzare da Giovanni ed al Giordano il Signore ne ha pubblicamente riconosciuto la paternità; tutto sembrerebbe compiuto perché Egli inizi il suo viaggio messianico….Ma Gesù sa di essere vero uomo, oltre che vero Dio,. Egli sa quale destino altissimo, frammisto di morte e di gloria lo attende e, come uomo vuole concedersi un momento di riflessione per meglio comprendere il suo essere Figlio di Dio.
Egli si ritira nel deserto per 40 giorni per purificarsi e meditare, digiunando e pregando, per predisporre corpo e spirito a quanto lo attende.
Nella Sacra Scrittura il deserto ha una sua doppia valenza; è qualcosa che va affrontata per fortificare lo spirito: è quindi una prova di difficoltà materiale e di solitudine spirituale, ma è anche una via per accedere alle promesse del Signore. Infatti in Esodo, il popolo di Israele deve affrontare il deserto per passare dalla schiavitù d’Egitto alla libertà della terra promessa.
Qui Dio sigilla il Patto con il suo popolo e qui ve lo trattiene per 40 anni per punirlo delle sue trasgressioni.
Così Gesù, per condurci come Messia nella nuova terra promessa che è il Regno di Dio, deve passare per il suo deserto. I 40 giorni che Egli vi trascorrerà sono un tempo simbolico. Questi 40 giorni come pure i 40 anni del Popolo d’Israele nel deserto significano un periodo abbastanza lungo ma ben definito. Nel caso di Israele questo tempo servirà perché si estingua la generazione che ha mormorato e si è resa colpevole di idolatria ed un popolo nuovo, fiducioso e obbediente al Signore, veda l’adempimento della promessa.
Per Gesù i 40 giorni sono un tempo abbastanza lungo per riflettere sulla sua missione e trarne forza per affrontarla con completa fiducia e obbedienza al Padre.
Allo scadere di questo tempo, quando il Cristo è provato da lungo digiuno e dalla lunga solitudine. Appare il secondo protagoniste di questo episodio che Matteo ci presenta tout court come “il Diavolo”. Egli si adopererà in quello per cui è ritenuto un vero maestro: cercherà di indurre in tentazione Gesù. Lo provocherà insinuandosi nelle pieghe più vulnerabili dell’animo umano. Il Diavolo, l’Avversario entra ancora una volta in competizione con il Signore. Egli sa quanto sia importante la posta in gioco e che questo è un momento perfetto per agire. Se il Figlio di Dio, cedendo alla tentazione, facesse prevalere la sua natura umana, quella divina sarebbe sconfessata e tutto il piano della Salvezza non potrebbe essere portato a termine. Il Diavolo che, alle origini, ha sporcato, con il peccato di superbia e disobbedienza, la perfetta creatura creata da Dio, facendo in modo che l’uomo fosse allontanato dal suo creatore e conoscesse la sofferenza e la morte, esule sulla terra, ora non vuole permettere che l’infinita misericordia di Dio riacquisti al suo amore l’umanità attraverso il Suo Unigenito Figlio.
Perciò Satana ci prova nel deserto e ci riproverà ai piedi della Croce.
Il Diavolo tenta Gesù in tre assalti che corrispondono alle tre interpretazioni del messianismo secondo la sua visione. Per Satana essere “Figlio di Dio” significa avere un potere sconfinato e quindi poterne approfittare per compiere ogni specie di miracolo a suo beneficio. Per Gesù invece significa, al contrario, confidare completamente in Dio, essere lo strumento della volontà del Padre anche in situazioni estreme, lasciando a Lui solo il potere di operare.
“Se sei figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane” provoca Satana. La prima tentazione vuole distruggere il volto dell’uomo; l’uomo, secondo Satana, è ciò che mangia. L’uomo è anche molto debole se lo si tocca nei suoi bisogni fondamentali, come il bisogno di cibo…. E l’uomo Gesù non ha forse fame? Ma Gesù ribatte che l’uomo, poiché è anche una creatura spirituale, ha bisogno per vivere della parola del Signore che gli indichi la via e lo faccia partecipe del Suo Amore.
La seconda è la tentazione di in messianismo spettacolare; l’esibizione di un miracolo come quello degli Angeli che sostengano Gesù in caduta libera dal pinnacolo del Tempio, avrebbe dimostrato a tutti la potenza del Cristo. Questa tentazione mira a distruggere il vero volto di Gesù come Messia. E Gesù risponde che la sua vera missione non è l’esibizione di potenza ma di fiducia ed obbedienza al Padre. E la vera fiducia in Dio si esprime quotidianamente non chiedendo al Signore eventi eccezionali per metterne alla prova la potenza.
Quest’ultimo tipo di tentazione è simile a quella che verrà per bocca dei capi sacerdoti con gli scribi e gli anziani sotto la Croce: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Da che è il Re d’Israele, scenda ora giù di croce e noi crederemo in lui” (Matteo 27,42).
Infine la terza è la più grande tentazione che scopre il volto arrogante del Demonio; egli si dichiara re del mondo, disposto a riconsegnarlo a Cristo in cambio del riconoscimento della propria regalità contro quella di Dio. Questa è la tentazione del potere ed anche dell’idolatria, qui Satana suggerisce che, per ottenere il potere, ci si può abbassare ad ogni compromesso, si può piegare il ginocchio davanti all’essere più immondo.
Gesù con una secca risposta ribadisce la sua fedeltà al Padre ed al primo Comandamento: “Sta scritto adora il Dio tuo ed a lui solo rendi culto”.
La tre tentazioni sono state un crescendo, la materia sopra lo spirito; il messianismo di potenza sopra la Croce; Satana sopra Dio. Un crescendo che Matteo esprime anche attraverso il nome dato a l Demonio: al versetto 3 l’Anti-Cristo è presentato come “il Tentatore”, al versetto 5 come “il Diavolo”, il divisore che si mette in mezzo tra Gesù e Dio; al versetto 10 come Satana, il nemico, l’avversario.
Ma anche la risposta di Gesù è un crescendo vigoroso, colpo su colpo. Egli non discute con il Demonio ed usa l’arma più efficace contro di lui, la parola del Signore. Il perentorio “sta scritto” è ridetto tre volte ad indicare l’assolutezza della Parola di Dio, eterna e immutabile. Parola che crea e dà vita; che tutto riporta al primato assoluto di Dio; guida sicura per il credente, in ogni occasione di paura, di sofferenza, di dubbio o di tentazione.
Il racconto delle tentazioni di Gesù ha un profondo significato nella vita dei credenti. Esso infatti ci fa riflettere sui rischi, sugli inciampi in cui può incorrere chi si inoltra per il difficile cammino della fedeltà al Signore. Abbiamo un bel arduo compito noi che “non siamo del mondo” ma siamo chiamati a vivere nel mondo, perché Satana, il tentatore, l’avversario “va avanti e indietro sulla terra e la percorre su e giù” come si legge in Giobbe 1.7.
Oggi ho colto questo tema di predicazione perché in questo racconto, l’opera del demonio ci è narrata con una tale chiarezza che non permette fraintendimenti.
In questo stesso luogo, tempo addietro, ebbi a contestare vivamente l’inesistenza del Diavolo, proprio, il particolare, parlando di questo episodio narrato nei Vangeli. E’ troppo facile liquidare l’esistenza di questo spirito malvagio ridicolizzando le vecchie iconografie che ce lo mostravano come un capro con il forcone pronto ad infilzare i peccatori o a prendersi svaghi sessuali con le streghe. Sappiamo tutti che queste son cose da medioevo. E’ troppo facile, per dimostrare l’inesistenza del Demonio, appellarsi alle superstizioni, allo spiritismo, all’uomo-nero, spauracchio dei bambini. Sappiamo tutti che queste cose fanno parte della paura antica dei popoli e dell’ignoranza. Vorrei che chi sostiene queste tesi portasse elementi più seri teologicamente parlando.
La Parola del Signore è quello a cui attenersi; penso personalmente che si dovrebbe leggerla né in modo fondamentalista né, all’opposto, in modo storico-scientifico, bensì aprendo il cuore all’illuminazione dello Spirito Santo che è il solo in grado di aiutarci a dipanare qualche passo o qualche simbolismo troppo arduo o controverso, tenendo soprattutto ben presente di esercitare in tutto ciò l’umiltà per poter anche ammettere, a volte, che certe cose della Scrittura appaiano illogiche secondo una logica umana, o strane, o incomprensibili, o contraddittorie. Non tutto ci è dato di conoscere e di capire; ne si può accettare solo ciò che ci piace o ci fa comodo o risponde meglio alla cultura dei nostri tempi.
Nell’Antico Testamento il Satana è menzionato con il suo nome come accusatore dell’uomo in Giobbe 1.6 e a seguire; in Zaccaria 3.1,2 e in 1° Cronache 21.1 come istigatore di Davide. Nel N.T. in Atti e nelle Epistole egli è nominato moltissime volte e sia Gesù che gli Apostoli più volte ci esortano a vigilare per non cadere sotto i suoi assalti. Per il Diavolo, convincere che non esiste è una strategia vincente; se non c’è non si deve neppure stare attenti a difendersi da lui. Anche ironizzare, quando si parla di lui, porta acqua al suo mulino, perché la persona che si sente presa in giro perché ne parla o offre una testimonianza vissuta a suo riguardo, ben presto cesserà di farlo per paura del ridicolo o di essere considerato pazza..
Gesù non ha avuto riguardo di parlare apertamente del “grande accusatore”, lo ha affrontato più volte sconfiggendolo, ed il Signore, attraverso le profezie, ci ha rivelato la sua ultima fine..
C’è un “no” da dire fermamente, necessario, in ogni lotta contro il male; un “no” al non riconoscere falsi dottori, falsi profeti, false dottrine che ci propongono più attraenti o comode risposte ai nostri perché esistenziali.
In questo periodo storico è tutto un fermento di nuove dottrine salvifiche che fanno capo o alla filosofia New-Age o a guru spirituali che sorgono numerosi come funghi, nuove chiese, nuove sette, libri-culto (parlo per esempio delle “Profezie di Celestino”), promettono di estinguere la sete spirituale dell’uomo oggi travolto da una società ed una cultura sempre più lontana dal proporgli modelli vivibili. E poi tutto va bene,, tutto fa brodo, “ma si, poi, in fondo un’energia suprema uguale per tutti ci governa” ecc..ecc..Ma Gesù ha detto “IO sono la la via la verità e la vita”. Se tutte le verità van bene e sono buone perché ci è stato detto di evangelizzare, far conoscere la buona novella del Cristo Risorto? Dovremmo discernere ed essere vigili.
Le grandi chiese storiche cristiane hanno le loro colpe per versi opposti. La cattolica conservando gelosamente le scritture, riservandole ai sacerdoti, e fondando la fede su ciechi dogmi. L’evangelica portando all’eccesso la libera interpretazione della Parola.
Mi è accaduto, parlando con cattolici per solo battesimo, alla ricerca, in buona fede, di esoteriche vie salvifiche, di dir loro: “Ma scusami, tu il Vangelo lo hai mai letto o, per lo meno lo hai letto con intendimento? C’è già tutto quello che cechi, li dentro; dove stai cercando così lontano?!” Il mio interlocutore, di solito, reste un po’ interdetto, come se a questo non ci avesse mai pensato. Il Vangelo ce l’ha ma non sa più dove lo ha messo e comunque non l’ha letto o poco o male.
Sulla polvere che si è deposta su tutti quei Vangeli non mi è difficile scorgere l’impronta dell’Avversario. Provocatoriamente potrei dirvi che ci vedo proprio l’orma di un piede di capra….sì perché poco mi importa di sovrastrutture, vecchie credenze o altro.
Personalmente non smetterò mai di parlare del Diavolo, né ho paura, se ne vengo richiesta, di additare la sua visibile opera o la sua chiara presenza o di raccontare le mie personali esperienze. A volte ho parlato di questo argomento anche con dottori in teologia in campo evangelico, certamente molto più dotti di me, e mi è parso proprio non dico di essere riuscita a mutare la loro opinione sulla esistenza del Diavolo, ma di aver almeno insinuato pià che nella loro mente, nei loro cuori, un ragionevole dubbio, che è andato ad aggiungersi ai già numerosi dubbi che li affliggono a furia di rivoltare, rigirare, reinterpretare e ridiscutere la Parola del Signore. Un giorno, un Pastore mi ha detto: “ A furia di mettere in dubbio la reale esistenza di questo e di quello, di scegliere cosa va bene come messaggio per oggi e non per ieri ed altro ancora del Libro della Parola non ci resterà che la copertina!” Io spero proprio che ciò non debba accadere mai perché è proprio quello che Satana si aspetta. Perciò prego e vi esorto a pregare, sorelle e fratelli con le parole che Gesù ci ha insegnato: “Signore, non ci esporre alla tentazione ma liberaci dal Maligno”.
lunedì 23 febbraio 2015
Predicazione di domenica 15 febbraio 2015 su Galati 5,13-14 in occasione del ricordo della concessione dei diritti civili ai valdesi il 17 febbraio 1848 a cura di Marco Gisola
Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un'occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell'amore servite gli uni agli altri; poiché tutta la legge è adempiuta in quest'unica parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso».
Oggi siamo qui per ringraziare il Signore per il dono della libertà. Da più di centosessanta anni, da quel diciassette febbraio 1848 le chiese valdesi e in Italia non solo le chiese valdesi, ma anche le chiese metodiste e battiste, si fermano per ricordare quella data.
Nelle valli valdesi lo si fa il giorno diciassette febbraio stesso; si fa il culto, l’agape fraterna, la sera i gruppi giovanili offrono una rappresentazione teatrale, mentre la sera prima ci si riunisce a cantare intorno ai falò. C’è chi prende un giorno di ferie per partecipare alla giornata, c’è chi chiude il negozio.
Perché tutto questo? Perché tutta questa importanza e tutto questo impegno per una festa che in fondo non è una festa cristiana, nel senso che non ricorda un momento della vita di Gesù come il Natale o la Pasqua, ma è una festa che ricorda un evento civile e politico? Forse perché Carlo Alberto di Savoia, un sovrano di un piccolo stato come il regno di Sardegna, concesse i diritti civili ai valdesi e poche settimane più tardi agli ebrei?
No, care sorelle e cari fratelli, non è il gesto generoso di un re che festeggiamo oggi. Anzi a dire il vero noi non festeggiamo proprio nulla; noi rendiamo grazie e lode a Dio in questo culto di ringraziamento, e solo in questo senso si può parlare di festa del XVII febbraio.
Noi oggi ringraziamo il Signore che ha trasformato quell’evento storico e politico nell’occasione per i valdesi di cogliere e di vivere la loro vocazione di credenti “chiamati a libertà”, come dice l’apostolo Paolo. Noi ringraziamo il Signore che ha illuminato quella generazione di valdesi e ha fatto loro capire che quell’evento poteva, anzi doveva essere l’occasione per iniziare a predicare l’evangelo nell’Italia che stava per diventare uno Stato unito.
E questo non era scontato. Innanzitutto non era previsto dalle stesse lettere patenti di Carlo Alberto: lo avrete già sentito dire molte volte, ma lo ripetiamo ancora, per evitare equivoci: le lettere patenti dicevano questo:
“I valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle università ed a conseguire i gradi accademici. Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”. Quella concessa da Carlo Alberto fu libertà civile e non libertà di culto.
E il fatto di andare a predicare al di fuori del ghetto delle valli non era scontato nemmeno per tutti i valdesi. C’era chi si sarebbe accontentato di vivere finalmente la libertà all’interno dell’antico ghetto, c’erano coloro per cui la libertà civile era un punto di arrivo e non di partenza, che si sarebbero accontentati di poter praticare il culto riformato finalmente senza problemi all’interno delle loro valli.
A questa situazione possiamo applicare le parole di Paolo: “voi siete stati chiamati a libertà, soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne…”; questo vivere secondo la carne lo possiamo oggi interpretare, alla luce del 1848, come accontentarsi di ciò che si è ottenuto e non cercare più altro. Fare della libertà un’occasione per vivere secondo la carne può voler dire dimenticare che si è ancora sempre chiamati a libertà, vuol dire che dentro e dietro ad una libertà ottenuta, c’è sempre ancora una libertà da ottenere.
Questa fu l’intuizione dei valdesi di allora: quella di capire che non ci si poteva accontentare della libertà civile, ma che dietro la libertà civile si doveva andare a cercare la libertà di culto; per questo partirono verso la pianura e le città dell’Italia, dal nord al sud; per questo, appena fu possibile, entrarono in Roma con i loro carretti di Bibbie e libri. La libertà civile non era un punto di arrivo, era il punto di partenza per vivere la libertà, quella vera, la libertà dei figli di Dio e testimoniarla a tutto il paese.
La generazione dei valdesi del 1848, ha detto una volta il pastore Giorgio Tourn, fu una generazione che osò sognare, una generazione che non si è accontentata di ciò che aveva ottenuto, ma osò sognare per sé e per gli altri. Osò sognare molte cose, fra cui anche quella che si rivelò poi una pia illusione, e cioè che l’Italia non avrebbe aspettato altro che la predicazione del puro evangelo, che gli italiani non avrebbero chiesto altro che di passare dalla chiesa cattolica alle chiese della Riforma.
Non andò così, ma non importa; quello che importa è che molti lasciarono le loro valli con questo sogno, per andare a costruire chiese e scuole, e cioè per andare a fare proprio quello che secondo le Lettere Patenti non avrebbero dovuto fare.
Accontentarsi di ciò che si è ottenuto può essere un’occasione per vivere secondo la carne, per sprecare la libertà di cui si gode: questo è il messaggio che ci giunge da queste parole di Paolo lette alla luce del XVII febbraio 1848.
Ora in questi quasi centosettant’anni, noi abbiamo ottenuto ancora molto di più: come valdesi italiani abbiamo un accordo con lo Stato, le Intese, abbiamo l’otto per mille; e più otteniamo e più è grande il rischio di accontentarsi, di riposare sull’esistente.
Ma siamo ancora sempre chiamati a libertà, e siamo chiamati a tradurre questa libertà in precisi atteggiamenti nella nostra società, a partire da questioni come il pluralismo e la laicità, e oggi forse in modo del tutto particolare, siamo chiamati a usare la nostra libertà per impegnarci a contrastare ogni tipo di fanatismo, soprattutto religioso.
Ma un altro grave errore sarebbe quello di pensare alla libertà solo per noi stessi. “Vivere secondo la carne” significa vivere a partire da se stessi e per se stessi, vivere secondo i propri bisogni o i propri desideri, e dimenticarsi degli altri. Nel centocinquantesimo anniversario delle lettere patenti la Federazione delle chiese evangeliche in Italia intitolò la settimana della libertà – settimana che prende spunto dal XVII febbraio – “la libertà degli altri”. Non accontentarsi della libertà ottenuta non significa solo continuare a lottare per la propria libertà, significa anche non accontentarsi di ottenere qualcosa per sé e basta, di pensare alla propria libertà e basta.
Siamo chiamati a libertà, dice Paolo. Siamo chiamati alla nostra libertà e siamo chiamati anche alla libertà degli altri. La libertà è la nostra vocazione, ma non soltanto la nostra libertà, bensì la libertà di tutti e di ognuno.
Forse oggi come chiese valdesi in Italia abbiamo molti problemi e pochi sogni. Molti problemi soprattutto economici, e pochi sogni in cui tuffarsi/lanciarsi. Troppo schiavi dei nostri problemi, non siamo liberi di sognare, come i cristiani dei primi tempi, come i valdesi del 1848.
Ma Dio continua a chiamarci a libertà, alla nostra libertà e alla libertà degli altri. Che le chiese siano strumenti di questa libertà è un sogno per il quale vale la pena di lottare e lavorare. Che le chiese siano strumenti di unità fra i cristiani e non di divisione è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Che le chiese siano uno strumento di riconciliazione tra le religioni, contro ogni fondamentalismo e fanatismo, che siano disponibili al dialogo con chi crede diversamente, per conoscere gli uni la fede gli altri, nel rispetto reciproco, è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Che le chiese siano una voce che chiede giustizia per questo mondo così lacerato e ferito e per le vittime dello sfruttamento economico e delle troppe guerre, che chiede giustizia per i migranti che fuggono dai loro paesi in cerca di una vita migliore, rischiando di non arrivarci mai, ma di morire lungo il viaggio, è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Tutto ciò è la vocazione che il Signore ci rivolge per mettere a frutto il prezioso dono della libertà e che ci chiede di far diventare il nostro sogno.
Che il Signore continui anche oggi e ogni giorno a chiamarci alla sua libertà e a farci sognare i suoi sogni.
Oggi siamo qui per ringraziare il Signore per il dono della libertà. Da più di centosessanta anni, da quel diciassette febbraio 1848 le chiese valdesi e in Italia non solo le chiese valdesi, ma anche le chiese metodiste e battiste, si fermano per ricordare quella data.
Nelle valli valdesi lo si fa il giorno diciassette febbraio stesso; si fa il culto, l’agape fraterna, la sera i gruppi giovanili offrono una rappresentazione teatrale, mentre la sera prima ci si riunisce a cantare intorno ai falò. C’è chi prende un giorno di ferie per partecipare alla giornata, c’è chi chiude il negozio.
Perché tutto questo? Perché tutta questa importanza e tutto questo impegno per una festa che in fondo non è una festa cristiana, nel senso che non ricorda un momento della vita di Gesù come il Natale o la Pasqua, ma è una festa che ricorda un evento civile e politico? Forse perché Carlo Alberto di Savoia, un sovrano di un piccolo stato come il regno di Sardegna, concesse i diritti civili ai valdesi e poche settimane più tardi agli ebrei?
No, care sorelle e cari fratelli, non è il gesto generoso di un re che festeggiamo oggi. Anzi a dire il vero noi non festeggiamo proprio nulla; noi rendiamo grazie e lode a Dio in questo culto di ringraziamento, e solo in questo senso si può parlare di festa del XVII febbraio.
Noi oggi ringraziamo il Signore che ha trasformato quell’evento storico e politico nell’occasione per i valdesi di cogliere e di vivere la loro vocazione di credenti “chiamati a libertà”, come dice l’apostolo Paolo. Noi ringraziamo il Signore che ha illuminato quella generazione di valdesi e ha fatto loro capire che quell’evento poteva, anzi doveva essere l’occasione per iniziare a predicare l’evangelo nell’Italia che stava per diventare uno Stato unito.
E questo non era scontato. Innanzitutto non era previsto dalle stesse lettere patenti di Carlo Alberto: lo avrete già sentito dire molte volte, ma lo ripetiamo ancora, per evitare equivoci: le lettere patenti dicevano questo:
“I valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle università ed a conseguire i gradi accademici. Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”. Quella concessa da Carlo Alberto fu libertà civile e non libertà di culto.
E il fatto di andare a predicare al di fuori del ghetto delle valli non era scontato nemmeno per tutti i valdesi. C’era chi si sarebbe accontentato di vivere finalmente la libertà all’interno dell’antico ghetto, c’erano coloro per cui la libertà civile era un punto di arrivo e non di partenza, che si sarebbero accontentati di poter praticare il culto riformato finalmente senza problemi all’interno delle loro valli.
A questa situazione possiamo applicare le parole di Paolo: “voi siete stati chiamati a libertà, soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne…”; questo vivere secondo la carne lo possiamo oggi interpretare, alla luce del 1848, come accontentarsi di ciò che si è ottenuto e non cercare più altro. Fare della libertà un’occasione per vivere secondo la carne può voler dire dimenticare che si è ancora sempre chiamati a libertà, vuol dire che dentro e dietro ad una libertà ottenuta, c’è sempre ancora una libertà da ottenere.
Questa fu l’intuizione dei valdesi di allora: quella di capire che non ci si poteva accontentare della libertà civile, ma che dietro la libertà civile si doveva andare a cercare la libertà di culto; per questo partirono verso la pianura e le città dell’Italia, dal nord al sud; per questo, appena fu possibile, entrarono in Roma con i loro carretti di Bibbie e libri. La libertà civile non era un punto di arrivo, era il punto di partenza per vivere la libertà, quella vera, la libertà dei figli di Dio e testimoniarla a tutto il paese.
La generazione dei valdesi del 1848, ha detto una volta il pastore Giorgio Tourn, fu una generazione che osò sognare, una generazione che non si è accontentata di ciò che aveva ottenuto, ma osò sognare per sé e per gli altri. Osò sognare molte cose, fra cui anche quella che si rivelò poi una pia illusione, e cioè che l’Italia non avrebbe aspettato altro che la predicazione del puro evangelo, che gli italiani non avrebbero chiesto altro che di passare dalla chiesa cattolica alle chiese della Riforma.
Non andò così, ma non importa; quello che importa è che molti lasciarono le loro valli con questo sogno, per andare a costruire chiese e scuole, e cioè per andare a fare proprio quello che secondo le Lettere Patenti non avrebbero dovuto fare.
Accontentarsi di ciò che si è ottenuto può essere un’occasione per vivere secondo la carne, per sprecare la libertà di cui si gode: questo è il messaggio che ci giunge da queste parole di Paolo lette alla luce del XVII febbraio 1848.
Ora in questi quasi centosettant’anni, noi abbiamo ottenuto ancora molto di più: come valdesi italiani abbiamo un accordo con lo Stato, le Intese, abbiamo l’otto per mille; e più otteniamo e più è grande il rischio di accontentarsi, di riposare sull’esistente.
Ma siamo ancora sempre chiamati a libertà, e siamo chiamati a tradurre questa libertà in precisi atteggiamenti nella nostra società, a partire da questioni come il pluralismo e la laicità, e oggi forse in modo del tutto particolare, siamo chiamati a usare la nostra libertà per impegnarci a contrastare ogni tipo di fanatismo, soprattutto religioso.
Ma un altro grave errore sarebbe quello di pensare alla libertà solo per noi stessi. “Vivere secondo la carne” significa vivere a partire da se stessi e per se stessi, vivere secondo i propri bisogni o i propri desideri, e dimenticarsi degli altri. Nel centocinquantesimo anniversario delle lettere patenti la Federazione delle chiese evangeliche in Italia intitolò la settimana della libertà – settimana che prende spunto dal XVII febbraio – “la libertà degli altri”. Non accontentarsi della libertà ottenuta non significa solo continuare a lottare per la propria libertà, significa anche non accontentarsi di ottenere qualcosa per sé e basta, di pensare alla propria libertà e basta.
Siamo chiamati a libertà, dice Paolo. Siamo chiamati alla nostra libertà e siamo chiamati anche alla libertà degli altri. La libertà è la nostra vocazione, ma non soltanto la nostra libertà, bensì la libertà di tutti e di ognuno.
Forse oggi come chiese valdesi in Italia abbiamo molti problemi e pochi sogni. Molti problemi soprattutto economici, e pochi sogni in cui tuffarsi/lanciarsi. Troppo schiavi dei nostri problemi, non siamo liberi di sognare, come i cristiani dei primi tempi, come i valdesi del 1848.
Ma Dio continua a chiamarci a libertà, alla nostra libertà e alla libertà degli altri. Che le chiese siano strumenti di questa libertà è un sogno per il quale vale la pena di lottare e lavorare. Che le chiese siano strumenti di unità fra i cristiani e non di divisione è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Che le chiese siano uno strumento di riconciliazione tra le religioni, contro ogni fondamentalismo e fanatismo, che siano disponibili al dialogo con chi crede diversamente, per conoscere gli uni la fede gli altri, nel rispetto reciproco, è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Che le chiese siano una voce che chiede giustizia per questo mondo così lacerato e ferito e per le vittime dello sfruttamento economico e delle troppe guerre, che chiede giustizia per i migranti che fuggono dai loro paesi in cerca di una vita migliore, rischiando di non arrivarci mai, ma di morire lungo il viaggio, è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Tutto ciò è la vocazione che il Signore ci rivolge per mettere a frutto il prezioso dono della libertà e che ci chiede di far diventare il nostro sogno.
Che il Signore continui anche oggi e ogni giorno a chiamarci alla sua libertà e a farci sognare i suoi sogni.
venerdì 13 febbraio 2015
Predicazione di domenica 8 febbraio su Ebrei 4,7.12-13 a cura di Armano Casarella
“Dio
stabilisce di nuovo un giorno - oggi - dicendo per mezzo di Davide,
dopo tanto tempo: «Oggi, se udite la sua voce, non
indurite i vostri cuori!».
Infatti
la Parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque
spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l'anima dallo
spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i
pensieri del cuore. E non v'è nessuna creatura che possa nascondersi
davanti a lui; ma tutte le cose sono nude e scoperte davanti agli
occhi di colui al quale dobbiamo render conto”.
Il
testo ci presenta due fondamenti che danno corpo alla predicazione
dell’autore della lettera agli ebrei: un giorno nuovo e la Parola
di Dio e notate come questi elementi siano presentati al singolare;
un giorno ed una parola a differenza dei nostri giorni e delle nostre
parole.
Ci
sono giorni e giorni nella vita, vita che è fatta di giorni: giorni
che si alternano nella loro diversità, felici o tristi, giorni
proficui o giorni persi.
Ci
sono parole e parole che noi spendiamo nel susseguirsi dei giorni di
questa vita: ci sono parole dette e parole che avremmo fatto meglio a
non dire, fiumi di parole che non sono servite a nulla e silenzi che
sono valsi più di mille parole, parole che hanno salvato e parole
che hanno perduto, parole che avremmo dovuto pronunziare ma che sono
state strozzate dalla codardia e parole invece pronunziate per
ostentare coraggio e fermezza ma che sarebbe stato meglio fossero
rimaste soffocate nella gola.
Ci
sono giorni che si condensano e che ricordiamo in attimi che
imprimono una particolarità memorabile ad una giornata e giorni
invece scanditi solamente dal ciclico ed inarrestabile sorgere del
sole e della luna. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si
affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. Il vento soffia
verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando,
girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. Tutti i
fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i
fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre
(Eccl.1:5-7).
Giorni
che passano, giorni che si maledicono, giorni nei quali ringraziamo
Dio di esistere.
Ma
rimane vera l’amara conclusione dell’Ecclesiaste, si erge solido
ed irresistibile il disincanto, e lottarvi è come lottare contro
il vento; si ripropone nel corso dei giorni di tutte le vite il
triste passaggio dall’illusione della speranza alla disillusione
dell’età adulta. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare
non si riempie: come i fiumi i giorni corrono ma non riempiono la
vita, destinati ad una foce, ad un termine ma senza osservare
realizzata la pienezza, fino a che un ultimo giorno prosciugherà le
tue acque e smetterai di correre ed altre acque riempiranno quei
solchi ed al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a
dirigersi sempre ed il mare continuerà a non riempirsi e ai tuoi
giorni si sostituiranno giorni altrui, la vita come il mare resterà
incompresa ed un giorno, lieto o triste, rimarrà alla fine soltanto
un giorno.
Questa
condizione miserrima è ben conosciuta dalle scritture che
addirittura vi dedicano un intero libro: la bibbia è un libro
scritto per l’uomo e penetra le profondità dell’uomo, non le
nasconde, non le oscura, non finge per garantirci se nondimeno un
quieto scorrere dei nostri giorni, i fiumi scorrono verso il mare ma
vi debbono scorrere inquieti, tumultuosi, gonfi di domande e di
ricerca di senso perché solo Dio li acquieterà e ne garantirà il
significato; ed il messaggio su Dio che questo libro contiene è un
messaggio indirizzato all’uomo, al suo mal di vivere,
all’incompiutezza, all’assenza di valore della sua vita senza
Dio.
Tra
le tante parole, risuona in queste pagine una Parola che lo
Spirito di Dio rende vivente ed efficace per te. Quella parola che
supera i confini ed i limiti della parola parlata e scritta, la
Parola di Dio rivolta ai più profondi nascondigli del tuo cuore,
quella parola non confinabile in nessun discorso ed imprigionata in
nessun testo, quella Parola che è rivelazione diretta, parola
profetica, voce stessa di Dio affilata più di qualunque spada
terrestre, quella spada che squarcia dall’alto in basso la tenda
che separa il cielo dalla terra, dove eri solito nasconderti,
attardarti dietro le quinte del dramma della storia di Dio con gli
uomini. Dietro quella tenda eri intento a scrivere un finale diverso
a questo copione pur rendendoti conto che il mare non si riempiva, ma
interviene quella parola che giudica i sentimenti ed i pensieri del
cuore, svela ogni vita umana e la mette a nudo davanti agli occhi
suoi. E non vi è nessuna creatura, di fronte a questa parola che
possa nascondersi davanti a lui.
Una
spada così affilata da separare il tuo animo dal tuo spirito, a
dividere cioè quello che veramente conta, quello che veramente è,
da quello che appare. Trasforma l’apparenza in vita, perché è
parola vivente, il mare sembra che non si riempia, questo è quello
che appare, Dio ti dice con la sua parola che sarai condotto invece
verso il suo riposo, quando ti condurrà alle sorgenti delle acque
della vita e asciugherà ogni lacrima dagli occhi tuoi. Tutta la
creazione e tutto il tempo sono finalizzati ai tempi di Dio, nel
contempo ci sono croci da portare ma il figlio ha trionfato e noi
trionferemo un dì. Quelli che ascoltano questa Parola pregustano già
da ora, in mezzo al dramma della redenzione, la pace ed il riposo di
Dio. Questo copione di Dio, devi viverlo ed attuarlo fino in fondo
nella tua vita di credente, quando? Ma naturalmente da OGGI! Dio
stabilisce di nuovo un giorno - oggi - «Oggi, se udite la sua voce,
la sua Parola, non indurite i vostri cuori!
Iddio
prende un giorno qualsiasi e ne fa un oggi davanti a Lui,
prende un giorno ordinario che scorre come il fiume della
quotidianità e ne fa un oggi: un tempo di decisione, un tempo di
crisi, un tempo di fede, un tempo dove ammorbidire i nostri cuori e
conoscere la realtà del Dio della Vita, un giorno dove incontrarlo
proprio lì, sulla via di Emmaus, nel tempo della disillusione e
della sconfitta, nel tempo dell’assenza di speranza dove la morte
sembra abbia trionfato e riconoscerlo invece proprio lì più risorto
e più vivo che mai!
La
parola di Dio, vivente ed efficace afferra la routine, il ciclo
inarrestabile della vita e ne fa teatro della sua gloria, Cristo si
rende evento di una vita risostanziata di senso, riempita di
pienezza: i fiumi continueranno a scorrere verso il mare ma il
mare si riempie anzi è già pieno in Cristo Gesù!
La
parola di Dio vivente ed efficace rinnova e ripristina oggi la
fiducia. Prende gente impaurita e ne fa ministri dell’Iddio
Altissimo, prende dei peccatori ribelli al piano di Dio, intenti a
scrivere una storia diversa e ne fa dei santi. Quando ne fa dei
santi? OGGI! L’urgenza dell’oggi, l’oggi che ci interpella per
mezzo della Parola di Dio, che è il Cristo il quale per mezzo dello
Spirito Santo sa come rendere affilata quella spada e scoprirci
definitivamente agli occhi di Dio. Come ne fa dei santi?
Scriveva
Karl Barth: “Siamo santi nella misura in cui partecipiamo alla
santità di Gesù Cristo”. Maggiore sarà la tua comunione col
Cristo, maggiore sarà la santità della tua vita.
Valuta
tu dunque la portata della tua comunione col Signore: è piccola?
Piccola sarà la tua santità davanti a Dio. È grande? Beato sei tu
fratello! Beata te o sorella! Grande è la tua santità agli occhi
del Signore! Ed è agli occhi suoi che dovremo rendere conto.
E
…voi? Voi siete già puri - dice il Signore - a motivo
della parola che vi ho annunziata.
Dimorate
in me, e io dimorerò in voi.
Come
il Padre mi ha amato, così anch'io ho amato voi; dimorate nel mio
amore.
lunedì 9 febbraio 2015
Predicazione di domenica 1 febbraio 2015 su Matteo 20,1-16 a cura di Marco Gisola
1 «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa, il quale uscì di mattino presto per assumere dei lavoratori per la sua vigna. 2 Accordatosi con i lavoratori per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. 3 Uscito di nuovo verso l'ora terza, ne vide altri che se ne stavano sulla piazza disoccupati 4 e disse loro: "Andate anche voi nella vigna e vi darò quello che è giusto". Ed essi andarono. 5 Poi, uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece lo stesso. 6 Uscito verso l'undicesima, ne trovò degli altri che se ne stavano là e disse loro: "Perché ve ne state qui tutto il giorno inoperosi?" 7 Essi gli dissero: "Perché nessuno ci ha assunti". Egli disse loro: "Andate anche voi nella vigna". 8 Fattosi sera, il padrone della vigna disPse al suo fattore: "Chiama i lavoratori e da' loro la paga, cominciando dagli ultimi fino ai primi". 9 Allora vennero quelli dell'undicesima ora e ricevettero un denaro ciascuno. 10 Venuti i primi, pensavano di ricevere di più; ma ebbero anch'essi un denaro per ciascuno. 11 Perciò, nel riceverlo, mormoravano contro il padrone di casa dicendo: 12 "Questi ultimi hanno fatto un'ora sola e tu li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e sofferto il caldo". 13 Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, non ti faccio alcun torto; non ti sei accordato con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest'ultimo quanto a te. 15 Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio? O vedi tu di mal occhio che io sia buono?" 16 Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi».
È giusto, care sorelle e fratelli, pagare con lo stesso salario un operaio che ha lavorato dodici ore in un giorno, dall’alba al tramonto, e un altro che invece ha lavorato soltanto un’ora, nel fresco della sera? E non è un po’ strano questo padrone, che stabilisce di pagare una certa somma agli operai ingaggiati al mattino presto, e poi dà la stessa somma anche a chi ha iniziato a lavorare alle cinque del pomeriggio?
Nessun lavoratore riterrebbe equo un trattamento del genere e d’altra parte nessun datore di lavoro si comporterebbe mai così. Non è questa la logica del mondo del lavoro. Ma è questa la logica del regno di Dio: questa parabola di Gesù parla del regno di Dio e vuole mostrare come Dio si comporta con gli esseri umani.
Nel regno di Dio - ma non solo nel senso dell’aldilà, anche qui ed ora, quindi nel regno di Dio nel senso di: davanti a Dio - non vige il principio del tanto mi dà tanto, non vale lo schema secondo il quale a una data prestazione corrisponde una proporzionale ricompensa.
Questa idea della ricompensa o del contraccambio non appartiene a Dio e al suo regno. Appartiene purtroppo invece al nostro mondo e determina molte relazioni umane e sociali.
Appartiene certo al mondo del lavoro, dove però purtroppo vediamo che sempre più è la logica della produttività che si impone e non quella dell’impegno. Dove i meriti che si vogliono misurare non corrispondono all’impegno, ma alla produttività, e così di nuovo i più deboli o i più lenti vengono tagliati fuori.
Ma aldilà del mondo del lavoro, quando la logica del contraccambio determina le relazioni umane e sociali, esse rischiano di essere misurate quantitativamente.
Ricorderete quella parola in cui Gesù dice che se si vuole fare un pranzo e avere degli ospiti, di non invitare parenti e amici, che poi contraccambieranno l’invito, ma di invitare invece i poveri, i ciechi, gli zoppi, cioè le persone che non possono contraccambiare l’invito, perché vivono di elemosina e non hanno nulla con cui contraccambiare.
Siamo di nuovo lì, a quel punto che ci è particolarmente caro e che è Gesù non smette mai di mettere al centro della sue predicazione: la gratuità. Così si comporta Dio e così chiede a noi di comportarci: agire senza calcolare, senza misurare, senza pensare al contraccambio.
Non è quella del contraccambio la logica di Dio. Il testo ci dice innanzitutto che la prima caratteristica dell’agire di Dio è la sua assoluta libertà: “io voglio dare a quest'ultimo quanto a te. Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio?”, dice il padrone.
Come il padrone è libero di dare quanti soldi vuole agli operai indipendentemente dalle prestazioni compiute, così Dio è libero di donare la sua grazia a chi vuole, indipendentemente dalle prestazioni compiute. Questo è il senso della parabola.
La parabola ci dice altre due cose sulla libertà d Dio e su come egli la usa: intanto il padrone – che era libero, a quei tempi, di dare il salario che voleva ai suoi operai (non c’erano sindacati, ma sappiamo che anche oggi, molti lavoratori sono senza tutela...) - si era vincolato a un patto, stretto prima che i lavoratori della prima ora iniziassero a lavorare.
E il padrone rispetta il patto. Ai lavoratori che hanno iniziato a lavorare alle sei di mattina dà esattamente quello che aveva pattuito. Il padrone, con gli altri, utilizza la sua libertà solo ed esclusivamente per dare a chi ha lavorato meno ore lo stesso salario che riceve chi ha lavorato di più. Utilizza la sua libertà solo per dare di più.
Che poi, ci fanno notare gli esperti, un denaro era ciò che serviva per sfamare una famiglia per un giorno, quindi se volessimo guardare la storia da questo punto di vista, il padrone dà da mangiare per un giorno a tutti, senza guardare quanto hanno lavorato. Con meno di quel denaro, alcune di quelle famiglie non avrebbero mangiato.
Ma al di là di questo – che pure è importante – la parabola vuol dirci che Dio usa la sua libertà solo per dare di più, non per dare di meno. Non dà di meno ai lavoratori della prima ora, dà di più a quelli dell’ultima e della penultima, ecc. in modo di dare a tutti ciò di cui hanno bisogno.
E così tutti gli operai ricevono lo stesso salario, lo stesso trattamento. Questo non corrisponderà alla nostra idea umana matematica di giustizia, ma questa è la giustizia di Dio.
Ed è davvero una bella notizia, se pensiamo che noi cittadini del primo mondo viviamo una vita piena di “ansie da prestazione”. Il comandamento del mercato, che governa la nostra società è: “produrre di più per guadagnare di più”, dunque “lavorare di più per produrre di più”, e rimanere competitivi, restare dentro il mercato.
La logica del “tanto mi dà tanto” crea infatti competizione e la competizione provoca rivalità e invidia. E così il concorrente diventa un nemico e prevale la legge del più forte: il più forte vince, il debole soccombe.
Davanti a Dio non è così, Dio non si lascia pilotare da noi e dalle nostre prestazioni. Non ci possiamo guadagnare la benevolenza di Dio facendo un po’ più degli altri, fornendo prestazioni un po’ più alte o migliori degli altri. Quindi davanti a Dio non vi è concorrenza, non vi è prestazione che si possa accampare per ottenere qualcosa in più degli altri. E davanti a Dio non c’è invidia, non c’è rivalità, non c’è competizione.
Non è questo un evangelo, una buona, anzi meravigliosa notizia, che porta qualcosa di nuovo e luminoso nel buio del nostro mondo pieno di invidie e competizioni? Uscire dalla logica del calcolo e del “tanto mi dà tanto” è l’invito che ci rivolge oggi questa parabola.
Dio non vuole avere con noi una relazione basata sul calcolo, bensì una relazione basata sulla fiducia e sulla responsabilità. E anche sulle reali necessità di ciascuno.
Dio non dà meno di quello che abbiamo bisogno, come il padrone non dà meno di quello che tutti gli operai hanno bisogno – anche quelli che hanno lavorato un’ora sola.
Il padrone della vigna dà tutto ciò di cui hanno bisogno quegli uomini e quelle famiglie per mangiare quel giorno. Dio dà a noi tutto il perdono di cui abbiamo bisogno, perché non avrebbe senso riceverne meno che tutto. Il perdono, l’amore, o è “tutto” oppure non è, un po’ di perdono, un po’ di amore non serve. Serve tutto.
Altrimenti Dio non sarebbe buono, ma sarebbe un burlone, per non dire crudele. “vedi tu di mal occhio che io sia buono?”, chiede il padrone all'operaio della prima ora invidioso di quello dell’ultima ora. E per essere davvero buono non può che dare a tutti da mangiare per quel giorno.
E così – se proprio vogliamo misurare ciò che non è misurabile - chi ha più colpe riceverà più perdono, perché il perdono non può che essere tutto, appunto. Un assassino avrà bisogno di maggior perdono di una persona che cerca sempre di comportarsi bene. Proprio perché il perdono non può che essere tutto.
Ma non sta a noi dire a Dio come deve fare e quanto e chi deve perdonare. Ce lo dice lui con questa parabola. A ciascuno dona ciò di cui ha bisogno, niente di meno.
Quando ci capiterà di essere nei confronti di Dio i lavoratori della prima ora e faticare tutto il giorno per fare la sua volontà, ricordiamo di non essere invidiosi di chi riceve la stessa grazia per aver fatto molto meno.
Se invece qualche volta ci capiterà – e ci capiterà – di essere i lavoratori dell’ultima ora e ci accorgeremo che il Signore dona a noi quello che ha donato agli altri che hanno faticato più di noi, in questo caso sperimenteremo la bontà di Dio e gli saremo grati del fatto che la logica del suo agire non è il calcolo, ma è la grazia.
È giusto, care sorelle e fratelli, pagare con lo stesso salario un operaio che ha lavorato dodici ore in un giorno, dall’alba al tramonto, e un altro che invece ha lavorato soltanto un’ora, nel fresco della sera? E non è un po’ strano questo padrone, che stabilisce di pagare una certa somma agli operai ingaggiati al mattino presto, e poi dà la stessa somma anche a chi ha iniziato a lavorare alle cinque del pomeriggio?
Nessun lavoratore riterrebbe equo un trattamento del genere e d’altra parte nessun datore di lavoro si comporterebbe mai così. Non è questa la logica del mondo del lavoro. Ma è questa la logica del regno di Dio: questa parabola di Gesù parla del regno di Dio e vuole mostrare come Dio si comporta con gli esseri umani.
Nel regno di Dio - ma non solo nel senso dell’aldilà, anche qui ed ora, quindi nel regno di Dio nel senso di: davanti a Dio - non vige il principio del tanto mi dà tanto, non vale lo schema secondo il quale a una data prestazione corrisponde una proporzionale ricompensa.
Questa idea della ricompensa o del contraccambio non appartiene a Dio e al suo regno. Appartiene purtroppo invece al nostro mondo e determina molte relazioni umane e sociali.
Appartiene certo al mondo del lavoro, dove però purtroppo vediamo che sempre più è la logica della produttività che si impone e non quella dell’impegno. Dove i meriti che si vogliono misurare non corrispondono all’impegno, ma alla produttività, e così di nuovo i più deboli o i più lenti vengono tagliati fuori.
Ma aldilà del mondo del lavoro, quando la logica del contraccambio determina le relazioni umane e sociali, esse rischiano di essere misurate quantitativamente.
Ricorderete quella parola in cui Gesù dice che se si vuole fare un pranzo e avere degli ospiti, di non invitare parenti e amici, che poi contraccambieranno l’invito, ma di invitare invece i poveri, i ciechi, gli zoppi, cioè le persone che non possono contraccambiare l’invito, perché vivono di elemosina e non hanno nulla con cui contraccambiare.
Siamo di nuovo lì, a quel punto che ci è particolarmente caro e che è Gesù non smette mai di mettere al centro della sue predicazione: la gratuità. Così si comporta Dio e così chiede a noi di comportarci: agire senza calcolare, senza misurare, senza pensare al contraccambio.
Non è quella del contraccambio la logica di Dio. Il testo ci dice innanzitutto che la prima caratteristica dell’agire di Dio è la sua assoluta libertà: “io voglio dare a quest'ultimo quanto a te. Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio?”, dice il padrone.
Come il padrone è libero di dare quanti soldi vuole agli operai indipendentemente dalle prestazioni compiute, così Dio è libero di donare la sua grazia a chi vuole, indipendentemente dalle prestazioni compiute. Questo è il senso della parabola.
La parabola ci dice altre due cose sulla libertà d Dio e su come egli la usa: intanto il padrone – che era libero, a quei tempi, di dare il salario che voleva ai suoi operai (non c’erano sindacati, ma sappiamo che anche oggi, molti lavoratori sono senza tutela...) - si era vincolato a un patto, stretto prima che i lavoratori della prima ora iniziassero a lavorare.
E il padrone rispetta il patto. Ai lavoratori che hanno iniziato a lavorare alle sei di mattina dà esattamente quello che aveva pattuito. Il padrone, con gli altri, utilizza la sua libertà solo ed esclusivamente per dare a chi ha lavorato meno ore lo stesso salario che riceve chi ha lavorato di più. Utilizza la sua libertà solo per dare di più.
Che poi, ci fanno notare gli esperti, un denaro era ciò che serviva per sfamare una famiglia per un giorno, quindi se volessimo guardare la storia da questo punto di vista, il padrone dà da mangiare per un giorno a tutti, senza guardare quanto hanno lavorato. Con meno di quel denaro, alcune di quelle famiglie non avrebbero mangiato.
Ma al di là di questo – che pure è importante – la parabola vuol dirci che Dio usa la sua libertà solo per dare di più, non per dare di meno. Non dà di meno ai lavoratori della prima ora, dà di più a quelli dell’ultima e della penultima, ecc. in modo di dare a tutti ciò di cui hanno bisogno.
E così tutti gli operai ricevono lo stesso salario, lo stesso trattamento. Questo non corrisponderà alla nostra idea umana matematica di giustizia, ma questa è la giustizia di Dio.
Ed è davvero una bella notizia, se pensiamo che noi cittadini del primo mondo viviamo una vita piena di “ansie da prestazione”. Il comandamento del mercato, che governa la nostra società è: “produrre di più per guadagnare di più”, dunque “lavorare di più per produrre di più”, e rimanere competitivi, restare dentro il mercato.
La logica del “tanto mi dà tanto” crea infatti competizione e la competizione provoca rivalità e invidia. E così il concorrente diventa un nemico e prevale la legge del più forte: il più forte vince, il debole soccombe.
Davanti a Dio non è così, Dio non si lascia pilotare da noi e dalle nostre prestazioni. Non ci possiamo guadagnare la benevolenza di Dio facendo un po’ più degli altri, fornendo prestazioni un po’ più alte o migliori degli altri. Quindi davanti a Dio non vi è concorrenza, non vi è prestazione che si possa accampare per ottenere qualcosa in più degli altri. E davanti a Dio non c’è invidia, non c’è rivalità, non c’è competizione.
Non è questo un evangelo, una buona, anzi meravigliosa notizia, che porta qualcosa di nuovo e luminoso nel buio del nostro mondo pieno di invidie e competizioni? Uscire dalla logica del calcolo e del “tanto mi dà tanto” è l’invito che ci rivolge oggi questa parabola.
Dio non vuole avere con noi una relazione basata sul calcolo, bensì una relazione basata sulla fiducia e sulla responsabilità. E anche sulle reali necessità di ciascuno.
Dio non dà meno di quello che abbiamo bisogno, come il padrone non dà meno di quello che tutti gli operai hanno bisogno – anche quelli che hanno lavorato un’ora sola.
Il padrone della vigna dà tutto ciò di cui hanno bisogno quegli uomini e quelle famiglie per mangiare quel giorno. Dio dà a noi tutto il perdono di cui abbiamo bisogno, perché non avrebbe senso riceverne meno che tutto. Il perdono, l’amore, o è “tutto” oppure non è, un po’ di perdono, un po’ di amore non serve. Serve tutto.
Altrimenti Dio non sarebbe buono, ma sarebbe un burlone, per non dire crudele. “vedi tu di mal occhio che io sia buono?”, chiede il padrone all'operaio della prima ora invidioso di quello dell’ultima ora. E per essere davvero buono non può che dare a tutti da mangiare per quel giorno.
E così – se proprio vogliamo misurare ciò che non è misurabile - chi ha più colpe riceverà più perdono, perché il perdono non può che essere tutto, appunto. Un assassino avrà bisogno di maggior perdono di una persona che cerca sempre di comportarsi bene. Proprio perché il perdono non può che essere tutto.
Ma non sta a noi dire a Dio come deve fare e quanto e chi deve perdonare. Ce lo dice lui con questa parabola. A ciascuno dona ciò di cui ha bisogno, niente di meno.
Quando ci capiterà di essere nei confronti di Dio i lavoratori della prima ora e faticare tutto il giorno per fare la sua volontà, ricordiamo di non essere invidiosi di chi riceve la stessa grazia per aver fatto molto meno.
Se invece qualche volta ci capiterà – e ci capiterà – di essere i lavoratori dell’ultima ora e ci accorgeremo che il Signore dona a noi quello che ha donato agli altri che hanno faticato più di noi, in questo caso sperimenteremo la bontà di Dio e gli saremo grati del fatto che la logica del suo agire non è il calcolo, ma è la grazia.
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