Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un'occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell'amore servite gli uni agli altri; poiché tutta la legge è adempiuta in quest'unica parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso».
Oggi siamo qui per ringraziare il Signore per il dono della libertà. Da più di centosessanta anni, da quel diciassette febbraio 1848 le chiese valdesi e in Italia non solo le chiese valdesi, ma anche le chiese metodiste e battiste, si fermano per ricordare quella data.
Nelle valli valdesi lo si fa il giorno diciassette febbraio stesso; si fa il culto, l’agape fraterna, la sera i gruppi giovanili offrono una rappresentazione teatrale, mentre la sera prima ci si riunisce a cantare intorno ai falò. C’è chi prende un giorno di ferie per partecipare alla giornata, c’è chi chiude il negozio.
Perché tutto questo? Perché tutta questa importanza e tutto questo impegno per una festa che in fondo non è una festa cristiana, nel senso che non ricorda un momento della vita di Gesù come il Natale o la Pasqua, ma è una festa che ricorda un evento civile e politico? Forse perché Carlo Alberto di Savoia, un sovrano di un piccolo stato come il regno di Sardegna, concesse i diritti civili ai valdesi e poche settimane più tardi agli ebrei?
No, care sorelle e cari fratelli, non è il gesto generoso di un re che festeggiamo oggi. Anzi a dire il vero noi non festeggiamo proprio nulla; noi rendiamo grazie e lode a Dio in questo culto di ringraziamento, e solo in questo senso si può parlare di festa del XVII febbraio.
Noi oggi ringraziamo il Signore che ha trasformato quell’evento storico e politico nell’occasione per i valdesi di cogliere e di vivere la loro vocazione di credenti “chiamati a libertà”, come dice l’apostolo Paolo. Noi ringraziamo il Signore che ha illuminato quella generazione di valdesi e ha fatto loro capire che quell’evento poteva, anzi doveva essere l’occasione per iniziare a predicare l’evangelo nell’Italia che stava per diventare uno Stato unito.
E questo non era scontato. Innanzitutto non era previsto dalle stesse lettere patenti di Carlo Alberto: lo avrete già sentito dire molte volte, ma lo ripetiamo ancora, per evitare equivoci: le lettere patenti dicevano questo:
“I valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle università ed a conseguire i gradi accademici. Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”. Quella concessa da Carlo Alberto fu libertà civile e non libertà di culto.
E il fatto di andare a predicare al di fuori del ghetto delle valli non era scontato nemmeno per tutti i valdesi. C’era chi si sarebbe accontentato di vivere finalmente la libertà all’interno dell’antico ghetto, c’erano coloro per cui la libertà civile era un punto di arrivo e non di partenza, che si sarebbero accontentati di poter praticare il culto riformato finalmente senza problemi all’interno delle loro valli.
A questa situazione possiamo applicare le parole di Paolo: “voi siete stati chiamati a libertà, soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne…”; questo vivere secondo la carne lo possiamo oggi interpretare, alla luce del 1848, come accontentarsi di ciò che si è ottenuto e non cercare più altro. Fare della libertà un’occasione per vivere secondo la carne può voler dire dimenticare che si è ancora sempre chiamati a libertà, vuol dire che dentro e dietro ad una libertà ottenuta, c’è sempre ancora una libertà da ottenere.
Questa fu l’intuizione dei valdesi di allora: quella di capire che non ci si poteva accontentare della libertà civile, ma che dietro la libertà civile si doveva andare a cercare la libertà di culto; per questo partirono verso la pianura e le città dell’Italia, dal nord al sud; per questo, appena fu possibile, entrarono in Roma con i loro carretti di Bibbie e libri. La libertà civile non era un punto di arrivo, era il punto di partenza per vivere la libertà, quella vera, la libertà dei figli di Dio e testimoniarla a tutto il paese.
La generazione dei valdesi del 1848, ha detto una volta il pastore Giorgio Tourn, fu una generazione che osò sognare, una generazione che non si è accontentata di ciò che aveva ottenuto, ma osò sognare per sé e per gli altri. Osò sognare molte cose, fra cui anche quella che si rivelò poi una pia illusione, e cioè che l’Italia non avrebbe aspettato altro che la predicazione del puro evangelo, che gli italiani non avrebbero chiesto altro che di passare dalla chiesa cattolica alle chiese della Riforma.
Non andò così, ma non importa; quello che importa è che molti lasciarono le loro valli con questo sogno, per andare a costruire chiese e scuole, e cioè per andare a fare proprio quello che secondo le Lettere Patenti non avrebbero dovuto fare.
Accontentarsi di ciò che si è ottenuto può essere un’occasione per vivere secondo la carne, per sprecare la libertà di cui si gode: questo è il messaggio che ci giunge da queste parole di Paolo lette alla luce del XVII febbraio 1848.
Ora in questi quasi centosettant’anni, noi abbiamo ottenuto ancora molto di più: come valdesi italiani abbiamo un accordo con lo Stato, le Intese, abbiamo l’otto per mille; e più otteniamo e più è grande il rischio di accontentarsi, di riposare sull’esistente.
Ma siamo ancora sempre chiamati a libertà, e siamo chiamati a tradurre questa libertà in precisi atteggiamenti nella nostra società, a partire da questioni come il pluralismo e la laicità, e oggi forse in modo del tutto particolare, siamo chiamati a usare la nostra libertà per impegnarci a contrastare ogni tipo di fanatismo, soprattutto religioso.
Ma un altro grave errore sarebbe quello di pensare alla libertà solo per noi stessi. “Vivere secondo la carne” significa vivere a partire da se stessi e per se stessi, vivere secondo i propri bisogni o i propri desideri, e dimenticarsi degli altri. Nel centocinquantesimo anniversario delle lettere patenti la Federazione delle chiese evangeliche in Italia intitolò la settimana della libertà – settimana che prende spunto dal XVII febbraio – “la libertà degli altri”. Non accontentarsi della libertà ottenuta non significa solo continuare a lottare per la propria libertà, significa anche non accontentarsi di ottenere qualcosa per sé e basta, di pensare alla propria libertà e basta.
Siamo chiamati a libertà, dice Paolo. Siamo chiamati alla nostra libertà e siamo chiamati anche alla libertà degli altri. La libertà è la nostra vocazione, ma non soltanto la nostra libertà, bensì la libertà di tutti e di ognuno.
Forse oggi come chiese valdesi in Italia abbiamo molti problemi e pochi sogni. Molti problemi soprattutto economici, e pochi sogni in cui tuffarsi/lanciarsi. Troppo schiavi dei nostri problemi, non siamo liberi di sognare, come i cristiani dei primi tempi, come i valdesi del 1848.
Ma Dio continua a chiamarci a libertà, alla nostra libertà e alla libertà degli altri. Che le chiese siano strumenti di questa libertà è un sogno per il quale vale la pena di lottare e lavorare. Che le chiese siano strumenti di unità fra i cristiani e non di divisione è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Che le chiese siano uno strumento di riconciliazione tra le religioni, contro ogni fondamentalismo e fanatismo, che siano disponibili al dialogo con chi crede diversamente, per conoscere gli uni la fede gli altri, nel rispetto reciproco, è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Che le chiese siano una voce che chiede giustizia per questo mondo così lacerato e ferito e per le vittime dello sfruttamento economico e delle troppe guerre, che chiede giustizia per i migranti che fuggono dai loro paesi in cerca di una vita migliore, rischiando di non arrivarci mai, ma di morire lungo il viaggio, è un sogno per il quale vale la pena di impegnarsi e di pregare.
Tutto ciò è la vocazione che il Signore ci rivolge per mettere a frutto il prezioso dono della libertà e che ci chiede di far diventare il nostro sogno.
Che il Signore continui anche oggi e ogni giorno a chiamarci alla sua libertà e a farci sognare i suoi sogni.
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