Seguire Gesù
Cari fratelli e sorelle,
È per me una grande gioia, poter celebrare questo culto insieme con
voi oggi. Rinascono in me antichi ricordi, del tempo in cui fui il
pastore di questa comunità per un po’ più di due anni, alla fine
degli anni 70 del secolo scorso. Quasi tutti i volti sono cambiati,
ma la comunità continua a vivere, piccolo gregge che può contare
solo sulla forza e sull’amore di Dio per proseguire il suo cammino
dietro a Gesù.
In questo tempo di preparazione a Pasqua, è bene ricordare che la
vita di Gesù fu come una lunga salita dalla Galilea – dove passò
la sua infanzia – a Gerusalemme, dove morì, ucciso dalla
coalizione dei poteri politici e religiosi del suo tempo. Ed è
quindi bene, in questo tempo, ripensare a cosa significhi
seguire Gesù. Proprio a questo c’invitano le tre letture che
abbiamo appena ascoltato. Nella prima lettura abbiamo ascoltato
la chiamata di Eliseo da parte del profeta Elia: unico caso di un
invito alla sequela nell’AT. L’epistola ai Filippesi ci ricorda
che l’andare dietro al Cristo non è una passeggiata;
assomiglia piuttosto a una corsa verso una meta da conquistare.
Il breve testo dell’evangelo secondo Luca infine ci presenta tre
tentativi diversi per seguire Gesù. Avremo così modo di ripensare a
ciò che noi facciamo quando ci presentiamo come discepoli del
Signore Gesù.
A proposito di queste letture, vorrei fare con voi tre riflessioni:
La prima riflessione concerne Gesù stesso del quale
l’Evangelo sottolinea che è “in cammino” e in cammino
“verso Gerusalemme”. Sono due note non banali. Seguire Gesù
significa forzatamente, anche per noi, metterci in cammino, vale a
dire accettare che le cose vadano diversamente di come le
abbiamo progettate. Camminare infatti implica sempre andare incontro
a sorprese, tanto più che, nel caso di Gesù, il cammino porta
a Gerusalemme. Gerusalemme, però, non è solo quella città ben
reale di cui i giornali parlano spesso… per motivi politici. Certo
era il centro politico della terra d’Israele, ne era anche il cuore
religioso perché là stava il tempio, ma Gesù camminava verso
Gerusalemme perché sapeva che un profeta non poteva morire fuori di
Gerusalemme (Lc 13,33). Il suo è un cammino che va verso la morte
violenta, e Gesù lo sa. Per questo, appena prima del nostro testo
Luca scrive che Gesù “rese duro il suo volto” per incamminarsi
verso Gerusalemme (Lc 9,51). Anche noi, seguendo il Cristo, dobbiamo
sapere che la nostra strada incontrerà ostacoli e pericoli. Con
un’altra immagine, Gesù ha parlato altrove di due porte: l’una,
larga, che però conduce alla perdizione, e una stretta che conduce
alla vita (Mt 7,13-14). L’idea è sempre la stessa: seguire Gesù è
difficile, richiede sforzi. È pure ciò che lascia intendere
Paolo nella sua lettera ai Filippesi quando parla della vita
cristiana come di una corsa. Paolo immagina i cristiani ingaggiati in
una gara olimpica: si tratta di correre per conquistare “la
perfezione”. Evidentemente: basta parlare di “perfezione”
per scoraggiare chiunque a intraprendere il cammino, perché noi
intendiamo sempre la perfezione in senso morale: chi è senza difetti
e quindi senza peccato. Ma un tale essere umano non esiste. “Se
diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la
verità non è in noi” (1Gv 1,8). La perfezione di cui parla Paolo
è diversa: è ciò per cui siamo stati creati; la perfezione è di
diventare veramente esseri umani e quindi immagini di Dio
stesso, diventare persone la cui vita racconta Dio. Ora ciò appare
alla meglio proprio nel modo con cui si affrontano le difficoltà, i
momenti di crisi, le tentazioni, le malattie e il cammino verso
la morte. Ecco per il cammino da percorrere.
La seconda riflessione deriva direttamente dagli episodi del
nostro evangelo. Ecco tre persone che incontrano Gesù: la prima gli
chiede di poterlo seguire, ma riceve un rifiuto: “Le volpi e gli
uccelli hanno un luogo di riparo; il figlio dell’uomo non ha dove
posare il capo”. La seconda, chiamata da Gesù, chiede di poter
prima seppellire il padre; ma Gesù rifiuta e le ordina di partire ad
annunciare il regno. Il terzo uomo dice di voler seguire Gesù, ma
vuole prima congedarsi dai parenti; anch’egli incontra il
rifiuto del Signore: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si
volge indietro è adatto al regno”. Questo testo mostra che non
noi scegliamo di seguire Gesù. Chi si propone di farlo incontra il
rifiuto di Gesù. È invece Gesù che sceglie i suoi seguaci e la sua
chiamata sconfigge le scuse che potrebbero essere presentate. Lo
conferma anche il Gesù dell’evangelo di Giovanni: “non voi avete
scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). Abbiamo qui certamente
una particolarità di Gesù. Normalmente infatti i maestri accoglieva
dei discepoli che desideravano mettersi alla loro scuola. Gesù
invece sceglie quelli che egli stesso vuole come discepoli. Perché
mai? Appunto perché Gesù non è solo un maestro dal quale si può
imparare una dottrina o una sapienza. È colui che insegna col suo
stile di vita, vale a dire: seguirlo implica lasciare tutto e
incamminarsi su quella stessa strada che porta a Gerusalemme:
camminare coscientemente verso la morte.
Nell’andare però dietro a lui si scopre che le parole “vita” e
“morte” con lui cambiano significato. “Vivere” non è più
“campare” magari anche 100 anni, ma: rinnegare se stessi, portare
la propria croce, e cioè amare; “morire” non è più solo essere
portati in terra ma l’essere così centrati e ripiegati su se
stessi da non trovare più un senso al proprio essere sulla terra.
Vita e morte non sono più questione di anni o di durata, ma di
relazioni e di qualità. Ecco perché è Gesù che sceglie i suoi
discepoli, e non il contrario, perché egli ci conosce e sa ciò che
c’è in noi; sa quindi anche chi può essere suoi testimoni e chi
no; il che non significa chi è salvato e chi no!
Con ciò giungiamo alla terza riflessione. Se il camminare
dietro a Cristo non è scelta nostra ma chiamata di Cristo, allora la
sequela non è iniziativa nostra, ma risposta all’iniziativa di
Cristo. Lo sottolinea la prima lettura che abbiamo ascoltato: a Elia
che ha gettato il suo mantello su Eliseo in segno di chiamata, Eliseo
chiede e ottiene di poter salutare il padre e la madre. Elia allora
aggiunge questa parola: “Va e torna, perché sai cosa ho fatto per
te” (1Re 19,20). La frase suona un po’ strana soprattutto se
letta letteralmente: “Va e torna, perché cosa ho fatto a te?”.
Per capire la scena occorre comprendere il gesto compiuto da Elia: ha
gettato il suo mantello su Eliseo. Quel mantello è quello che indica
il profeta; alla sua sola descrizione, il re Acazia riconobbe
immediatamente il profeta Elia (2Re 1,8); quel mantello simboleggia
quindi il profeta. Gettando il proprio mantello su Eliseo, Elia
designa – come gliel’ha ordinato il Signore – Eliseo come suo
erede e successore. È ciò che Eliseo capisce e perciò va a
congedarsi dalla propria famiglia e si separa totalmente dal proprio
mestiere, offrendolo in sacrificio a Dio, non come sacrificio
espiatorio, ma come sacrificio di comunione (che dà luogo a un bel
pasto popolare). Eliseo ha capito che il gesto di Elia gli
trasformava la propria esistenza: non vivere più nella propria
famiglia e dei propri beni, ma seguire e servire Elia per
imparare a diventare profeta come lui.
Questa è pure la nostra risposta alla chiamata di Cristo: cercare in
tutto di seguire e di servire il Signore per imparare a
diventare anche noi portatori di vita e di speranza. Vi è tuttavia
un problema maggiore: per Eliseo, seguire Elia era mettere i propri
passi in quelli del profeta; per i discepoli di Gesù, seguirlo
significa camminare con lui per le strade della terra d’Israele, ma
noi, come potremmo seguire uno che è salito nei cieli e vive ormai
accanto a Dio?
La risposta a questa domanda è meno complicata di quanto sembra. A
condizione però di non riflettere in modo troppo individualista. Se
pensiamo solo a noi stessi in relazioni con Gesù, è difficile
capire come ci possa essere un camminare dietro al Cristo. Se invece
pensiamo a noi appartenenti a una comunità, a un corpo, allora la
risposta è più semplice. Tra Gesù che, con l’ascensione è
ritornato a Dio, e noi che viviamo nel xxi
secolo, vi e il grande corteo dei discepoli di Gesù e di
quelli che hanno camminato dietro a loro, i padri delle Chiese e i
loro successori, fra i quali si trovano i riformatori e i loro
seguaci, e oggi, qui a Biella, un numeroso gruppo di persone che
cercano di rispondere, con noi, alla chiamata di Gesù. Non siete
soli a Biella a cercare di rispondere alla chiamata di Cristo; vi
sono altri cristiani: cattolici, ortodossi, evangelici, che
anch’essi vogliono rispondere a questa chiamata. Nel cercare
di creare fra noi cristiani dei legami di amore e di comunione,
diventiamo segno dell’amore che il Cristo stesso è venuto a
manifestare nel mondo.
A questo punto vorrei solo aggiungere un pensiero: il lavoro
ecumenico non è facile. Tutti lo sappiamo. Ma in questi anni viviamo
un tempo che potrebbe davvero essere un tempo di grazia per la
ricerca dell’unità visibile della Chiesa: non si tratta di pensare
che i cattolici diventeranno protestanti o noi protestanti
diventeremo cattolici romani! Si tratta invece di non temere di
perdere la nostra identità se riconosciamo nei cattolici e negli
ortodossi dei fratelli insieme ai quali possiamo vivere la nostra
fede cristiana e con i quali possiamo essere pienamente in comunione.
Ogni famiglia è formata da persone diverse che non sono né uguali
né identiche, eppure ciò non impedisce loro di partecipare agli
stessi pasti. Fra di loro vi sono legami di familiarità e di amore,
ma anche momenti di tensione o di crisi, ma ciò non impedisce che si
ritrovino la sera attorno alla stessa tavola per la cena. È questo
che dobbiamo ora realizzare con i fratelli cattolici e ortodossi.
Non possiamo più trincerarci dietro a pensieri come quelli che hanno
dominato le Chiese in questi ultimi cinquant’anni, secondo i quali
vi erano fra noi troppe diversità per poter sigillare l’unità. I
teologi hanno lavorato e sono giunti alla conclusione che le nostre
diversità non giustificavano più le divisioni esistenti. Non
dobbiamo neanche permettere che i responsabili delle Chiese temano di
avanzare sul cammino ecumenico sotto il pretesto che il popolo
cristiano non seguirà. Ora è venuto il momento di manifestare
apertamente che non possiamo più sopportare di vivere divisi
allorché ciascuno di noi, cristiani di diverse Chiese, cerchiamo di
seguire il Cristo, camminando dietro a quelli che ci hanno preceduto
sulla strada che il Cristo, come “primo di cordata”, ha
aperto.
Oggi, fratelli e sorelle, la sequela di Cristo ci chiede di
manifestare e di esprimere visibilmente la già reale unità che
esiste fra i cristiani, altrimenti saremo del tutto incredibili agli
occhi e agli orecchi del mondo, che è fin troppo felice di poter
ridere di quei cristiani che predicano la pace e si fanno guerra.
Il Signore ci dia il coraggio e l’audacia di camminare su quella
via e di riconoscere negli altri davvero dei fratelli e delle sorelle
in Cristo. A lui la gloria e la lode per sempre. Amen.
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