Numeri
21,4-9
4
Poi gli Israeliti partirono dal monte Or, andarono verso il mar Rosso
per fare il giro del paese di Edom; durante il viaggio il popolo si
perse d'animo. 5 Il popolo parlò
contro Dio e contro Mosè, e disse: «Perché ci avete fatti salire
fuori d'Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non
c'è né pane né acqua, e siamo nauseati di questo cibo tanto
leggero». 6 Allora il SIGNORE mandò
tra il popolo dei serpenti velenosi i quali mordevano la gente, e
gran numero d'Israeliti morirono. 7 Il
popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo
parlato contro il SIGNORE e contro di te; prega il SIGNORE che
allontani da noi questi serpenti». E Mosè pregò per il popolo. 8
Il SIGNORE disse a Mosè: «Fòrgiati un serpente velenoso e mettilo
sopra un'asta: chiunque sarà morso, se lo guarderà, resterà in
vita». 9 Mosè allora fece un
serpente di bronzo e lo mise sopra un'asta; e avveniva che, quando un
serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo,
restava in vita.
Questo
brano del libro dei Numeri è molto particolare ed è inserito nel
nostro lezionario in questo tempo che precede la Pasqua perché Gesù
stesso riprende questo racconto dell’AT nel vangelo di Giovanni nel
dialogo con Nicodemo, al quale dice: «E, come Mosè innalzò il
serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell'uomo sia
innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna».
(Giovanni 3,14-15)
Nelle
parole di Gesù in questo brano di Giovanni, Gesù stesso («Il
figlio dell’uomo») si paragona al serpente innalzato da Mosè nel
deserto. Il verbo “innalzare” nel vangelo di Giovanni ha un
significato particolare e comprende sia la crocifissione (Gesù viene
innalzato, cioè appeso, sulla croce), sia la resurrezione e il
ritorno al Padre (Gesù sale al Padre, viene innalzato e torna nei
cieli, da dove è venuto).
Quindi
da un lato è difficile, per noi cristiani, leggere questo brano di
Numeri senza pensare a Gesù, ma è anche vero che dobbiamo capire
che cosa vuole dire questo racconto nel suo contesto, che si situa
nel tempo molti secoli prima di Gesù.
Vediamo
che cosa sta succedendo in quello che ci racconta il libro dei
Numeri: il popolo di Israele sta facendo il suo lungo cammino nel
deserto e, come è accaduto più volte, anche qui perde di nuovo la
fiducia: non solo non si fida di Mosè, ma non si fida più nemmeno
di Dio.
Il
popolo è sfiduciato e scontento, è stufo della manna, che è «cibo
troppo leggero»; insomma: quello che ha non gli basta, vuole di più.
Il popolo non sta morendo di fame, ma vuole più cibo, o vuole altro
cibo. Non chiede il necessario, ma chiede di più.
Inoltre,
ha paura di morire - «Perché ci avete fatti salire fuori d'Egitto
per farci morire in questo deserto?» - ma in effetti non sta
morendo, sta faticando, questo è vero, per affrontare il lungo
cammino verso la terra promessa, ma non è in pericolo.
E
ogni volta che è stato in pericolo, che ha avuto fame, sete o che ha
trovato sulla sua strada dei nemici, Dio lo ha salvato.
Dunque:
Israele non ha tutto, non ha tutto quello che potrebbe desiderare,
non ha ancora la terra promessa ma ha il necessario e ha Dio che lo
accompagna nel cammino e lo aiuta ad affrontare ogni difficoltà che
si presenta. Ma questo non gli basta, non gli basta il necessario e
non gli basta l’aiuto di Dio.
Ha
il necessario per camminare, ma forse non ha più voglia di
camminare.
E
allora si ribella a Dio: «ci avete fatti salire fuori d'Egitto per
farci morire in questo deserto?». La morte non c’è, ma Israele la
vede, la sente vicina, perché è morta la fiducia, è morta la
fiducia in Dio.
Che
cosa fa Dio? A Israele che non vede che morte, manda la morte, per
mano – anzi per bocca - dei serpenti velenosi. Forse istintivamente
ci sembra che Dio esageri: perché mandare uno strumento di morte
contro il suo popolo, dopo che lo ha salvato così tante volte? Dio
esagera? Dio è ingiusto?
Questa
reazione che possiamo avere è naturale, ci dispiace che una parte
del popolo muoia, ma in realtà non ha ragion d’essere. Non solo
perché così facendo ci ergiamo a giudici di Dio, ma perché Israele
stesso riconosce che Dio ha ragione; infatti va da Mosè e gli dice:
«Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il SIGNORE e contro
di te; prega il SIGNORE che allontani da noi questi serpenti».
Mosè
prega, come gli è stato chiesto e Dio ascolta. Ascolta e esaudisce
la preghiera, ma non come forse ci aspetteremmo e come ha fatto altre
volte, per esempio quando il popolo aveva sete e gli ha dato
immediatamente dell’acqua, facendola scaturire dalla roccia.
Questa
volta Dio chiede a Mosè di costruire un serpente di bronzo e di
metterlo sopra un bastone. Quando qualcuno sarà morso, se guarda il
serpente di bronzo che è in cima al bastone non morirà.
Dietro
questo fatto c’è un’idea che a noi sembra un po’ troppo
magica, ma che nell’antichità era molto diffusa: se qualcuno
soffriva a causa del veleno di una pianta o di un animale – come in
questo caso – doveva guardare un’immagine di quella pianta o di
quell’animale e questo poteva salvarlo dal pericolo.
Dunque,
la preghiera degli Israeliti è esaudita, la salvezza c’è, ma non
è automatica: bisogna guardare il serpente che Mosè costruisce su
ordine di Dio. Guardare il serpente di bronzo non è un atto magico,
ma è un atto di fiducia in Dio, e la fiducia si mostra
nell’obbedienza a quello che Dio ha detto di fare.
Questo
racconto ci dice quindi due cose: da un lato che la sfiducia porta
alla morte e dall’altro che se si torna ad aver fiducia in Dio –
fiducia che appunto si dimostra guardando il serpente – Dio
sconfigge la morte e ridona la vita.
La
sfiducia porta alla morte: nel racconto la morte è molto reale,
nella nostra esperienza non ci sono serpenti che vengono a morderci,
ma possiamo lo stesso sperimentare che una vita senza fiducia è una
non-vita, una vita cui manca qualcosa di importante, una non-vita.
Nessuno
basta a se stesso, e Israele nel deserto – benché fosse un popolo
numeroso – non bastava a se stesso, non ce l’avrebbe fatta da
solo. Israele ha bisogno di Dio, ma è necessario che Israele abbia
fiducia in Dio, altrimenti diventa tutto inutile, altrimenti si
rovina da solo.
Questo
racconto ci dice addirittura che la mancanza di fiducia è morte. E
dunque ci dice che la fiducia è vita; e la vita è fiducia. Gli
Israeliti che vengono morsi dai serpenti velenosi – cioè quegli
Israeliti che avevano perso la fiducia in Dio e si erano – senza
accorgersene – cercati la morte da soli, quegli Israeliti che sono
già stati morsi dai serpenti e sono in pericolo di vita, possono
vivere guardando il serpente di rame, possono vivere cioè rimettendo
la loro fiducia in Dio.
L’evangelo
di questo strano racconto è che all’israelita morso dal serpente,
all’israelita in pericolo di vita è data la possibilità di non
morire, è data la possibilità di vivere, di essere salvato.
Questo
racconto parla di esseri umani in pericolo e parla a esseri
umani in pericolo. Se pensiamo che nella nostra vita sia tutto a
posto l’evangelo non è diretto a noi.
L’evangelo
è diretto a donne e uomini ribelli, ribelli perché sfiduciati, come
gli Israeliti di questo racconto. E questo racconto dice chiaramente
che nella sfiducia nei confronti di Dio sta la morte, la non vita, la
vita morta, potremmo
dire; e che nella fiducia in Dio sta la vita.
Questo
racconto ci interpella ogni volta che pensiamo di non avere bisogno
di Dio e vogliamo fare a meno di Dio; “era meglio in Egitto” è
la frase di chi pensa di bastare a se stesso e di non avere bisogno
di Dio. Meglio senza Mosè, senza esodo, senza libertà, senza Dio. È
la voce del ribelle sfiduciato.
Al
ribelle sfiduciato questo racconto dice: guarda
il serpente, che ovviamente vuol
dire: Guarda Dio.
Volgi il tuo sguardo –
ovvero la tua fiducia – verso Dio, e non verso l’Egitto. Ritorna
a guardare a Dio e a fidarti e affidarti a lui e sarai salvato,
la tua vita ritroverà senso e scopo.
Non
è un caso che questo racconto sia ripreso da Gesù nel dialogo con
Nicodemo. Siamo all'inizio del vangelo di Giovanni ma viene già
chiaramente detto che cosa aspetta Gesù: l’innalzamento. Gesù
sarà innalzato come il serpente di Mosè, dove innalzato – come
abbiamo detto all’inizio – vuol contemporaneamente dire
crocifissione e risurrezione, abbassamento al punto più basso
dell’esistenza umana – la croce - e innalzamento alla gloria del
Padre.
Questo
racconto ci dice di guardare a Dio non quando siamo tristi – questo
lo dicono altri testi – ma quando siamo ribelli e quando siamo
colpevoli. E la sua rilettura cristiana che troviamo in Giovanni ci
dice di guardare a Cristo quando siamo ribelli e quando siamo
colpevoli.
E
come il cammino di Israele non si è interrotto qui, ma è potuto
proseguire fino alla terra promessa, così anche il nostro cammino,
nonostante le nostre ribellioni, prosegue
se lo rimettiamo ogni giorno
nelle mani di Gesù, che per noi è stato innalzato, ovvero
per noi è morto e risorto.
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