1
Corinzi 14,1-3.20-25
“Desiderate
ardentemente l’amore, non tralasciando però di ricercare i doni
spirituali, principalmente il dono di profezia.
Perchè
chi parla in altra lingua non parla agli uomini ma a Dio; poiché
nessuno lo capisce, ma in spirito dice cose misteriose. Chi
profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione,
di esortazione e di consolazione.
Fratelli,
non siate bambini quanto al ragionare; siate pur bambini quanto a
malizia, ma quanto al ragionare, siate uomini compiuti.
E’
scritto nella legge: “Parlerò a questo popolo per mezzo di persone
che parlano altre lingue e per mezzo di labbra straniere; e neppure
così mi ascolteranno” dice il Signore.
Quindi
le lingue servono di segno non per i credenti, ma per i non credenti;
la profezia, invece, serve di segno non per i non credenti ma per i
credenti.
Quando
dunque tutta la chiesa si riunisce, se tutti parlano in altre lingue
ed entrano degli estranei o dei non credenti, non diranno che siete
pazzi?
Ma
se tutti profetizzano ed entra qualche non credente o qualche
estraneo, egli è convinto da tutti, è scrutato da tutti, i segreti
del suo cuore sono svelati; e così gettandosi giù con la faccia a
terra, adorerà Dio, proclamando che Dio è veramente fra voi”.
I
capitoli 13 e 14 della prima lettera di Paolo ai Corinzi contengono
delle affermazioni per me molto suggestive che mi hanno sempre
colpito perché hanno accresciuto sia la mia fede in Dio sia il mio
amore nei confronti di Gesù Cristo e nel suo Evangelo.
La
prima frase del capitolo 13 di Prima Corinzi mi era stata suggerita
anni fa grazie alla lettura in occasione dell’anniversario, nel
tempio di Piedicavallo, del mio matrimonio con Anna.
“Se
parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore,
sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono
della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e
avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi
l’amore, non sarei nulla.”
Poi
vi sono le prima frasi del capitolo 14 oggetto delle mia predicazione
di oggi che sono altrettanto suggestive: “Desiderate ardentemente
l’amore, non tralasciando però di ricercare i doni spirituali,
principalmente il dono di profezia. Perché chi parla in altra lingua
non parla agli uomini, ma a Dio; poiché nessuno lo capisce, ma in
spirito dice cose misteriose. Chi profetizza, invece, parla agli
uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di
consolazione.
Dedicato
all’amore è stato il discorso del pastore Michael Curry della
chiesa episcopale americana in occasione dello storico matrimonio in
Gran Bretagna fra il principe Harry e la sua sposa americana Meghan.
Il pastore ha subito citato Martin Luther King nella sua predicazione
“Dobbiamo
scoprire il potere dell’amore, il potere redentore dell’amore”.
Quello
che più mi ha colpito di questo matrimonio non sono stati i
cappellini variopinti degli invitati ma lo stupore degli organi di
informazione nei confronti delle parole del pastore.
Forse
ci si aspettava una predicazione più tradizionalista, più legata
all’evento di matrimonio regale ma le parole semplici che derivano
dall’Evangelo di Gesù Cristo sono ancora quelle che destano
stupore in chi, forse, non ha conosciuto fino in fondo il messaggio
d’amore che dovrebbe essere tipico di una chiesa protestante e
comunque di una chiesa cristiana in generale.
Nel
messaggio di Paolo ai Corinzi vi è un richiamo forte all’amore ma
anche ai doni spirituali: in primo piano vi è la capacità di
profetizzare.
Che
cosa significa profetizzare? Chi è un profeta? Certo vi sono i
profeti che si leggono nella Bibbia: Geremia od Isaia od altri, però
la loro caratteristica non è tanto il prevedere il futuro ma
testimoniare la presenza di Dio ieri oggi e domani. E questo lo si
può fare in tempi e modi diversi e noi stessi lo possiamo fare anche
nella nostra comunità con un linguaggio di esortazione, di
edificazione, di consolazione.
Paolo
dice che la profetizzazione è più importante del parlare in lingue.
Che cosa significa questa frase che tira in ballo quella che si
chiama con parola complicata di origine greca, la glossolalia
(praticata nella chiesa di Corinto e ripresa anche nelle chiese
pentecostali) che significa la capacità di parlare in altre lingue
sotto l’influsso dello spirito.
C’è
una bella risposta del teologo pastore Paolo Ricca che ho trovato
recentemente in un sito della chiesa valdese.
Ecco
una parte significativa del commento di Ricca:
“Più
interessante però della domanda se il «parlare in lingue» sia
«segno divino» oppure «solo autosuggestione», mi sembra essere
quest’altra domanda: Al di là della natura del fenomeno, quale può
essere il suo significato? A me pare che un significato possa essere
cercato principalmente in due direzioni. La prima è che questa
«lingua degli angeli» (I Corinzi 13, 1), cioè non umana, parlata
però occasionalmente da creature umane, segnala in maniera
inequivocabile l’alterità
di
Dio e delle cose divine, che però si manifesta in mezzo alla
comunità umana: Dio è in mezzo agli uomini, quindi presente e
vicino a loro, ma come radicalmente altro; non è un pezzo di questo
mondo. Come sono diversi i suoi pensieri e «più alti» dei nostri
(Isaia 55, 9), così è diversa, se così si può dire, la sua
lingua, quando, attraverso lo Spirito, parla direttamente, e non
attraverso la mediazione di linguaggi umani.
E
che cosa vuol dire che Dio è «altro» rispetto a noi? Vuol dire che
non è un prodotto umano, creato dall’immaginazione, dal desiderio
oppure dalle paure o dalle frustrazioni dell’uomo. Ma la sua divina
alterità non significa estraneità, lontananza, e neppure
incomunicabilità: Dio è Parola, che posso anche non capire, ma che
può essere «interpretata», cioè tradotta nella mia lingua. Dio
vuole, sì, manifestare la sua alterità, ma, come Altro, vuole
comunicare con noi. Ecco perché Pietro, dopo aver parlato «in
lingue», fa un discorso che tutti possono capire. Ma c’è un
secondo significato possibile. Chi sono stati i primi cristiani a
«parlare in lingue»? Sono stati gli apostoli, asserragliati nella
«camera alta», paralizzati dalla paura, che mai avrebbero osato
rivolgersi alla folla con un discorso coraggioso (e pericoloso) come
quello di Pietro: lo Spirito li ha liberati dalla paura e ha sciolto
la loro lingua. E chi erano i membri della chiesa di Corinto che
occasionalmente parlavano «in lingue»? Erano per lo più schiavi o
ex-schiavi, gente di umilissima condizione, probabilmente analfabeti,
che mai e poi mai avrebbero osato parlare in pubblico e forse non
sarebbero stati in grado di costruire un discorso razionale: ma ecco
che lo Spirito dà loro la parola, come dice il profeta: «La lingua
del muto canterà…» (Isaia 35, 6). In questo senso la glossolalia
è davvero «segno divino», non per il suo aspetto miracoloso, ma
perché fa parlare i «muti», cioè quelli che non osano parlare. Il
miracolo è questo”
E’
molto bella questa interpretazione di Ricca di far parlare i “muti”
tra virgolette ossia quelli che in genere non osano parlare. Un’altra
mia interpretazione mi è stata suggerita da chi ha dimestichezza con
i mezzi moderni quali il computer o internet. Ho scoperto che un
giovane ha inventato, per comunicare con la propria ragazza
giapponese, una app ossia un’applicazione di internet secondo cui è
possibile che parlare in lingue diverse attraverso il proprio
telefonino. Questo significa che fra due persone in modo simultaneo
una conversazione telefonica possa essere tradotta ad esempio dal
francese in italiano per essere subito compresa con l’utilizzo dei
rispettivi cellulari.
Ecco
quindi che le parole di Paolo possano essere meglio comprese nel
mondo di oggi per dare della glossolalia ossia della capacità di
parlare con lingue diverse non una interpretazione miracolosa o
simbolica come ha spiegato Ricca ma una capacità che adesso si può
realizzare con tecniche moderne sconosciute in passato.
Per
svolgere questa predicazione mi sono avvalso anche del sermone di
Luciano Zappella della chiesa valdese di Bergamo che ho trovato molto
interessante. Ecco alcuni brani:
“Di
fronte alla scelta tra glossolalia e profezia, Paolo non ha dubbi:
sceglie la profezia. Lo fa non per contrarietà nei confronti della
glossolalia, ma sulla base di un criterio molto chiaro: solo ciò che
edifica deve essere messo al centro di tutto. La crescita spirituale
di una comunità non la si ottiene con effetti speciali o con formule
più o meno misteriose, ma usando parole comprensibili, capaci di
coinvolgere sia il cuore sia la mente. Paolo è pienamente convinto
che una sola frase detta con parole chiare vale molto di più di
mille parole pronunciate in una lingua incomprensibile. Questo per il
semplice fatto che l’evangelo è un messaggio che può e deve
essere trasmesso con parole umane, con parole che si rivolgono sia
alla ragione sia al sentimento. Non c’è bisogno di esperienze
spettacolari o soprannaturali per ricevere o per comunicare
l’evangelo!”
“L’amore
rende impossibile la gelosia, l’odio, il disprezzo. Al tempo
stesso, l’amore rende possibile una autentica vita comunitaria,
indipendentemente dalla forma organizzativa di una comunità e dalle
forme liturgiche del culto. Ma soprattutto, l’amore rende possibile
l’edificazione della comunità.
Noi
siamo figli di quella Riforma che, spezzando la separazione tra il
clero e i laici, ha sottolineato, Bibbia alla mano, come tutti i
credenti, dal primo all’ultimo, siano chiamati a predicare
l’evangelo di Cristo, a dire la nostra fede, grande o piccola che
sia. Solo così potremo essere una comunità profetica”
Nessun commento:
Posta un commento