DIALOGHI CON PAOLO RICCA
Sono stato battezzato nella Chiesa cattolica romana, ma da pochi mesi sono entrato a far parte, in modo ufficiale, della Chiesa evangelica valdese, di cui ho sempre condiviso in gran parte la dottrina teologica. Ultimamente, approfondendo quest’ultima, ho iniziato a nutrire una grande perplessità sul tema della doppia predestinazione. Domando: ha ancora senso parlare di questo argomento oppure lo possiamo considerare datato? Perché Dio, che è tutto Bene dovrebbe scegliere per alcuni esseri umani la salvezza (bene) e per altri la dannazione (male)? Se il genere umano è predestinato, allora siamo tutti come dei «burattini» nelle mani di Dio che è il nostro «burattinaio», e ciò rischia di portarci verso il disimpegno.
Massimiliano Bianchi – PistoiaNo, il tema non è datato, a meno di non considerare datato il tema di Dio. Ha dunque senso parlarne, anche se non è facile (Calvino dice che questo tema «sembra a molti alquanto ingarbugliato»). Ha senso parlarne perché – come ha giustamente intuito il nostro lettore – la dottrina della predestinazione ha a che fare molto da vicino con la realtà profonda di Dio, anzi ci conduce, come la dottrina della Trinità, nel cuore del suo mistero. Dice ancora Calvino: interrogarsi sulla predestinazione significa «entrare nel santuario della sapienza divina», ma per evitare che questo santuario si trasformi in «un labirinto», bisogna che la mente umana non pretenda a tutti i costi di scandagliare ogni segreto che Dio ha voluto riservare a sé soltanto. Calvino lo ricorda non per soffocare le domande, ma per avvertire che non a tutte le domande è possibile oggi dare una risposta ed è meglio una domanda senza risposta piuttosto che una domanda con una risposta sbagliata.
Ma veniamo alla domanda del nostro lettore: riguarda la «doppia predestinazione» sulla quale egli nutre «una grande perplessità». Anch’io la nutro. Mi chiedo però se partire dalla «doppia predestinazione» sia il modo migliore per avviare una riflessione sulla predestinazione. Propongo un itinerario un po’ diverso, articolato in tre tempi: che cos’è la predestinazione? Che cos’è la doppia predestinazione? Che cosa possiamo pensarne?
Un termine rischioso
1. Che cos’è la predestinazione? Il termine, benché biblico, può facilmente trarre in inganno in quanto suggerisce l’idea di un «destino» molto simile al Fato che ha dominato tanta parte del pensiero greco antico e al quale ogni esistenza umana era sottoposta, senza la possibilità di sfuggirgli o di modificarlo. Ne può nascere una concezione fatalista della storia e della vita, e da qui a pensare che, in balia di quel Fato, «siamo tutti come burattini» nelle mani di un «burattinaio» che sarebbe Dio – come teme il nostro lettore –, il passo è breve. Ecco: la prima cosa da fare per cercare di comprendere la dottrina delle predestinazione è, se possibile, liberarsi da questa visione, che ne è una caricatura. Forse la parola «predestinazione» non esprime adeguatamente il messaggio che contiene. Meglio sarebbe parlare di «elezione». La predestinazione infatti non è altro che l’elezione di cui parla l’apostolo Paolo quando dice che in Cristo Dio «ci ha eletti prima della fondazione del mondo» (Efesini 1, 4). È l’esperienza di Geremia, al quale Dio rivela: «Prima ch’io t’avessi formato nel seno di tua madre, io t’ho conosciuto» (Geremia 1,5). Ed è quello che dice l’apostolo Paolo: «Quelli che Dio ha preconosciuti, li ha pure predestinati» (Romani 8, 29). Predestinati a che cosa? «A essere conformi all’immagine del suo Figlio». Non dunque a essere dei burattini, ma a conformarci a Cristo, cioè a «camminare com’egli camminò» (I Giovanni 2, 6), a seguire il suo esempio facendo quello che ha fatto lui (Giovanni 13, 15), ad avere «lo stesso sentimento» che è stato in lui (Filippesi 2, 5), a custodire e osservare le sue parole. A tutto questo tende la predestinazione: non a trasformarci in automi o marionette, ma a farci crescere verso Cristo. Potremmo esprimerci in questi termini: predestinazione vuol dire che Gesù è il nostro destino. Ma appunto: questo «destino», che è Gesù, è «prima che Abramo fosse» (Giovanni 8, 58), è iscritto in Dio da sempre. Ecco il senso del pre-conosciuti e pre-destinati: Dio ci ha eletti, cioè ci ha pensati con amore, «prima della fondazione del mondo», cioè prima di creare il mondo e di creare noi. Un po’ come una madre ama il suo bambino prima ancora di concepirlo, così Dio ci ha amati non solo prima che noi amassimo (debolmente) lui, ma addirittura prima che noi esistessimo. Questo mi sembra un pensiero stupendo, che già riempiva di meraviglia l’autore del Salmo 139: «Nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che m’erano destinati, quando nessuno d’essi era sorto ancora. Oh, quanto mi son preziosi i tuoi pensieri, o Dio!» (vv. 16-17). Non siamo figli del caso né della necessità, ma di un pensiero di Dio. Siamo un pensiero di Dio. Come spiegarlo? Perché Dio ci pensa? Perché ci pensa con amore e ci elegge? Non c’è altra riposta che questa: perché Dio è così, lui che «sceglie le cose che non sono come se fossero, affinché nessuna carne si glori davanti a Dio» (I Corinzi 1, 28-29). La risposta, cioè, non sta in noi, ma in lui. È questa – per citare ancora Calvino – «l’altezza della sapienza di Dio, che egli ha voluto che fosse da noi adorata più che compresa».
La doppia predestinazione
2. Ma come la mettiamo con la doppia predestinazione? Secondo questa dottrina – come ricorda il nostro lettore – Dio destina gli uni a salvezza e vita eterna, usando verso loro misericordia, e gli altri a condanna ed eterna perdizione, usando verso questi il metro della giustizia? È una dottrina proponibile e difendibile? Dio è davvero questa specie di Giano bifronte, che con una mano salva e fa vivere e con l’altra condanna e fa morire? Non c’è forse qui una contraddizione insostenibile, tale da suggerire un pensiero assurdo, per non dire blasfemo, cioè che in Dio ci sarebbe anche il suo contrario, Dio e Antidio insieme, una miscela davvero troppo umana di amore e odio, luce e tenebre, vita e morte, salvezza e perdizione? Calvino, come altri teologi prima di lui (a esempio, gli «agostiniani moderni» Gregorio da Rimini e Ugolino da Orvieto) e altri dopo di lui (a esempio il «partito» vincente al Sinodo di Dordrecht del 1618-19), hanno sostenuto, malgrado tutte le difficoltà, la dottrina della doppia predestinazione, sia pure con notevoli variazioni che qui non possiamo illustrare, anche se ne varrebbe la pena. Che dire al riguardo ? Farò due sole considerazioni.
[a] La prima è che nella Bibbia c’è, in tutta una serie di passi, qualcosa che assomiglia a una doppia predestinazione, anche se non mi sembra si possa dire che nella Bibbia ci sia una dottrina in merito. Nella Bibbia la doppia predestinazione non viene teorizzata, ma semmai constatata. Alcuni testi biblici affermano o implicano la doppia predestinazione (o qualcosa del genere), altri testi la escludono. Farò un solo esempio. Da un lato la Bibbia afferma ripetutamente che la salvezza è per tutti («Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti» Romani 11, 32); d’altro lato ci sono parole di Gesù e di Paolo che dicono o sembrano dire il contrario: «Molti sono i chiamati e pochi gli eletti» (Matteo 22, 14); «Uno sarà preso e l’altro lasciato» (Matteo 24, 40); Dio «fa misericordia a chi vuole e indura chi vuole» (Romani 9, 18), come in antico indurò il cuore del Faraone. Dunque, la contraddizione c’è nella Bibbia stessa, è innegabile e – mi sembra – insuperabile.
[b] Può però essere superata se si segue il teologo Karl Barth che su questa questione ha scritto alcune delle sue pagine più alte, muovendo una critica radicale all’interpretazione tradizionale della dottrina della doppia predestinazione. Qual è il suo discorso? In sintesi è questo: la doppia predestinazione – il «sì» e il «no» di Dio sull’umanità: il «sì» sull’esistenza dell’umanità, il «no» sul suo peccato – esiste realmente, ma il «no» di Dio è stato inchiodato e cancellato da Cristo sulla croce. Dio stesso, attraverso Cristo, ha preso su di sé, portato e sopportato tutto il peso del suo «no», della condanna e della morte. Dopo la croce e nella luce della risurrezione, resta solo il «sì», solo la predestinazione alla salvezza e alla vita. In Cristo troviamo la nostra elezione (e, come ho detto, la nostra predestinazione), perché siamo eletti in lui, l’«eletto di Dio» (Luca 9, 35; 23, 35); e troviamo anche la cancellazione della nostra condanna, perché la nostra condanna l’ha portata lui. In Cristo la doppia predestinazione diventa un’unica predestinazione – quella alla salvezza e alla vita eterna. Che dire di questa interpretazione? Direi che essa corrisponde sicuramente al cuore del messaggio evangelico e come tale va accolta come linea di fondo di un discorso cristiano sull’argomento. Essa dissipa le ombre che la dottrina classica della doppia predestinazione poteva proiettare su Dio e libera le coscienze da ogni timore, ansia o turbamento. Ma anche qui è consigliabile non trasformare il messaggio in teorema e, ancora una volta, non rinchiudere Dio in un evangelo diventato sistema.
La posizione di Barth
3. Che dire in conclusione? Per quanto concerne la doppia predestinazione ci sono due possibilità: o sospendere il giudizio, accettare la contraddizione presente nella stessa Bibbia, senza pretendere di risolverla; oppure far propria la posizione di Barth nel senso sopra indicato – e personalmente propenderei per queste seconda ipotesi. Per quanto concerne invece la predestinazione (non quella doppia, ma quella semplice, e non tanto la dottrina, quanto il fatto), essa è biblica, cristiana ed evangelica e fa parte della nostra Confessione di fede. Per una volta la voglio citare (nell’italiano dell’epoca), dalla versione del 1662 (che riproduce sostanzialmente quella francese del 1655): «Noi crediamo che Iddio cava da quella corruttione e condannatione [del genere umano, di cui si parla nell’articolo precedente] le persone ch’egli ha elette dinanzi la fondatione del mondo, non perché egli prevedesse in loro alcuna buona dispositione alla fede o alla santità, ma per la sua misericordia in Jesu Cristo suo figliuolo…» (articolo 11). La predestinazione ha un grandissimo pregio, anzi due. Il primo è che àncora saldamente la vita, la fede, la salvezza in Dio, riconosciuto e confessato come alfa e omega, come principio e fine del nostro «destino». Questo mette nel cuore la certezza incrollabile del favore divino che non verrà mai meno, per cui la salvezza non è a rischio, per quanto avverse possano essere o diventare le circostanze della vita. Non dimentichiamo che la predestinazione è stata di immenso conforto per i protestanti perseguitati in Francia e altrove: il «sì» di Dio li ha per così dire corazzati contro il «no» di Roma e dei suoi alleati che cercavano di distruggerli. Il secondo pregio è che la predestinazione fonda quello che è stato chiamato «il trionfo della grazia», in quanto l’elezione in Dio precede assolutamente ogni merito dell’uomo, ogni sua eventuale «buona disposizione alla fede o alla santità». Potremmo dire che la predestinazione è il corollario del primato della grazia gratuita e incondizionata, cara alla Riforma, o addirittura il suo coronamento. Ecco perché Calvino – ancora lui – scrive che questa dottrina «non è soltanto utile, ma anche dolce e saporita per i frutti che reca». Gli fece eco, nel Cinquecento, il bestseller del protestantesimo italiano, Il beneficio di Cristo, contro cui si accanì per decenni l’Inquisizione romana, che a un certo punto parla della «consolazione ineffabile» che suscita nel credente «la memoria della sua predestinazione», il che lo induce a ripensare «continuamente nel suo cuore questa dolcissima predestinazione» (Benedetto da Mantova e Marcantonio Flaminio, Il beneficio di Cristo, a cura di Salvatore Caponetto, Claudiana 1975, p. 99).
Tratto dalla rubrica "Dialoghi con Paolo Ricca" del settimanale Riforma del 21 settembre 2007
1 commento:
Una riflessione seria,posata e sicuramente interessante, molto chiara e dettagliata. Rappresenta sicuramente un punto di partenza...
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