Domenica
19 aprile 2020 – prima dopo Pasqua
Isaia
40,25-31
«A
chi dunque mi vorreste assomigliare, a chi sarei io uguale?» dice il
Santo. Levate gli occhi in alto e guardate: Chi ha creato queste
cose? Egli le fa uscire e conta il loro esercito, le chiama tutte per
nome; per la grandezza del suo potere e per la potenza della sua
forza, non ne manca una. Perché dici tu, Giacobbe, e perché
parli così, Israele: «La mia via è occulta al Signore e al mio
diritto non bada il mio Dio?» Non lo sai tu? Non l’hai mai udito?
Il Signore è Dio eterno, il creatore degli estremi confini della
terra; egli non si affatica e non si stanca; la sua intelligenza è
imperscrutabile. Egli dà forza allo stanco e accresce il vigore
a colui che è spossato. I giovani si affaticano e si stancano; i più
forti vacillano e cadono; ma quelli che sperano nel Signore
acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non
si stancano, camminano e non si affaticano.
Sperare
è come volare come un’aquila. Questa è l’immagine di questo
bellissimo testo del profeta Isaia che ci viene proposto questa
domenica dopo Pasqua.
Sperare
è volare senza stancarsi; ma non “senza stancarsi” fisicamente,
tutti noi ci stanchiamo, è una cosa più che normale…
Sperare,
potremmo dire, è non stancarsi di andare avanti, di guardare avanti,
anzi di guardare in alto: «Levate gli occhi in alto e guardate:
Chi ha creato queste cose? Egli le fa uscire e conta il loro
esercito, le chiama tutte per nome…»
Qui
il profeta parla al popolo che è in esilio in Babilonia. E al
popolo, che vede solo la sua sofferenza e la sua tristezza, Dio
chiede di guardare in alto, all’opera di Dio, e gli parla degli
astri, delle stelle. Dio le ha create e le conosce una ad una, le
chiama addirittura per nome…
Dio
invita il popolo a guardare in alto perché non perda la speranza,
perché non dubiti che il Dio che ha creato quelle stelle e tutto ciò
che esiste è lo stesso Dio che verrà a liberarlo dall’esilio e a
ricondurlo a casa. Il Dio creatore è anche il Dio liberatore, che –
come è scritto all’inizio di questo stesso capitolo - ha appena
detto al popolo in esilio
«Consolate,
consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di
Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è
compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato» (40,1-2).
L’esilio
sta per finire, questa è la promessa di Dio. Ma il popolo è ancora
lì, a Babilonia, e stenta ancora a credere che la liberazione sia
vicina. Per questo il profeta torna dal popolo e va a invitarlo a
guardare in alto, va a nutrire la speranza del popolo in Dio, che lo
libererà.
Perché
sperare è anche distogliere lo sguardo da se stessi (e dal proprio
dolore) per guardare in alto, per guardare a Dio, per guardare
avanti.
I
versetti che abbiamo letto sono la conclusione di un discorso che,
come dicevamo, è cominciato all’inizio del capitolo, con le parole
di consolazione che ho citato sopra e in cui il popolo è invitato a
preparare la strada al Signore che viene a liberare Israele
dall’esilio in babilonia (brano ripreso dal Giovanni il battista
che invita chi lo ascolta ad accogliere Gesù).
Ma
subito dopo, e quindi appena prima del brano che esaminiamo oggi, c’è
un brano polemico che si potrebbe definire una disputa, una
discussione, che sembra quasi riecheggiare alcune affermazioni del
libro di Giobbe. Così si rivolge il profeta al popolo, parlando di
Dio:
«Chi
ha misurato le acque nel cavo della sua mano o preso le dimensioni
del cielo con il palmo?
Chi ha raccolto la polvere della terra in una misura o pesato le montagne con la stadera
e i colli con la bilancia? Chi ha preso le dimensioni dello Spirito del SIGNORE o chi gli è stato consigliere per insegnargli qualcosa?»
Chi ha raccolto la polvere della terra in una misura o pesato le montagne con la stadera
e i colli con la bilancia? Chi ha preso le dimensioni dello Spirito del SIGNORE o chi gli è stato consigliere per insegnargli qualcosa?»
Il
popolo dubita e Dio, attraverso Isaia, risponde ai dubbi del popolo,
vi risponde con decisione e con un pizzico di rimprovero, ma li
ascolta e quindi li prende sul serio. E la risposta è un invito alla
fiducia, alla fiducia nel Dio creatore che ha «creato queste
cose» e che Israele conosce già: «Non lo sai tu? Non l’hai
mai udito?».
Eh
sì, perché Israele lo sa che Dio è il creatore e che è anche il
redentore, il liberatore; lo sa
perché Dio ha liberato i suoi antenati dall’Egitto e quindi
è in grado di liberarlo ora dall’esilio babilonese; lo ha
udito, perché glielo hanno detto tutti coloro che Dio stesso ha
inviato a annunciare al popolo la sua parola, da Mosè ai profeti.
Dio risponde ai dubbi di Israele, Dio risponde ai nostri dubbi, ma
non con dimostrazioni, bensì con la proclamazione della sua
parola. Dopo la disputa, arriva la bellissima parola di grazia e di
speranza:
Egli
dà forza allo stanco e accresce il vigore a colui che è spossato. I
giovani si affaticano e si stancano; i più forti vacillano e
cadono; ma quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si
alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non
si affaticano.
La
sua parola dà speranza e quindi dà forza. Dà forza allo stanco e
vigore a chi è spossato. Dio conosce la nostra stanchezza, conosce
anche la stanchezza che stiamo vivendo in questo momento di lutti e
di dolore per molti e di quarantena e di limitazioni per tutti.
Conosce
la stanchezza di medici, infermieri e operatori sanitari che lavorano
ogni giorno per curare persone (non banalmente “malati”, ma
persone) e salvare vite; conosce la stanchezza dei nonni che non
possono vedere i loro nipoti da settimane, quando magari erano
abituati a vederli tutti i giorni; conosce la stanchezza di chi
vive solo e non ha che il telefono per sentire voci amiche…
Conosce
la stanchezza dei giovani che non possono incontrare i loro amici,
degli anziani che non possono vedere i loro figli; conosce la
stanchezza di chi non lavora ed è senza stipendio ed è angosciato
per il suo futuro…
Perché
da soli non vinciamo la nostra stanchezza, non troviamo il riposo che
anche Gesù ci ha promesso quando ha detto: «Venite a me, voi tutti
che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo» (Matteo
11,28).
Da
soli non ce la facciamo perché, dice Dio, anche «i giovani si
affaticano e si stancano; i più forti vacillano e cadono»…
se facciamo affidamento sulle nostre sole forze non andiamo lontano,
nemmeno i più giovani e forti vanno molto lontano, figuriamoci
gli altri…! Ma…
«Ma
quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si
alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non
si affaticano».
La
nuova forza è la forza della speranza, che vince la stanchezza. Non
quella fisica (quella ogni tanto torna e il nostro corpo ha
bisogno di riposo), ma quella dell’animo, quella della fede che non
smette mai di guardare in alto e di guardare avanti.
E
quindi vola, vola come un aquila, uccello che ha destato ammirazione
fin dall’antichità perché vola molto in alto e può scendere
in picchiata a grande velocità per catturare le sue prede.
L’immagine dell’aquila è utilizzata nell’Esodo, nel racconto
del patto tra Dio e Israele, per parlare della liberazione
dall’Egitto: «Voi avete
visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra
ali d’aquila e vi ho condotti a me» (Esodo 19,4)
In
questi giorni in cui tra le tante vittime del Coronavirus dobbiamo
contare anche lo scrittore Luis Sepùlveda, potremmo forse usare
un’altra immagine e dire che quelli che sperano nel Signore
imparano a volare come la gabbianella del suo famoso romanzo
(diventato poi film di animazione) “la gabbianella e il gatto
che le insegnò a volare”.
Non
si impara da soli a volare, ci vuole un gatto che ci aiuti, anzi una
comunità di gatti che tutti insieme insegnano a volare alla
gabbianella che non sa ancora di poter volare. E nella storia
della gabbianella volare equivale a vivere, a essere ciò che si è,
ovvero un uccello che può volare.
Anche
per noi volare – ovvero sperare – equivale a vivere, a vivere
sotto lo sguardo e la misericordia del Signore, ed equivale a
essere ciò che si è, o meglio ciò che si è diventati in Cristo:
donne e uomini la cui vita è stata riscattata da Gesù Cristo e che
per questo vivono sperando. E chi ci insegna a volare (cioè a
sperare) non è il gatto o la comunità di gatti di Sepùlveda, ma è
l’evangelo, che è donato e affidato alla comunità dei credenti,
l’evangelo che risuona da Isaia fino all’annuncio gioioso di
Pasqua.
L’evangelo
della resurrezione è come la parola di Isaia a Israele: «consolate,
consolate il mio popolo...». la schiavitù del peccato e della morte
è finita, ora si può vivere sperando, si può volare, si può
correre per amore e camminare per fede, perché quelli che sperano
nel Signore …. corrono e non si stancano, camminano e non si
affaticano.
È
una promessa quella che ci raggiunge oggi attraverso il profeta Isaia
e che percorre tutta la Bibbia, dall’inizio alla fine, e che
culmina nell’evangelo di Pasqua che ci dice che Cristo è risorto,
la morte è vinta e ha vinto Dio, cioè ha vinto la speranza.
Anche
a noi, che a volte siamo stanchi giunge l’evangelo, per bocca del
profeta Isaia: «Egli
dà forza allo stanco».
E quindi, abbi fede, affidati al Signore, spera, e sperando
volerai, anche quando – come la gabbianella – non sai di
poterci riuscire.
Spera,
e sperando correrai senza stancarti incontro al tuo prossimo con
amore, sperando camminerai senza affaticarti per seguire Gesù
con fiducia.
Spera,
e sperando volerai come l’aquila, la fiducia in Dio che dà
forza allo stanco sarà la tua forza, l’amore e la grazia
che Dio ci ha manifestato nel Cristo crocifisso e risorto saranno le
tue ali.
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