di Giorgio Tourn
Il caso sofferto e doloroso di Eluana Englaro è stato seguito con spirito partecipe e fraterno dalle persone rispettose, molto meno dai mass media.
Ha comunque posto all’attenzione del pubblico italiano un problema di grande portata non solo sul piano etico ma anche spirituale, quello della morte. Suggeriamo qui una riflessione sulla scorta di alcuni documenti fra i molti che ci è stato dato leggere in questi ultimi tempi.
Il quotidiano La Repubblica pubblicava il 4 gennaio u.s. due articoli di Eugenio Scalfari e Adriano Sofri. Il primo, sul tema dell’etica della morte e della vita, faceva il punto sul dibattito in corso. Scalfari rivendicava la legittimità dell’etica laica nei confronti della posizione della chiesa e contestava la sua pretesa di essere l’unica autorizzata a dare normativa in questo campo. Nulla da eccepire, è la posizione di tutti i paesi civili e su questo terreno gli evangelici non hanno alcuna fatica a dialogare. Ma si potrebbe però far osservar a questi amici laici che l’esistenza è troppo complessa per potersi ridurre nello schema di una scelta responsabile di tipo kantiano. Creature ragionevoli, responsabili di noi stessi, guidati dalla nostra coscienza, sappiamo cosa dobbiamo e vogliamo fare di fronte alla morte che è tutto sommato il termine logico, naturale di una esistenza. Certo, ma tutto qui? Fatto il testamento biologico abbiamo risolto gli interrogativi dell’esistenza? Siamo kantiani anche noi ma il maestro di Koenigsberg conosceva anche il male assoluto; l’esistenza non si riduce alla scelta responsabile del soggetto. Il cristianesimo non è un umanesimo spiritualizzato. Si tratta, è vero, di un tema di riflessione da valutare più avanti, per ora la battaglia è per il testamento biologico.
Un secondo spunto di riflessione ci viene invece da un singolare lavoro dello scrittore svedese Wijkmark, La morte moderna che immagina la creazione di una Commissione governativa incaricata di pianificare la morte dei cittadini riutilizzandone le spoglie per regolare la popolazione e ridurre i costi del Servizio Sanitario. Romanzo paradossale possibile solo in una cultura nordica così intrisa del tema della morte. Può lasciare interdetti e pieni di orrore solo gli sprovveduti perché il problema della organizzazione e gestione del morire esiste in concreto, e del morire non terminale, ma comune, non siamo forse tutti organizzatori del nostro morire nel curare il corpo, nell’intervenire medicalmente chirurgicamente, trapiantando organi? E’ la ragionevole e doverosa cura di sé, della salute, si dirà, certamente ma è pianificare un futuro il cui orizzonte di morte è allontanato sempre più.
Il terzo testo che ci fornisce materia di riflessione, pubblicato sul n. 1 della rivista Confronti, ci viene dal professor Daniele Garrone della Facoltà valdese di teologia che qui riproduciamo:
«Non voglio fare un discorso in generale. Voglio dire come la penso io, per me e per nessun altro. E sostenere al tempo stesso che questa mia personalissima posizione, che posso articolare razionalmente, eticamente, spiritualmente e teologicamente, è universalizzabile non nel senso che deve valere per tutti, ma nel senso che l’accoglimento della mia richiesta non esclude, anzi comprende l’analogo rispetto di quella opposta. Il viceversa, purtroppo non vale. Rispettare la volontà di Giorgio Welby ed Eluana Englaro non obbliga nessun altro, mentre accogliere in etica pubblica i dettati delle gerarchie cattolico-romane obbliga Giorgio ed Eluana a morire come altri ha deciso, per di più – dico io – in nome di una astratta ideologia della vita a cui si pretende sia conferito uno status sovraordinato rispetto ad altre ideologie o visioni del mondo altrettanto rispettabili. Trattare l’altro come un fine e non come un mezzo è un criterio fondamentale di un’etica che si voglia universalistica.
Potrebbe capitare anche a me di trovarmi nella situazione di Eluana. Voglio anch’io, in piena libertà e responsabilità, per me, che siano sospese le cure che potrebbero tenermi, anche per decenni, nello stato di Eluana. Rifiuto, per me, l’interpretazione secondo cui sarei fatto morire di fame e di sete. Quel tipo di alimentazione – come spiega con pacatezza e ragionevolezza esemplari il Dottor Marino – fa parte di una serie di sofisticatissime cure, possibili solo da pochi attimi – se misuriamo il tempo sullo sfondo dell’evoluzione dello homo sapiens sapiens – grazie ad una del tutto "innaturale" tecnologia. È uno dei risultati dello sforzo umano di contrastare il corso naturale degli eventi e di combattere malattia, morte e dolore (che per me cristiano evangelico non ha alcun valore redentivo).
Proprio dicendo questo, rifiuto espressamente di attribuire all’idea di "natura" un valore etico dirimente. Ho cinquantaquattro anni e – statisticamente – ho raggiunto questa età "contro natura". In Italia, la speranza di vita alla nascita era, nel 1910, di circa 44 anni per i maschi e 46 le femmine, per poi passare, nel 1990, rispettivamente a 73 e 80 anni. Speranza di vita alla nascita vuol dire che si doveva già aver superato una prima prova naturale, il parto. Una volta nato, statisticamente, ognuno di noi avrebbe potuto esser portato via da una delle malattie "naturali" che nel frattempo abbiamo debellato con vaccini e cure. E vogliamo e speriamo di potere andare ancora più avanti, non soltanto nel senso di scoprire altre cure, ma anche di estendere a tutti gli umani i livelli "innaturali" di sopravvivenza e la qualità "innaturale" della vita che oggi sono appannaggio di una parte soltanto dei figli e delle figlie di Adamo.
Non si può parlare di morte "naturale" (che le cure palliative affretterebbero) nel caso di un malato terminale che sia giunto fino a quel punto grazie ad interventi chirurgici, cure chimiche e radiologiche e che magari avesse in precedenza sofferto di altre malattie un tempo incurabili. La "natura" avrebbe già risolto ogni problema con largo anticipo e con metodi drastici. I seri problemi che dobbiamo affrontare non sono dunque "naturali", ma legati all’interazione dell’uomo con la "natura". Non possiamo contrastare la natura con le cure mediche, per poi invocarla quando dobbiamo affrontare i nuovi interrogativi che esattamente questo contrasto ha sollevato. Né sul fronte dei problemi, né su quello delle soluzioni – e sarebbe meglio parlare di scelte – la "natura" può essere invocata come criterio sufficiente e dirimente. Comunque, non per quel che riguarda la mia vita e la mia morte.
Per me, è fondamentale un aspetto etico di cui mi sembra non si parli punto: se si tengono occupati per me, per anni e decenni, il macchinario e il personale necessari a tenermi in quella "vita", le stesse risorse sono precluse a qualcun altro che forse potrebbe poi uscire dal coma. Io non voglio che quella eventualità si presenti in nome mio. Io voglio lasciare libero quel posto, senza peraltro negare ad un altro il diritto di tenerlo occupato sine die se lo preferisce. Rivendico però la legittimità e la drammaticità etica dell’interrogativo: che fare se c’è una macchina sola e due o più persone che ne hanno bisogno? Per quanto sta a me, scelgo l’opzione di lasciare libere le cure e i macchinari messi a mia disposizione. Questo indirizzo ha come unico presupposto il parere medico che la situazione è "a viste umane", come si dice, irreversibile. Le mie e le nostre decisioni responsabili sono sempre "a viste umane". Per me io accetto, anzi richiedo, questo margine di valutazione medica e per me lo riconosco come valido sin da ora.
Vivo e dico tutto questo a testa alta, davanti a Dio e con Dio, nella libertà che mi ha donato e nella responsabilità a cui mi ha chiamato, fidandomi di lui. Lo vivo e lo dico in preghiera, nella riconoscenza per tutto ciò che mi è stato donato; e con la volontà di non idolatrare la mia vita; e nella speranza che "ciò che è mortale sia assorbito dalla vita" (2 Cor 5,4). Ritengo che in tutto questo Dio non mi respinga come un nemico della sua legge, ma mi accolga come un peccatore perdonato, cosa che del resto fa in ogni momento della mia vita. Insomma, vivo anche questo nella prospettiva della fede, che non è adesione ad un complesso di dottrine e valori, ma relazione personale con colui al quale devo la vita e la libertà. Amen.
Se dovessi trovarmi nella situazione di Eluana, credo dovrebbe bastare leggere questi pensieri – che ora pubblico in questa forma, ma che più volte ho espresso davanti ad una platea di uditori, dunque davanti a testimoni, e dunque in situazioni in cui era di palmare evidenza a tutti che esprimevo liberamente la mia volontà e che ero in pieno possesso delle mie facoltà mentali – per dirimere ogni dubbio circa la mia volontà per me. Posso capire che ci siano obiezioni di tipo giuridico a questo tipo di esternazione, e comunque non tutti hanno la fortuna di pronunciarsi di fronte ad un pubblico. Per questo è necessario che ci sia la possibilità, per tutti, se lo vogliono, di formalizzare le proprie volontà, anche in questo ambito.
È proprio questa libertà responsabile che il papa – autoproclamatosi garante e arbitro di quei diritti umani che la sua Chiesa ha avversato fino all’altro ieri, e interprete autentico della dichiarazione di cui celebriamo il sessantenario – vuole che non passi. Lo asseconda nel nostro paese una nutrita schiera bipartisan di chierichetti atei, che a Dio non credono, ma che al papa piegano se non la schiena e le ginocchia almeno la coscienza, più spesso entrambe. Speriamo vinca la libertà.»
La dichiarazione di questo teologo evangelico si colloca perfettamente nella linea del dibattito attuale ed esprime molto bene la posizione di un cristianesimo evangelico maturo. A far riflettere non è pertanto il contenuto di questo intervento ma la forma; non si tratta di un discorso, una predica, un insegnamento ma una dichiarazione, non insegna agli altri cosa dovrebbero fare,dice semplicemente: io farò, o cercherò di fare, così. Forse su questo tema così dolorosamente personale come la morte non si disquisisce ma è quello che si è. La vita può forse essere tema di discussione e dibattito, la morte no perché di quella degli altri non sai nulla e della tua neppure.
Ma a proposito di vita, nello stesso numero de La Repubblica citato in apertura, Adriano Sofri nella riflessione sul dramma di Gaza notava che "la nostra sensibilità bioetica" si concentra sul nascere e morire dando scarsa attenzione a ciò che sta fra i due: la vita. Nel quadro del suo intervento è chiaro che il riferimento era al problema contingente delle vite distrutte ma il pensiero può essere prolungato in un contesto più ampio. Il senso che diamo all’origine e al termine della vita, al nascere e morire, è in relazione diretta con il senso che diamo alla vita o meglio all’esistenza. Non a caso i testi evangelici hanno fatto un uso accorto dei due termini greci bios (da cui biologia) e zoé, la prima vita nell’ordine naturale, fisico, la seconda con valore di esistenza. La prima è un dato, l’altra un progetto, si guarda al nascere e morire fisico partendo dall’esistenza e la fede attiene all’esistenza non alla biologia.
6 febbraio 2009
tratto dal sito: www.riforma.it
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