venerdì 19 dicembre 2014

"Fido" è morto: che ne sarà di lui?» – così ho riassunto la lettera del nostro lettore, che pone una bella domanda, ahimé alquanto trascurata dalla teologia cristiana sia classica sia moderna, con pochissime eccezioni. La prima è ovviamente quella di Francesco d’Assisi (1182-1226), che secondo quanto scrive il suo primo biografo Tommaso da Celano «chiama col nome di fratello tutti gli animali, benché in ogni specie prediliga quelli mansueti». Una seconda eccezione è Albert Schweitzer (1875-1965), che riassunse la sua vita e il suo pensiero nel principio del «rispetto per la vita» in ogni sua manifestazione: «Un uomo è morale soltanto quando considera sacra la vita come tale, quella delle piante e degli animali tanto quanto quella dei suoi simili, e quando si dedica ad aiutare ogni vita che ne ha bisogno». Una terza eccezione è Karl Barth (1886-1968), che nella sua Dogmatica ha dedicato agli animali (ma anche alle piante) molte pagine estremamente suggestive e istruttive, nel quadro della dottrina della creazione, ma non solo. Queste eccezioni, purtroppo, non hanno fatto scuola. La pur bella e pregevole Encyclopédie du protestantisme pubblicata a Ginevra e Parigi in prima edizione nel 1995 e in seconda «rivista, corretta e accresciuta» nel 2006, contiene una voce sugli angeli (il che va benissimo), ma non una sugli animali e tanto meno sulle piante (il che va malissimo). Speriamo in una terza edizione ulteriormente «corretta e accresciuta» che contenga queste voci ora mancanti. La loro mancanza rivela una lacuna, per non dire un vuoto, che sta dentro di noi. Anche la Dogmatica in tre volumi di Gerhard Ebeling, peraltro eccellente, parla molto della Natura, ma non specificatamente di animali e piante. Ne parla invece il nostro lettore, con una domanda molto specifica: c’è un aldilà per gli animali? (per quelli «domestici», dice lui, ma io allargherei il discorso a tutti).

La sua domanda però ne contiene molte altre, a cominciare da quella fondamentale della differenza tra l’uomo e l’animale, molto netta nel racconto biblico, che parla di un «dominio» dell’uomo sugli animali (Genesi 1, 28). Va però precisato che questo dominio, comunque fatale per gli animali, non comportava, all’inizio, il diritto dell’uomo di uccidere gli animali per cibarsene. Questo diritto venne affermato solo più tardi, dopo il diluvio (Genesi 9, 3). La differenza tra l’uomo e l’animale è stata espressa, tra gli altri, in termini classici da Tommaso d’Aquino il quale, pur sostenendo che Dio è in qualche modo «presente» in tutte le cose da lui create, quindi anche negli animali, afferma però che tutti gli animali, anche quelli superiori, sono «situati a grande distanza dall’immagine di Dio» (longe a similitudine divina remota), «mentre l’uomo si dice formato "a immagine e somiglianza" di Dio». La differenza, secondo la tradizione biblica, è questa, ed è grande. In altre tradizioni religiose invece, soprattutto orientali, la differenza sembra meno netta, tanto che in quelle che credono nella reincarnazione (il Buddismo e alcune correnti dell’Induismo) la differenza è così labile che l’anima dell’uomo può cadere così in basso da finire, almeno provvisoriamente, nel corpo di un animale – dottrina, questa, impensabile nel quadro del pensiero biblico.
Detto questo, resta però il fatto innegabile – tutti lo sanno, ma non sempre lo ricordano – che l’uomo è un mammifero come tanti altri animali, è dunque anche lui anzitutto un animale. Aristotele lo definiva animale «razionale» (in greco loghikòn) e «politico» (in greco: politikòn), ma pur sempre un animale. Prima di lui già il racconto biblico della creazione aveva significativamente accostato l’uomo al mondo animale, collocando la sua creazione non in un giorno speciale riservato a lui solo, ma associandolo nello stesso giorno, il sesto, alla creazione degli animali terrestri. Prima di parlare della differenza, occorrerebbe dunque illustrare la vicinanza e comune appartenenza delle due condizioni, quella animale (che tra l’altro ha la precedenza nell’ordine della creazione) e quella umana (che segue). In questo quadro non è forse inutile riferire una considerazione di carattere generale sul rapporto uomo-animali fatta dallo scrittore francese Montaigne (1533-1592), segnalatami dal pastore Angelo Cassano di Locarno (Ticino), che ringrazio. Nei suoi celebri Essais Montaigne rimprovera all’uomo il suo orgoglio e la sua presunzione quando si arroga il diritto di giudicare gli animali: «Come può l’uomo conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il suo passatempo più di quanto io faccia con lei?». Noi li consideriamo bestie; forse anche loro ci considerano bestie. In fondo, comprendiamo poco di loro, come loro comprendono poco di noi. Perciò «bisogna che osserviamo la parità che c’è tra noi. Noi comprendiamo approssimativamente il loro sentimento, così le bestie il nostro, pressappoco nella stessa misura». Dunque, dice Montaigne, il rapporto uomo-animali non va impostato in termini di superiorità e inferiorità, ma di parità. Queste considerazioni ci introducono bene alla domanda del nostro lettore: «C’è un aldilà per gli animali?».

A questa domanda non c’è, che io sappia, nella Sacra Scrittura, che è la nostra guida e norma nelle questioni di fede e vita, una risposta diretta ed esplicita. Ci sono però tre ordini di pensieri che consentono una risposta relativamente sicura, benché indiretta. Il primo è la creazione, il secondo è il patto, il terzo è la promessa messianica.

1. Nella visione biblica la creazione è anzitutto creazione di animali (e piante). L’uomo viene dopo, ed è confinato sulla terra, mentre gli animali popolano anche il cielo e il mare. Come sarebbe vuoto il creato se ci fosse solo l’uomo! Non sarebbe il creato uscito dalle mani di Dio. Un creato senza animali è biblicamente impensabile. Ecco perché insieme a Noè vengono salvati nell’arca anche gli animali: questo può valere come figura di una salvezza comune. Persino il Mar Morto, secondo il profeta Ezechiele, non resterà per sempre morto e quindi senza pesci: dal Tempio uscirà un torrente che vi si immergerà rendendo le sue acque «sane» (47, 5) e quindi anch’esse popolate di animali marini (v. 9). Insomma, gli animali fanno parte integrante della creazione, e non c’è alcun motivo per ritenere che non facciano parte (in forme che, certo, non possiamo immaginare) della nuova creazione, cioè di un nuovo cielo e una nuova terra (il mare, a quanto pare, purtroppo, non ci sarà più, secondo Apocalisse 21, 1, a meno di una bella sorpresa finale; comunque ci sarà un grande fiume e acqua in abbondanza).

2. Non solo gli animali sono benedetti da Dio, come la coppia umana, in vista della procreazione (Genesi 1, 22 e 28), ma essi sono inclusi ed esplicitamente menzionati nel Patto che Dio stabilisce con Noè, il cui simbolo è l’arcobaleno (Genesi 9, 8-17). Questo patto è «perpetuo» (v. 16) e il suo contenuto è la vita che, in tutte le sue espressioni e manifestazioni, non sarà più distrutta. Chi è nel Patto – e gli animali ci sono – non è nella morte, ma nella vita. L’uomo e gli animali sono ugualmente mortali (Ecclesiaste 3, 19-21!!), ma, in virtù del Patto, la loro morte non è definitiva.

3. Secondo Isaia 11, 6-9 la promessa messianica è un mondo animale riconciliato al suo interno («il lupo abiterà con l’agnello») e con l’uomo («il lattante si trastullerà sul buco del serpente»). Questa promessa, che associa uomini e animali, può essere collegata con il discorso di Paolo sulla creazione che ora è «sottoposta alla vanità», cioè alla morte, e perciò «geme insieme ed è in travaglio», ma «sarà anch’ella liberata dalla servitù della corruzione», cioè restituita a una vita senza la morte dentro (Romani 8, 20-23). In questa creazione liberata, come ho detto al punto 1, ci sono anche gli animali.
C’è dunque speranza per «Fido»? Sì, come c’è per il suo padrone e per tutti. C’è però una sottile insidia che può annidarsi nella domanda del nostro lettore e che è bene segnalare. L’insidia è di considerare l’Aldilà una sostanziale fotocopia dell’Aldiquà e il mondo futuro una semplice replica (migliorata) di quello attuale. Sarà invece un mondo nuovo, e non si insisterà mai abbastanza sulla portata di questo aggettivo. I rapporti tra le persone e quelli con gli animali non saranno più quelli odierni, ma saranno trasfigurati, cioè trasformati in rapporti completamente diversi, luminosi, trasparenti, felici, perché saranno unificati in Dio, che sarà «tutto in tutti» (I Corinzi 15, 28).



tratto dalla rubrica "Dialoghi con Paolo Ricca
del settimanale Riforma del 19 ottobre 2007


martedì 16 dicembre 2014

Predicazione di Domenica 14 dicembre 2014 (seconda di Avvento) su Matteo 11,2-10, a cura di Pietro Magliola

Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» Gesù rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi recuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!» Mentre essi se ne andavano, Gesù cominciò a parlare di Giovanni alla folla: «Che cosa andaste a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? Ma che cosa andaste a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Ecco, quelli che portano delle vesti morbide stanno nei palazzi dei re. Ma che cosa andaste a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è [infatti] colui del quale è scritto: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”


La domanda di Giovanni “sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?” ha suscitato e suscita dubbi e imbarazzo nei credenti. E' necessario quindi far chiarezza e, forse, rivedere alcune idee non precise sul Battista, prima di esaminare questo brano, per evitare di giungere a conclusioni ed interpretazioni non corrette.

Il problema principale che si pone è questo: com'è possibile che Giovanni, che aveva riconosciuto in Gesù il Messia, adesso dubiti ? Forse perché è in prigione e rischia la vita ?
Chiariamo subito che i Vangeli ci presentano, se così possiamo dire, due Giovanni Battista: quello dei sinottici, profeta del Regno di Dio ormai prossimo e annunciatore del giudizio definitivo, e quello del Vangelo secondo Giovanni, precursore del Messia. Orbene, è questo secondo Giovanni Battista che riconosce espressamente in Gesù il Cristo (o meglio, l'Agnello di Dio che togli il peccato del mondo). Il Battista dei sinottici, invece, si limita – si fa per dire – a dire a Gesù: “sono io che devo essere battezzato da te, non tu da me”. Giovanni quindi riconosce in Gesù colui che porterà a compimento il giudizio da lui annunciato. Se non è qualcosa di meno, è certamente qualcosa di diverso dal riconoscimento di Gesù come Messia.
Giovanni Battista, dunque, si trova in prigione, e lì sente parlare delle opere fatte da Gesù. Cosa sono queste opere ? Potrebbero essere i miracoli e le guarigioni operate da Gesù, anche se la risposta che Gesù darà ai discepoli del Battista può far sorgere qualche dubbio in proposito, ma saranno anche e soprattutto il modo di agire, di comportarsi, di rapportarsi con i peccatori che ha Gesù.. Il dubbio di Giovanni nasce dal fatto che Gesù non si comporta come lui pensava che dovesse comportarsi, annunciando e portando a compimento il giudizio contro i peccatori.
Giovanni sente che qualcosa, in Gesù, non quadra.
E' come se il Battista riassumesse in sé i due diversi schieramenti che stavano sorgendo in Israele riguardo a Gesù: coloro i quali dicevano “una cosa così non l'abbiamo mai vista” e quelli che, come i Farisei, che dicevano “costui scaccia i demoni con l'aiuto del principe dei demoni”.
E' inutile andare a cercare i motivi psicologici di questa domanda. Matteo non li dice, perché non gli interessavano; tanto è vero che della domanda posta dal Battista non si saprà più nulla.  Quello che interessava all'evangelista era di provocare la domanda della fede. 
La risposta di Gesù è, come molte altre volte, poco diretta. Non risponde dicendo chiaramente “sì, lo sono – no, non lo sono”, ma dice di andare a riferire a Giovanni ciò che “udite e vedete”.
Nel passo parallelo, Luca dice “visto e udito”. La variante di Matteo è importante perché ci spiega come sia la predicazione a chiarire i segni, e non viceversa.
Di per sé la serie di miracoli elencati da Gesù, che cita alcuni versetti di Isaia, non sarebbe particolarmente significativa. Sia Elia sia Eliseo avevano richiamato in vita dei morti, ed Eliseo aveva guarito un lebbroso. Un profeta guaritore non era una novità in Israele. E il Messia atteso non era un guaritore, bensì un capo politico-militare inviato da Dio.
Solo ascoltando la predicazione del Regno fatta da Gesù si possono riconoscere nei miracoli i segni dei tempi messianici. In se stesse, le opere sono solo dei segni; portano alla fede solo quando vengono messe a confronto con il costante agire di Dio nella storia.
Ma questo comporta un cambiamento di prospettiva, impone di guardare al mondo con uno sguardo diverso, non più il giudizio e la condanna ma la misericordia e il perdono.
In Matteo Giovanni Battista appartiene ancora al primo patto, Gesù invece inaugura il nuovo patto. Questo cambia tutto, e questo è quanto Matteo vuole dire.
Non sappiamo se questa risposta abbia soddisfatto il Battista, Matteo tace in proposito, e noi faremmo bene a prender atto di questo silenzio, senza voler dare risposte ad un quesito che, evidentemente, all'evangelista non interessava.
La conclusione del discorso di Gesù è: beato chi non non si sarà scandalizzato di me.
Gesù non impone la fede, ma mette nella situazione di decidere: è lui quello che doveva venire ? Se la sua predicazione il suo modo di fare non ci scandalizzerà, potremo rispondere di sì; altrimenti risponderemo di no.
Infine Gesù, partiti i discepoli di Giovanni, si rivolge alla folla per chiedere -nella forma, almeno, perché in realtà è Gesù stesso che risponde alla domanda – chi fosse Giovanni. Non era un potente, dice Gesù. Non era una canna sbattuta dal vento (forse un accenno ad Erode Antipa, che aveva fatto coniare delle monete portanti il disegno di una canna di fiume), non era uno vestito riccamente: era un profeta, anzi più di un profeta. Giovanni è il precursore che, come disse Malachia, “deve preparare la strada davanti a me”. Matteo riporta “davanti a te”: Gesù applica a se stesso la parola del profeta, così come nel suo ambiente era applicata al Messia.
L'attesa della sua venuta aveva due aspetti: quello di giudicare e quello di salvare. Giovanni il Battista mette l'accento sul primo aspetto; Gesù, pur non negando questo aspetto, si presenta come colui che guarisce e salva.

Il tempo del giudizio sarà, come opportunamente ci ha ricordato Paolo nel brano della prima lettera ai Corinzi che abbiamo ascoltato prima, quando sarà venuto il Signore.

venerdì 5 dicembre 2014

Predicazione di domenica 30 Novembre (1° domenica di Avvento) su Luca 2,25-38,di Ludovica Pepe Diaz

Oggi e la prima domenica di un tempo che la Chiesa chiama Avvento.
Questo è un tempo di quattro settimane che precedono il natale, un tempo dato ai credenti perché si preparino a commemorare l'evento più importante della nostra vita: il dono che il Signore ci ha fatto di sé stesso incarnandosi in Cristo, per la nostra salvezza.
A Natale ricordiamo la nascita del Dio fattosi uomo, raccogliendoci, commossi e riconoscenti, attorno al Dio bambino, che si è fatto piccolo, ha voluto anch'egli percorrere le vie dell'infanzia per essere, oltre che nostro Padre, nostro fratello, simile a noi così che fosse da noi comprensibile.
Sì, quest'evento ha segnato tutta la storia dell'umanità, per noi cristiani, e in essa ogni nostra singola vita.
Dovremmo ricordarcene ogni giorno, dovremmo ogni giorno sostare accanto a quella povera culla per adorare il nostro Dio Bambino, ripercorrendo con Lui la sua tremenda strada terrena fino alla Croce per poi esultare della Sua Resurrezione.
Ogni giorno per noi dovrebbe essere Natale e Pasqua! Ma noi, povere creature, limitate dalle nostre esigenze materiali che ci distolgono da un continuo e intenso rapporto con Dio, distratti dalle contingenze quotidiane, spesso non riusciamo a tenere il nostro pensiero e il nostro sguardo rivolti al volto di Cristo,ma possiamo sperare che il Signore misericordioso, che conosce i nostri limiti, ci comprenda e ci perdoni.
A causa della nostra distrazione e per le nostre dimenticanze è bene fissare un tempo particolare, come quello dell'Avvento,in cui siamo invitati a raccoglierci e meditare, sul dono della salvezza e. anche la Corona dell'Avvento e le candele che accendiamo in successione ogni domenica , sono un simbolo materiale che ci aiuta e che ci richiama a vivere questo tempo particolare.
Ora, leggendo questo episodio del Vangelo che ho scelto per la meditazione di questa mattina, incontreremo un uomo che ha saputo vivere tutta la sia vita come un tempo di Avvento.

dal Capitolo 2 del Vangelo di Luca dal v. 25 al v.38:

Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo:
«Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola;
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli 
per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».
Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, dicendo a Maria, madre di lui: «Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione (e a te stessa una spada trafiggerà l'anima), affinché i pensieri di molti cuori siano svelati».
Vi era anche Anna, profetessa, figlia di Fanuel, della tribù di Aser. Era molto avanti negli anni: dopo essere vissuta con il marito sette anni dalla sua verginità, era rimasta vedova e aveva raggiunto gli ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quella stessa ora, anche lei lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme.


Questo brano non ci dice niente di chi fosse in realtà, storicamente, Simeone, il cui nome era molto frequente in Israele. Egli potrebbe anche essere una figura simbolica: infatti di lui ci vengono sottolineati solo le qualità morali del carattere, e della sua figura ci si dice soltanto che era un uomo avanti negli anni. Possiamo immaginare che quest'anziano, giunto ad un tramonto sereno della sua vita, durante la quale aveva perso ad uno ad uno sia familiari che amici, compagni del suo viaggio terreno, fosse rimasto solo. Forse anche per questo Simeone si recava più frequentemente al Tempio dove egli sentiva maggiormente la presenza di Dio, di quel Dio che riempie col suo amore tutte le solitudini dell'anima. Così' quella presenza divina illuminava come un raggio di sole la sera, la declinante giornata della vita di Simeone. Il Vangelo ci dice che questo accadeva perché Simeone era sempre stato un UOMO GIUSTO. Fin da fanciullo aveva imparato la legge d'Israele e la legge di Dio sforzandosi di metterla in pratica.
Simeone era TIMORATO di Dio, cioè egli era un uomo pio e la sua pietà era sempre stata il principio e la fonte della sua giustizia. La sua pietà era tale che gli aveva permesso di innalzare sempre di più il cuore e l'anima verso l'Eterno.
A quel giusto, a quel pio, era stato quindi concesso un privilegio immenso: sopra di lui aleggiava lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non avrebbe visto la morte prima di aver veduto il Santo del Signore.
Possiamo essere colpiti da due termini che sembrano così opposti: la vita e la morte, ma possiamo comprendere questa dicotomia se pensiamo a Simeone come alla prefigurazione del credente che nel volto del Cristo non vede la morte ma la salvezza, la vita e la Resurrezione. Questo vegliardo di cui il Vangelo ci parla, non vive come son soliti vivere gli anziani di ricordi del passato senza troppa speranza nel futuro, egli ha lo sguardo proteso verso l'avvenire perché ogni giorno nutre il suo spirito di una speranza a venire: Simeone è un vegliardo che aspetta.
Anche i Profeti dell'Antico Testamento aspettavano una liberazione, una restaurazione terrena della Nazione e l'arrivo del Messia: tutta la storia di Israele è la storia di una attesa appassionata che le promesse del Signore si compiano.
Nel Vangelo il primo annuncio della nascita di Gesù è dato a persone che erano in attesa che erano solite attendere, ai pastori che, a guardia del gregge, attendevano l'aurora; e poi ai Magi che attendevano una cometa e a Simeone ed Anna che nel Tempio, attendevano il compimento di una promessa del Signore.
L'Avvento è periodo di attesa anche per noi, tempo in cui possiamo coltivare la dolce speranza di sempre e nuove preziose benedizioni e grazie spirituali. Il cuore dell'uomo che batte nell'attesa è un cuore che spera e la nostra speranza deve essere fiduciosa come quella di Simeone piena della presenza di Dio, in modo che possiamo essere pronti ad accogliere il Signore quando si rivelerà a noi in qualsiasi forma Egli voglia farlo, anche in quella di un bimbo posto in una mangiatoia.
Simeone dunque aspettava ed aspettava una CONSOLAZIONE. I Profeti indicano l'attesa del Messia come una consolazione.
Scrive Isaia “Io sono colui che vi consola”, ed ancora; “L'Eterno mi ha inviato per consolare tutti quelli che fanno cordoglio” e poi: “Consolate consolate il mio popolo, dice il vostro Dio, l'Eterno consola il suo Popolo” .
L'elemento ATTESA non mancò neppure alla Fede dei primi Cristiani. Essi avendo ricevuto e riconosciuto il Cristo, e attendevano ancora nuove consolazioni, infatti “ Noi aspettiamo la redenzione del nostro corpo” dice il Vangelo - “Noi aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” ed ancora - “Noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra in cui abiti la giustizia”.
Queste sono anche le nostre speranze di consolazione.
La consolazione è la cosa di cui abbiamo bisogno perché vinca le nostre più intime sofferenze prodotte da tutto il male che è nel mondo. Ebbene tutte le consolazioni si trovano nel Vangelo, tutte comprese nell'annuncio della redenzione.
Ci viene detto che Simone aspettava la consolazione, Anna e molti in Gerusalemme aspettavano la redenzione: consolazione e redenzione diventano così sinonimi, termini che non possiamo separare.
Se il prossimo Natale non ci portasse la redenzione (e quindi la liberazione dalle attuali catene e dalle future conseguenze del male) esso non ci porterebbe alcuna consolazione reale e duratura.
A noi non è concesso, dopo l'attesa, di stringere al cuore realmente il piccolo Gesù, come fece Simeone, ma, se in questa attesa d' Avvento faremo silenzio nei nostri cuori, protesi a cogliere il soffio dello Spirito Santo rivelatore, Egli dirà anche a noi che Gesù” ritornerà secondo la promessa e ci accoglierà presso di sé affinché dove Egli è, siamo anche noi.”
Così il giorno di Natale l'attesa sarà compiuta e il Cantico di Simeone sarà il cantico di ciascuno di noi: "gli occhi miei hanno veduto la tua salvezza". Amen 

domenica 23 novembre 2014

Predicazione di domenica 23 novembre 2014 su 2 Pietro 3,8-13 di Marco Gisola

8 Ma voi, carissimi, non dimenticate quest'unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. 9 Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. 10 Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate.
11 Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete essere voi, per santità di condotta e per pietà, 12 mentre attendete e affrettate la venuta del giorno di Dio, in cui i cieli infocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si scioglieranno! 13 Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia.


La prima riflessione a cui ci porta il testo di oggi è sul tempo. Mi sembra che tutti noi, o almeno quelli che hanno superato i quarant’anni, viviamo particolarmente male il tempo che passa; invecchiare ci fa paura. Chi già è anziano vede le sue forze diminuire con tutti i problemi che questo si porta dietro. Chi è adulto sente magari i primi “sintomi” dell’invecchiamento, i primi capelli bianchi, un po’ di stanchezza e così via. Ma basta vedere i propri figli crescere e trasformarsi per percepire che il tempo passa inesorabilmente... Questo ci porta a misurare il tempo, a contare, non dico i giorni, ma sicuramente gli anni. E a farlo con una certa preoccupazione.
L’apostolo Pietro viene stamattina a dirci che “per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno”. Relativizza la misura del tempo. Un'affermazione che francamente mi ha sempre lasciato un po’ perplesso, perché mi è sempre sembrata una facile soluzione al problema del ritardo del ritorno di Cristo.
Il problema della generazione di chi ha scritto questa lettera - è infatti probabile che l’autore non sia l’apostolo Pietro, il discepolo e quindi contemporaneo di Gesù, ma qualcuno che scrive usando il suo nome verso la fine del primo secolo o all’inizio del secondo – è sì il tempo che passa, ma non nel senso che intendiamo noi; per quella generazione il problema è che il tempo passa e Cristo non ritorna.
Un giorno come mille anni e mille anni come un giorno. Questa frase mi lascia perplesso anche perché istintivamente mi verrebbe da dire: va bene per Dio sarà così, ma per me no! Per me i giorni sono giorni e possono essere giorni felici, giorni spensierati oppure giorni di angoscia e di dolore. Ogni giorno per me ha un senso e un valore. Perché il mio giorno deve essere relativizzato? E i miei anni sono i miei anni, e sappiamo che c’è un’età in cui pensiamo sia troppo presto per morire e per soffrire, ci sono casi in cui davvero il tempo che è dato di vivere è troppo poco. E ci sono casi in cui il tempo della sofferenza e del dolore è invece troppo. Come ci aiuta l'affermazione che per Dio mille anni sono come un giorno?
Il tempo, che ci assilla così tanto e che contiamo e misuriamo... che cos’è il tempo secondo Dio? L’autore di questa lettera ci dice che il tempo per Dio è espressione della sua pazienza: “Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento”. All’obiezione di chi dice che il ritardo di Cristo è ormai troppo lungo e che magari questo ritardo vuol dire che Cristo non tornerà, l’apostolo risponde affermando che non si tratta di ritardo, ma di pazienza, affinché tutti giungano al ravvedimento.
Dopo quasi duemila anni il nostro punto di vista è certamente diverso, ma l’idea che il tempo che Dio ci dà sia espressione della sua pazienza rimane importante per noi oggi come per i cristiani del primo secolo allora. Il tempo che hai è tempo di ravvedimento, tempo per ravvederti, ma non nel senso negativo e tenebroso che ha a volte questa parola, ma nel senso positivo che il tempo che ti è dato è una opportunità che Dio ti dà per cambiare, per convertirti, per costruire diversamente la tua vita. Penso a errori a cui si può rimediare, penso a scelte sbagliate da cui si può tornare indietro, a relazioni interrotte che potrebbero essere recuperate, a ferite che possono guarire.
E allora anche il fatto che il tempo per Dio sia relativo ha il suo senso profondo.
Forse vuol dire che non importa quanto tempo hai davanti a te, e quanto tempo hai dietro di te, non importa se hai 25 anni o ne hai 80. Ciò che importa è che a 25 anni come a 80 oggi è il tempo che Dio ti dà, oggi è l’opportunità che Dio ti dà di cambiare, di rimodellare la tua vita secondo la sua volontà.
Questa è la pazienza di Dio, che in fondo è un altro modo per dire: questa è la grazia di Dio. Dal punto di vista del tempo la grazia di Dio si chiama pazienza di Dio. Dal punto di vista del tempo che passa, la pazienza di Dio significa che non è troppo tardi.
È vero che a viste umane e nelle relazioni umane a volte succede che sia troppo tardi per fare qualcosa, è vero che l’occasione di ricostruire, di riconciliarsi, di chiedere o di concedere perdono passa magari un po’ di volte e poi non passa più. È vero che nelle nostre relazioni a volte bisogna rassegnarsi che è troppo tardi. Ma con Dio non è troppo tardi e nel futuro del suo regno forse chissà, anche gli errori e le fratture a cui non siamo riusciti a porre rimedio qui, là nelle mani di Dio saranno trasfigurati e troveranno riconciliazione e guarigione.
Il tempo passa, perché Dio è paziente e dunque non è troppo tardi.

Al centro del brano c’è una breve descrizione, diciamo così, apocalittica (i cieli che passano stridendo, gli elementi infiammati, la terra che brucia), c’è un’esortazione alla santità per accelerare i tempi della venuta del regno di Dio e infine viene ribadita la promessa: “secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia”.
In quest'ultimo versetto ci sono due grosse parole che tornano lungo tutta la Bibbia: promessa e giustizia. La nostra vita, e dunque anche il nostro tempo, di cui parlavamo prima, non è lasciata al caso, non è nemmeno lasciata completamente nelle nostre mani, che come si sa sono capaci di fare molti danni, ma è sotto una promessa, che è una promessa di grazia e non di condanna.
La promessa del regno non riguarda soltanto il nostro futuro, ma il nostro presente. Oggi noi stiamo sotto questa promessa, oggi attendiamo nuovi cieli e nuova terra. Che questo sia il nostro futuro, anche il tuo futuro è una grande consolazione che può dare senso e serenità alle nostre giornate. Questa promessa è anche un grosso stimolo a vivere del futuro che ci è promesso. Di che cosa vivi tu, cristiano? Ovvero: che cosa dà senso alla tua esistenza oggi? Alla tua esistenza di oggi dà senso la promessa di Dio sul tuo futuro. Il cristiano vive del suo futuro; e dal futuro promesso da Dio nella croce e nella resurrezione di Cristo il cristiano trae senso, forza, speranza, trae un progetto per la sua vita e la sua fede.
Il progetto è vivere già ora, anche se solo frammentariamente, a sprazzi, la giustizia che ci attende nei nuovi cieli e nella nuova terra che Dio ci ha promessi, cioè che Dio ha preparati per noi. Il futuro che Dio ci ha preparato orienta e guida il nostro presente.
Noi viviamo aspettando nuovi cieli e nuova terra, cioè qualcosa di completamente nuovo rispetto a ciò che viviamo ora, qualcosa di nuovo caratterizzato dalla giustizia, dalla giustizia di Dio, cioè dalla volontà di Dio. Nuova è la giustizia che abita nei cieli e nella terra che Dio ci ha preparati, vecchia è l'ingiustizia che regna nel nostro mondo. Nuova è la riconciliazione e la pace che vivremo con tutti in presenza di Dio, mentre vecchio è il conflitto che spesso viviamo nei rapporti umani e vecchia è la guerra che non smette di mietere vittime nel nostro mondo. E così via, potremmo fare molti altri esempi...
Viviamo aspettando, ma non nel senso passivo e noioso che ha a volte il verbo aspettare nella nostra esperienza (tipo aspettare in coda a qualche sportello...!). Viviamo aspettando nel senso che viviamo aspettandoci qualcosa di bello che deve venire, che deve accadere per noi, ci aspettiamo qualcosa dal futuro che non sia solo la ripetizione del presente, perché il futuro che Dio ci ha promesso è nuovo.
Nell’ottica della promessa di Dio vivere aspettando vuol dire vivere sperando e confidando in questa promessa che ci dice che la nostra vita non è in balìa del caso e nemmeno del caos, ma è orientata - potremmo dire: predestinata – ai nuovi cieli e alla nuova terra dove abita la giustizia di Dio.
Viviamo allora con fiducia e con gratitudine questa attesa, sapendo che il Signore è paziente e che il Signore è fedele.

giovedì 20 novembre 2014

Predicazione di domenica 16 novembre su 2 Corinzi 5,1-10 di Massimiliano Zegna

Corinto è una città della Grecia centro meridionale del Peloponneso la cui prima chiesa cristiana fu fondata da Paolo nel 51 dopo Cristo.
Tra la prima e seconda lettera di Paolo ai Corinzi vi sono stati dei fatti drammatici sia per quanto riguarda Paolo che probabilmente finì in carcere, mentre era in Asia, sia per quanto riguarda la chiesa di Corinto che, a causa di “falsi apostoli” come li considera lo stesso Paolo, ebbe discussioni molto accese.
La lettera, come la definiscono alcuni commentatori, è molto emotiva e presenta alcune disorganicità: e così il tono di Paolo passa dall'amaro e sarcastico a quello magnanimo e fiducioso.
C'è da aggiungere, infatti, che la situazione della chiesa di Corinto dopo che il discepolo Tito che, probabilmente era il latore della lettera, si era andata riappacificandosi con Paolo.
Le difficoltà derivavano comunque da quelle che erano le abitudini di una città greca e influenzata dal paganesimo a quelli che erano gli insegnamenti Gesù portati attraverso Paolo.
Paolo infatti usa la metafora del matrimonio per descrivere il suo stesso ruolo. Così come i profeti avevano spesso descritto Israele come sposa di Jahvè così Paolo descrive la chiesa di Corinto come la fidanzata di Cristo.
E egli si era autodefinito come... il padre della sposa. Vi sono quindi toni di rimprovero e toni di grande amore per dimostrare l'affetto che Paolo aveva nei confronti della chiesa da lui fondata.
Ma vorrei esaminare ora i versetti del quinto capitolo che per me rappresentano una grande rappresentazione dell'essenza del nostro Credo.
Ed in parte rispondo agli inquietanti interrogativi che anche in questi giorni ho letto nella mia corrispondenza quotidiana con amiche ed amici di Facebook, il socialnetwork, attraverso cui ricevo e trasmetto le mie emozioni e che comunque si ascoltano parecchio in occasioni come queste.
Nei giorni scorsi Biella e il Biellese sono stati sconvolti da due eventi particolarmente drammatici: il primo riguarda la improvvisa scomparsa delle giovane Elisa figlia diciottenne dell'ex sindaco di Biella Dino Gentile, la seconda della scomparsa a causa del maltempo di Brunello Rosa Canuto, 66 anni, di Crevacuore.
Nel primo caso i commenti erano: “ma se Dio esistesse non priverebbe la vita ad una giovane bella, affettuosa, positiva, sportiva, beneamata dai suoi compagni di scuola e della sua famiglia” E così concludeva questa persona: “Meglio essere atei che rimanere delusi da questo Dio”.
Anch'io mi sono recato al funerale che si è svolto nella chiesa di san Biagio a Biella e devo dire di essere rimasto colpito dall'affetto che questa ragazza aveva. La chiesa vecchia e quella nuova erano gremite di ragazzi e contemporaneamente anche la chiesa del Villaggio Lamarmora era piena di altri ragazzi del Liceo Scientifico, la scuola dove Gentile è preside. La sera prima, numerosi ragazzi avevano fatto una sfilata con le candele accese. Nelle parole che ho ascoltato non c'era però astio nei confronti di Dio ma i toni erano di amore e di affetto nei confronti di Elisa.
L'altro caso è quello dell'abitante di Crevacuore travolto da una frana mentre, appena uscito di casa: stava guardando appunto il terreno vicino a casa che si stava rapidamente avvicinando all'abitazione.
Devo dire che mi hanno dato conforto sia i toni ed i volti di questi ragazzi permeati di grande forza spirituale sia la lettura del capitolo della lettera ai Corinzi che denota una grande sensibilità di Paolo.
In effetti quanto scrive Paolo è di una tale sensibilità che qualche commentatore, ed io stesso, si è chiesto se Paolo non abbia veramente vissuto una esperienza post mortem così come può aver vissuto chi si è trovato in coma e poi si è risvegliato nuovamente alla vita.
Preferisco rileggere insieme a voi le parole di Paolo, che qualche commentatore ha definito di difficile interpretazione, ma che io ho voluto leggere nella sua semplicità senza voler andare a disquisire su quale doveva essere il significato autentico.
“Sappiamo, infatti, che se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d'uomo, eterna, nei cieli”.
Questa frase, in cui si parla di tenda, mi ha fatto venire in mente il famoso brano dall'Evangelo di Matteo al capitolo 17 versetti 1-9: «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato davanti a loro; la sua faccia risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce. E apparvero loro Mosè ed Elia che stavano conversando con lui. E Pietro prese a dire a Gesù: “Signore, è bene che stiamo qui; se vuoi, farò qui tre tende; una per te, una per Mosè e una per Elia”. Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li coprì con la sua ombra, ed ecco una voce dalla nuvola che diceva: “Questo è il mio figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo”.
I discepoli, udito ciò, caddero con la faccia a terra e furono presi da gran timore. Ma Gesù, avvicinatosi, li toccò e disse: «Alzatevi, non temete». Ed essi, alzati gli occhi, non videro nessuno, se non Gesù tutto solo.
 Poi, mentre scendevano dal monte, Gesù diede loro quest'ordine: “Non parlate a nessuno di questa visione, finché il figlio dell'uomo sia risuscitato dai morti”». (Mt 17, 1-9)
Un altro brano del profeta Isaia (38,12) è ancora più vicino al brano di Paolo: "La mia abitazione è divelta e portata via lontano da me, come una tenda di pastore. Io ho arrotolata la mia vita, come fa il tessitore; egli mi taglia via dalla trama; dal giorno alla notte tu mi avrai finito".
Proseguo con la lettura della lettera di Paolo ai Corinzi: “Perciò in questa tenda gemiamo, desiderando intensamente di essere rivestiti della nostra abitazione celeste, se pure saremo trovati vestiti e non nudi. Poiché noi che siamo in questa tenda, gemiamo, oppressi; e perciò desideriamo non già di essere spogliati, ma di essere rivestiti, affinchè ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. Or colui che ci ha formati per questo è Dio, il quale, ci ha dato la caparra dello Spirito”
Nella Bibbia parlare di tenda significa parlare di quella che per noi è una casa in quanto per i popoli dediti alla pastorizia era naturale avere una tenda sotto cui ripararsi.
Ma Paolo qui vuole rimarcare quanto diversa è la tenda sotto cui ci ripariamo nella vita terrestre e quella che sarà quella celeste. La tenda terrestre può essere disfatta come può essere capitato a tutti quelli che hanno subito le alluvioni o comunque può essere disfatta per chi subisce la morte terrena e quindi è quanto è capitato alla giovane Elisa e comunque a tutti coloro che lasciano questa terra a causa della morte.
Paolo ci insegna però a non preoccuparci perché quello che ci aspetta è un'altra tenda ben più rilevante, che è la tenda celeste ossia la tenda in cui potremo vedere la luce di Dio.
La vita terrena è certamente una fase di passaggio ma Paolo ci annuncia che è anche una caparra dello Spirito ossia un anticipo di quello che sarà la vita celeste.
Forse è questo che alcuni commentatori giudicano di difficile comprensione ma per chi crede in Dio dovrebbe essere più chiaro anche se vi sono i dubbi per noi umani che misuriamo i nostri commenti secondo metri di misura umani.
E così pensiamo che una vita umana debba durare almeno cento anni per essere completa per cui la morte in tenera età viene considerata una ingiustizia. Però anche chi vive ad esempio fra i novanta e i cento anni con problemi di demenza senile è considerato ingiusto. E anche chi si ammala a cinquant'anni di una grave malattia è considerato ingiusto.
Tutto questo fa parte dei misteri di Dio che ci saranno rivelati proprio nel momento in cui passeremo dalla tenda terrestre a quella celeste. Paolo però qualcosa ci anticipa nella conoscenza di questi misteri e continuando a leggere la lettera ai Corinzi vi sono questi passi:
“Siamo dunque sempre pieni di fiducia, e sappiamo che mentre abitiamo nel corpo siamo assenti dal Signore (perché camminiamo per fede e non per visione); ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore. Per questo ci sforziamo di essergli graditi, sia che abitiamo nel corpo, sia che ne partiamo. Noi tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinchè ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male”.
Che cosa ci vuol dire Paolo non solo ai Corinzi ma a tutti noi? Se crediamo in Dio noi lo facciamo per fede, per fiducia ma non per visione in quanto noi siamo nella tenda terrestre che non ci permette ancora di avere la visione di Dio. E quella terrena è una prova un anticipo per capire qual è la nostra vera fede.
Se agiamo secondo i Comandamenti di Dio, che ricordo si condensano soprattutto nell'amore di Dio e del prossimo, noi potremo avere una giusta retribuzione davanti al tribunale di Cristo.
Ovviamente non sarà di tipo monetario questa retribuzione in quanto (ed io aggiungo per fortuna) non ci sarà più il problema di avere un compenso materiale per il lavoro che si svolge ma il compenso spirituale.
Che cosa ho imparato dalla lettura di Paolo? Ho imparato innanzitutto ad avere più fede in Dio così come lo sono stati i ragazzi che hanno partecipato ai funerali di Elisa Gentile.
Certamente vi era molta tristezza e molto dolore ma vi era anche il conforto di sapere che Dio non l'ha abbandonata ma l'ha presa sulle sue braccia e portata in una tenda celeste dove non avrà più modo di temere né di aver paura ma di vivere nuovamente nella luce di Dio.
Ho imparato a fuggire (o almeno a tentare di fuggire) dalle mie ansie quotidiane per il lavoro, per la salute e ad avere più fiducia in Dio.
Certo non possiamo essere inerti e aspettare la morte senza far nulla, anzi occorre vivere questa vita nel migliore dei modi.
Mi ha sempre colpito la serenità con cui un'anziana ospite dell'Hospice di Gattinara (si chiamava Franchina di Borgosesia) ha affrontato gli ultimi giorni della sua vita. Ero andato a trovarla perché mi aveva fatto sapere che voleva parlare con me in quanto giornalista.
Quando finalmente l'ho incontrata mi ha detto che voleva che io facessi un bell'articolo, per dire che si trovava bene nell'hospice ed era ben assistita, che mangiava bene e che tutti si prendevano cura di lei. Ho esaudito le sue volontà e devo dire che quel giorno ero un po' ero preccupato in quanto non avrei saputo che cosa dirle in quanto consapevole che aveva pochi giorni di vita, ma è stata lei a tirarmi su il morale con la sua simpatia e il suo buonumore.
Avevo chiesto anche ad una oncologa come si poteva vivere sapendo che la fine terrena era vicina e lei con molta sensibilità mi aveva detto queste parole. Alle persone che vengono qui io dico sempre: noi vogliamo assicurare i nostri malati che la qualità della vita deve essere positiva fino all'ultimo momento anche perché noi stessi non sappiamo fino a quando vivremo.
Per me è stata come una boccata di ossigeno. Se poi si crede in Dio non si ha certo paura del tribunale di Cristo ma deve essere visto come l'incontro sereno per una nuova vita.
La conclusione a cui sono pervenuto è che occorre un equilibrio sul pensiero alla vita terrestre e quello sulla vita celeste. Gesù ci ha insegnato a pensare e a pregare con il “Padre nostro” sia per il pane quotidiano, quindi per vivere al meglio la vita di tutti i giorni, sia perché venga il regno di Dio e sia fatta la sua volontà. Amen

lunedì 10 novembre 2014

Predicazione di domenica 9 novembre su 1 Tessalonicesi 5,1-11 di Pietro Magliola


Quanto poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte. Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosí che quel giorno abbia a sorprendervi come un ladro; perché voi tutti siete figli di luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri; poiché quelli che dormono, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, lo fanno di notte. Ma noi, che siamo del giorno, siamo sobri, avendo rivestito la corazza della fede e dell’amore e preso per elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò, consolatevi a vicenda ed edificatevi gli uni gli altri, come d’altronde già fate. (1 Tessalonicesi 5,1-11)


Paolo si occupa, nel brano che abbiamo letto, dell’ “ultimo giorno”, cioè del giorno del ritorno di Gesù. Se ne occupa innanzitutto per dire che non è possibile sapere in anticipo quando questo giorno verrà.
Sono stati versati fiumi d’inchiostro e si sono fatte moltissime parole per determinare con precisione il giorno del giudizio. Tentativi, tutti, evidentemente falliti, perché la Scrittura è concorde, a partire proprio da questa epistola di Paolo, probabilmente il testo più antico del Nuovo Testamento, per giungere sino all’evangelo di Luca, che abbiamo sentito prima, nell’affermare che il giorno del ritorno del Signore non sarà annunciato da segni particolari. Anzi, questo giorno è conosciuto soltanto dal padre, e neppure il Figlio lo conosce. I tentativi dell’uomo di penetrare questo mistero sono quindi sciocchi e destinati al ridicolo e al fallimento.
La chiesa di Salonicco, alla quale scrive l’apostolo Paolo, credeva nell’imminente ritorno del Signore. Era convinzione diffusa, anche dello stesso Paolo, che Gesù sarebbe ritornato in gloria mentre essi erano ancora in vita.
Il fatto che alcuni credenti fossero morti durante questa attesa aveva suscitato dei dubbi: che ne sarebbe stato di questi fratelli e sorelle defunti, e degli altri che fossero morti prima del ritorno del Signore ?
Paolo consola questa comunità ricordando ai suoi membri che il giorno del Signore deve venire all’improvviso, come senza preavviso un ladro scardina una porta per introdursi in casa e rubare, o come all’improvviso le doglie del parto assalgono la donna incinta quando deve partorire.
Non è un insegnamento nuovo, quello di Paolo: “voi sapete questo molto bene”, scrive.
Evidentemente, i Tessalonicesi sapevano tutto questo: però, a volte, è necessario ripetere concetti già noti per riportarli alla memoria o per sottolineare la loro importanza, anche per evitare letture sbagliate o interpretazioni di comodo della sitauzione reale.
Nei versetti 13 – 18 del capitolo 4 Paolo afferma che coloro i quali si sono addormentati (cioè, sono morti) verranno risvegliati, e parteciperanno anche loro all’incontro col Signore: “prima risusciteranno i morti in Cristo, poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore”.
Paolo non si limita però a consolare e a rassicurare sulla sorte dei defunti, vuole anche portare gioia e consolazione sulla sorte dei viventi.
Quelli che sono in Cristo, è il suo ragionamento, non sono nelle tenebre, non appartengono alla notte, ma vivono nella luce di Cristo, appartengono al giorno, cioè alla vita. Non vuol essere un discorso moralistico, un invito a vegliare, anche se la veglia è necessaria, ma è un’affermazione di vita, di una qualità propria del credente (ontologica, se si vogliono usare parole difficili).
Poiché i credenti sono destinati ad ottenere salvezza per mezzo di Gesù, essi sono del giorno, appartengono già sin da adesso al giorno; e rafforza questa affermazione sottolineando come essi abbiano rivestito la corazza della fede e dell’amore e indossato come elmo la speranza, cioè la fiducia o, meglio, la certezza potremmo dire, della salvezza. I verbi sono all’indicativo (non all’imperativo!), a sottolineare come questa condizione sia attuale e sia opera non dell’uomo ma di Dio.
La corazza e l’elmo facevano parte dell’equipaggiamento dei soldati dell’epoca, servivano da difesa contro i colpi dei nemici. Quello che i credenti indossano è dunque un equipaggiamento difensivo, e questo vuol dire che essi sono circondati e difesi dall’amore e dalla grazia di Dio che li difende dal male e li salva dal peccato.
I cristiani, pur appartenendo già alla luce, vivono tuttavia nel mondo, sono giustificati nella fede ma pur sempre sottoposti alla tentazione, allo stesso tempo giusti e peccatori, come diceva Lutero. Non possiamo prescindere dalla grazia di Dio né affidarci alle nostre forze per resistere al male.
Veramente Dio si rivela qui come unico conforto per l’uomo, in vita e in morte, come dice il Catechismo di Heidelberg.
Anche in questo testo Paolo ci fa intendere, in modo certo meno diretto che in altri suoi scritti, ma comunque chiaro, che ciò che importa per l’uomo è come Dio lo vede, lo aiuta e lo salva. La pratica segue in modo, per così dire, conseguente.
Concetto analogo verrà espresso nella lettera agli Efesini (2,10), quando si dirà che siamo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.
E l’opera che Paolo propone ai Tessalonicesi e a tutte le chiese che, come quella, sono disorientate davanti al prolungarsi dell’attesa del ritorno del Signore è quella di consolarsi vicendevolmente e di edificarsi gli uni gli altri.
Non c’è nessuno che possa ritenersi così forte da non aver bisogno di essere consolato, e nessuno può, al contrario, ritenersi così debole da non poter consolare un fratello.
Perché tutti dipendiamo dalla grazia di Dio, e tutti siamo chiamati a testimoniare, prima di tutto nella chiesa, questa grazia.



domenica 2 novembre 2014

Predicazione di domenica 2 Novembre su Filippesi 2,12-13 di Marco Gisola in occasione della Domenica della Riforma

Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand'ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;  infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.

“È Dio che produce in voi il volere e l’agire”, scrive Paolo ai cristiani di Filippi. La vostra volontà e il vostro agire, ciò che voi volete e voi fate, dice in pratica Paolo ai filippesi, viene da Dio.
Ma come - ci verrebbe da dire - che cosa vuol dire che Dio produce in me il volere e l’agire? E dove va a finire la mia autonomia, la mia libertà, la mia libera scelta? Dove vanno a finire la mia personalità, la mia cultura, la mia intelligenza? Il discorso di Paolo sembra veramente poco moderno.
Ovviamente non dobbiamo fraintendere ciò che dice Paolo pensando che Dio ci trasformi in robot che agiscono a comando e che non hanno personalità e autonomia. Non dobbiamo intendere l’affermazione di Paolo in senso meccanico, come se Dio ci trasformasse in automi che funzionano a comando.
Quando Paolo dice “è Dio che produce in voi il volere e l’agire” non fa un’affermazione meccanica, ma un’affermazione di fede. Paolo vuole dire ai filippesi: ciò che voi volete di buono e di bello e ciò che voi fate di buono e di bello non viene da voi, ma viene da Dio, è un dono di Dio.
L’affermazione che Dio produce in noi il volere e l’agire è accettabile solo in un’ottica di fede. Perché è solo la fede che mi dice che la volontà di Dio è più giusta della mia, che ciò che Dio vuole è più giusto di ciò che io voglio.
E che quindi è più giusto che sia la volontà di Dio a guidare le mie azioni che non la mia volontà.
Chiunque altro pretendesse di trasformare la mia volontà e di orientare le mie azioni commetterebbe un plagio, un delitto, mi sottrarrebbe la mia dignità, la mia personalità e la mia umanità. Se invece è Dio a trasformare la mia volontà, non mi sottrae nulla, ma - anzi - mi dona dignità, costruisce la mia personalità e mi restituisce la mia vera umanità.
È un dono e una grazia che Dio nella sua misericordia usi la sua volontà per trasformare la mia e la sua giustizia per orientare le mie azioni. Questo lo posso dire, però, solo dopo aver riconosciuto che la mia volontà e le mie azioni, senza la grazia e l’aiuto di Dio sarebbero vane e inutili, per non dire malvagie e dannose.
Se ci rendiamo conto che abbiamo bisogno che Dio intervenga nel nostro volere e nel nostro agire, gli saremo grati della sua azione.
Se ci rendiamo conto che abbiamo bisogno che nella nostra vita qualcuno ci dica che cosa fare e dove andare, che cosa è importante e che cosa non è importante, che cosa ci può rendere liberi - e dunque felici - e che cosa ci rende invece schiavi - e dunque infelici, se ci rendiamo conto di questo saremo grati al Signore che in Gesù Cristo ci ha mostrato la via della libertà e della giustizia, della gratuità e dell’amore.
È l’incontro con Gesù Cristo che trasforma la nostra volontà, l’incontro con la sua parola, con le sue azioni, con il dono che egli ha fatto di se stesso per noi. E questo non è un atto meccanico e non è un atto di forza, ma un atto di amore, un atto che ci fa innamorare e che per questo ci convince e ci trasforma.
E Paolo è molto acuto nell'individuare come luogo della conversione la volontà.  La conversione non è la mia decisione di cambiare, ma è la decisione di Dio di cambiarmi attraverso l’incontro con Gesù Cristo.
E che cosa è che viene trasformato? Paolo dice il volere e l’agire. Non solo l’agire, non basta che le mie azioni siano trasformate dalla grazia di Dio. A Dio non basta che il mio fare sia trasformato, Egli vuole trasformare anche il mio volere.
Vuole che la mia volontà diventi simili alla sua, vuole che io voglia ciò che lui vuole.
E poi è troppo grosso il rischio di agire bene, ma in modo ipocrita. È troppo facile fare certe cose perché bisogna farle e se si fanno si ha la coscienza a posto. Dio non vuole degli automi ma nemmeno degli ipocriti. Dio vuole dei convertiti, cioè persone la cui volontà è stata trasformata dall’incontro con Cristo.
E del resto non basta nemmeno solo la volontà, senza l’azione. Se la conversione che Dio opera in noi è un’opera di trasformazione, allora essa deve produrre altre trasformazioni.
Se la grazia di Dio dona a noi peccatori la sua giustizia, allora il frutto della grazia e della conversione che ella opera in noi sarà la trasformazione dell’ingiustizia in giustizia.
Se la grazia di Dio dona a noi peccatori la sua libertà, il frutto della conversione che la grazia opera in noi sarà il cercare di trasformare la schiavitù in libertà.
Se la grazia di Dio mostra a noi peccatori il suo amore, il frutto della conversione che la grazia opera in noi sarà il cercare di trasformare l’odio che viviamo e vediamo intorno a noi in amore.
Questo l’adoperarsi “al compimento della vostra salvezza con timore e tremore”, di cui parla Paolo. Adoperarsi al compimento della propria salvezza non significa salvarsi da soli, non significa cercare di guadagnare la salvezza, perché la salvezza è già stata donata in Cristo. Ma significa vivere da salvati, significa rispondere e corrispondere all’opera della grazia di Dio.
La Riforma, che è nata dalla riscoperta dell’evangelo della grazia, ha preteso tantissimo dai suoi credenti, ha chiesto preghiera, studio della Bibbia, riflessione, e tanta, tantissima azione, tante opere.
La differenza che sembra piccola, ma che è enorme e fondamentale nel nostro rapporto con Dio, è che tu non agisci per ottenere la salvezza, ma agisci perché Dio te l’ha già donata.
Tu non agisci per farti perdonare, ma agisci perché sei già stato perdonato, non agisci per farti amare da Dio, ma agisci perché Dio ti ama e te lo ha dimostrato in Gesù Cristo.
Lutero diceva che Dio ci ha liberati da tutti i debiti che avevamo con lui - debiti che tra l’altro non avremmo mai potuto pagare - e che ora siamo quindi totalmente liberi e possiamo investire tutte le nostre energie per amare il nostro prossimo. Tutte le nostre energie, tutti i doni che lui ci ha fatto, tutto è ora lì pronto per essere messo al servizio del prossimo.
Questo significa adoperarsi per la propria salvezza. Vuol dire vivere fino in fondo il dono di Dio, vuol dire amare fino in fondo dell’amore con cui Dio stesso ci ha amati. Vuol dire condividere gratuitamente e fino in fondo i doni che Dio gratuitamente ci ha donato.
“Adoperatevi al compimento della vostra salvezza”, ma “con timore e tremore”; questa espressione che viene dall’Antico Testamento non c’entra con la paura. Il timore di Dio è la consapevolezza della grandezza di Dio da parte di chi è molto piccolo, è la consapevolezza della santità di Dio da parte di chi è misero, è la consapevolezza della giustizia e della misericordia di Dio da parte di chi è ingiusto e egoista.
“Con timore e tremore” vuol dire dubitare fortemente di noi stessi, della nostra giustizia e della nostra fedeltà ed essere invece certi della fedeltà e della giustizia di Dio – che è la sua grazia - e a lui soltanto affidarci.
Così come mettiamo nelle mani misericordiose di Dio le nostre colpe quando facciamo qualcosa di male, qualcosa che ferisce il nostro prossimo, allo stesso modo mettiamo nelle sue mani quello che di buon riusciremo a fare, dicendo a Dio: sei tu, Signore, che hai prodotto in noi il volere e anche la forza di farlo.
Perché ogni volta che vogliamo o realizziamo qualcosa di bello e di buono, non è grazie a noi e alla nostra buona volontà, ma è grazie alla sua buona volontà, che in Cristo ha incontrato la nostra e l’ha trasformata.
Che il Signore sia lodato per questo e continui senza stancarsi a cercarci e a trasformarci.

giovedì 17 luglio 2014

DEDICATA A TE, NOSTRA INDIMENTICABILE, INSOSTITUIBILE DINA!

ODE ALLA VITA
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo
ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla con chi non
conosce.
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta
musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia
aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della
pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non
risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte in piccole dosi, ricordando sempre che essere
vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto
di respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una
splendida felicità.
Pablo Neruda

A DINA ACTIS GRAGLIETTO

EPIGRAFE
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
Ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua risurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.
Adriana ZARRI

mercoledì 9 luglio 2014

CULTO DI MARIO RADAELLI A PIEDICAVALLO IL 6/07/14

culto di Mario Radaelli a Piedicavalo il 6/07/14

http://www.mediafire.com/listen/g825fd21cl71d34/(Copy_of)_culto_di_M._Radaelli_del_6,07,14_a_Piedicavallo.MP3

mercoledì 21 maggio 2014

lunedì 14 aprile 2014

Culto di Alga Barbacini - Domenica 6 aprile 2014

http://www.mediafire.com/listen/6pk35eeaxwcopr4/Culto_di_Alga_Barbacini_del_6,04,14.MP3
E' uscito il numero di primavera di Valdesi a Biella.
Chi fosse interessato a riceverlo può richiederlo inviando una e-mail all'indirizzo pidorcagima@gmail.com
GIORNATA DELLE SCUOLE DOMENICALI E DEL CIRCUITO AD ANGROGNA - 11 MAGGIO 2014

Chi fosse interessato a partecipare, è pregato di comunicarlo al più presto ad Alga (011 6508111 - 3206969579) o a Pietro (3206795274 - 015 22200). Grazie !

lunedì 17 febbraio 2014

Culto di Mario Radaelli del 16/02/14 a Biella

http://www.mediafire.com/listen/p96ua313nt8e7by/culto_di_Mario_Radaelli_a_Biella,_con_la_partecipazione_della_soprano_Patrizia_Marino_del_16,02,14.MP3


domenica 9 febbraio 2014