lunedì 23 settembre 2019

Predicazione di domenica 22 settembre 2019 su Genesi 28,10-22 a cura di Marco Gisola

Biella, 22 settembre 2019
Genesi 28,10-22
Giacobbe partì da Beer-Sceba e andò verso Caran. Giunse ad un certo luogo e vi passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, se la mise per capezzale e lì si coricò. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima toccava il cielo; e gli angeli di Dio salivano e scendevano per la scala. Il SIGNORE stava al di sopra di essa e gli disse: «Io sono il SIGNORE, il Dio d'Abraamo tuo padre e il Dio d’Isacco. La terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra e tu ti estenderai a occidente e a oriente, a settentrione e a meridione, e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua discendenza. Io sono con te, e ti proteggerò dovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese, perché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto».Quando Giacobbe si svegliò dal sonno, disse: «Certo, il SIGNORE è in questo luogo e io non lo sapevo!» Ebbe paura e disse: «Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!» Giacobbe si alzò la mattina di buon’ora, prese la pietra che aveva messa come capezzale, la pose come pietra commemorativa e vi versò sopra dell'olio. E chiamò quel luogo Betel; ; mentre prima di allora il nome della città era Luz. Giacobbe fece un voto, dicendo: «Se Dio è con me, se mi protegge durante questo viaggio che sto facendo, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi, e se ritorno sano e salvo alla casa di mio padre, il SIGNORE sarà il mio Dio e questa pietra, che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; di tutto quello che tu mi darai, io certamente ti darò la decima».


Giacobbe ha appena lasciato la casa di famiglia e sta andando verso la casa dello zio Labano, fratello di sua madre. La madre gli aveva detto di andare dallo zio per chiedere di sposare una delle sua figlie, perché non voleva che sposasse una donna cananea.
In realtà Rebecca sapeva che il fratello di Giacobbe, Esaù, voleva vendicarsi del fatto che Giacobbe gli aveva rubato con l’inganno la benedizione paterna, facendosi passare per suo fratello approfittando del fatto che suo padre Isacco era quasi cieco.
Giacobbe è dunque un uomo in fuga, dal futuro incerto, che non sa che cosa lo aspetti. Nella casa di famiglia è in pericolo, nel paese dello zio non sa ancora che cosa troverà. Ma oltre a essere un uomo in fuga è un disonesto, un truffaldino: ha ingannato il padre per sottrargli la primogenitura e così facendo ha dimostrato di non avere, non dico affetto, ma nemmeno rispetto per suo fratello.
Oltre a tutto ciò, non sembra che a Giacobbe di Dio importi poi granché. E perché dovrebbe quindi Dio occuparsi di lui? Di questo uomo pronto a ingannare chiunque per di ottenere quello che vuole!
Eppure Dio si intromette nella vita e nel viaggio di Giacobbe. E va a visitare Giacobbe, che si crede forte e intelligente, nel momento in cui è più debole e più indifeso: il sonno. Giacobbe deve dormire all’addiaccio, il buio lo ha colto prima che potesse arrivare in un posto sicuro. Usa una pietra come guanciale e dorme.
Dio lo visita attraverso un sogno. Prima di tutto gli fa vedere qualcosa: una scala che collega terra e cielo e degli angeli che la percorrono. Cielo e terra, attraverso la scala, si toccano, sono in contatto, gli angeli, i messaggeri di Dio, vanno su e giù portano la Parola di Dio sulla terra, mettono cielo e terra in comunicazione.
La terra non è senza il cielo e il cielo non è senza la terra. L’umanità non è senza Dio e Dio non è senza umanità. Il cielo – cioè Dio – non è un’entità irraggiungibile e la terra non è abbandonata da Dio a se stessa.
Ciò significa che anche Giacobbe non è senza Dio e Dio non è, non vuole essere, senza Giacobbe. Giacobbe non può più fare quello che vuole, come se esistesse solo lui e Dio non ci fosse, come se quello che accade sulla terra non riguardasse il cielo
E allora, come dice un commentatore, il nucleo di questo racconto sta già nel fatto che Dio si riveli a Giacobbe! Forse noi che conosciamo la continuazione della storia questo può sembrare scontato, ma in realtà non era affatto ovvio.
Giacobbe, diciamocelo, è un poco di buono, un approfittatore e un ingannatore, che per salvarsi la pelle è stato convinto a scappare e a cercare rifugio da uno zio lontano. È questo Giacobbe qui che Dio va a cercare e a dirgli che lui ha qualcosa da dire sulla sua vita, anzi: che vuole lui, Dio, dire una parola decisiva sulla sua vita.
La parola decisiva sulla vita di Giacobbe che Dio vuole dire è una promessa. Con tutto quello che Giacobbe aveva combinato ci si sarebbe potuto aspettare un rimprovero, un castigo… e invece no, Dio si fa incontro a Giacobbe con una promessa.
La promessa è quella classica, quella già rivolta al nonno Abramo e al padre Isacco: è una triplice promessa: la terra, la discendenza e l’essere benedizione per tutte le famiglie della terra. Giacobbe ora un fuggiasco ma Dio gli promette che lo ricondurrà nella terra dove aveva già mandato il nonno Abramo.
Ma a questa promessa si aggiunge una promessa personale: «Io sono con te, e ti proteggerò dovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese, perché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto».
Dio promette a Giacobbe la sua presenza e la sua protezione. “Io sono con te” è la promessa che lega Dio a coloro che sceglie e che in generale lega Dio al suo popolo.
Lo prometterà al profeta Geremia: “Non ti vinceranno perché io sono con te per librarti...” (1,19), lo dirà al popolo in esilio in babilonia attraverso il profeta Isaia: “quando dovrai attraversare le acque io sarò con te...” (43,2) e lo ha detto Gesù risorto ai suoi discepoli – e quindi anche a noi – dando loro la missione di andare a tutti i popoli: “io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dell’età presente” (Matteo 28,20).
Questa frase, messa in bocca al credente, diventa invece una confessione di fede, come nel famosissimo verso del salmo 23: “Quand’anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me”.
In fondo era questo il significato della scala che Giacobbe ha sognato: il cielo non è chiuso e Dio non è lontano perché viene in terra, viene a essere con noi, anzi a camminare con noi:
Dio sarà con Giacobbe, ma con un Giacobbe in cammino, in una sorta di esilio, benché un esilio dorato, perché sarà dallo zio dove troverà lavoro e moglie e si farà una famiglia, quella discendenza che Dio gli aveva promesso.
Dio è con Giacobbe. Questo cambia tutto. Giacobbe deve riprendere il cammino, ma non lo riprende da solo, Dio è con lui e la promessa di Dio è con lui. Noi sappiamo che davvero Giacobbe tornerà, tornerà con una grande famiglia e si riconcilierà con il fratello Esaù. La promessa di Dio si realizzerà.
Ma Giacobbe cambia già ora, si rende conto che Dio lo ha visitato e fa due cose: prima fa un piccolo rituale, prendendo la pietra su cui aveva dormito e facendola diventare una pietra commemorativa, un monumento, versandoci sopra dell’olio. Mentre fa questo dà un nome al luogo: Betel, che significa casa di Dio.
Quel luogo da ora in poi sarà legato all'evento che Giacobbe vi ha vissuto. Lì Giacobbe ha incontrato Dio e quella per lui rimane la casa di Dio. Forse a noi può lasciare perplessi legare la presenza di Dio a un luogo, ma in fondo questo gesto di Giacobbe è anche una confessione d fede: qui, dice Giacobbe ho incontrato Dio e questo incontro ha cambiato la mia vita.
E la pietra che ha eretto a mo’ di monumento lo ricorderà per sempre. Del resto anche la storia valdese è piena di luoghi che dei monumenti hanno fatto diventare luoghi della memoria, legati a momenti importanti per la fede della nostra chiesa.
E poi fa un voto, una promessa. Qui Giacobbe rimane Giacobbe e la sua promessa è costellata di “se”: Se Dio è con me, se mi protegge durante il viaggio …, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi, se ritorno sano e salvo alla casa di mio padre… Se Dio farà tutto questo allora “il Signore sarà il mio Dio” e Giacobbe gli darà la decima.
Giacobbe insomma è molto pragmatico e vuole verificare che Dio mantenga la promessa. Ma pure, accoglie la sfida e comprende che la promessa che ha ricevuto da Dio implica anche un suo impegno e una sua promessa. Giacobbe non è più solo, ma se la strada si fa in due, anche lui deve prendersi i suoi impegni.
Che cosa dice a noi questa antica storia, un po’ ironica, ma molto affascinante?
Ci dice – come tutta la Bibbia - che Dio non va a cercare i migliori, anzi a volte sembra quasi cercare i peggiori! Dio non va a cercare i migliori, ma ce la mette tutta per rendere migliori quelli che sceglie.
Dio si era legato ad Abramo e alla sua discendenza. Tra Giacobbe e Esaù ha scelto Giacobbe e con Giacobbe fa i conti, con Giacobbe e con tutti i suoi difetti e le sue colpe.
Dio non lo abbandona a se stesso, questo ingannatore patentato, che non ha rispetto per la primogenitura del fratello, e nemmeno per la benedizione paterna che estorce con l'inganno! Dio lo va a cercare e fa i conti con lui.
Non i migliori, non i perfetti, che non esistono: Dio a va a cercare Giacobbe, va a cercare il Giacobbe che è in noi con tutti i suoi difetti e cerca di trasformarlo.
E come cerca di trasformarlo? Dio non lo va cercare con un randello da dargli sulla testa, ma prima con il sogno della scala e poi con la promessa. È la promessa che può trasformare Giacobbe e renderlo un po’ più simile a come Dio lo vuole.
Anche noi Dio viene a cercare per rinnovarci la sua promessa. Lo ha fatto in Gesù e lo fa ogni volta che l’evangelo viene annunciato e la promessa di Dio viene ripetuta: io sono con te.
Oggi la ripete anche a noi: Io sono con te, e ti proteggerò dovunque tu andrai. Dio non ci molla, come non ha mollato Giacobbe. Non ci molla quando siamo soli e non ci molla nemmeno quando siamo colpevoli.
Giacobbe era un uomo solo, colpevole, fuggiasco. Alla fine della sua vicenda sarà un uomo con una grande famiglia, riconciliato con il fratello che aveva ingannato, e ritornerà nella sua terra.
Dio non ci molla. Ovunque andremo, ci inseguirà con la sua promessa alla quale ci richiederà di rispondere con fiducia.

domenica 8 settembre 2019

Predicazione di domenica 8 settembre 2019 (in occasione della Giornata Dolciniana) su Atti 3,1-10 a cura di Marco Gisola

Bocchetta di Margosio (Giornata Dolciniana) – 8 settembre 2019
Atti 3,1-10
Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera dell’ora nona, mentre si portava un uomo, zoppo fin dalla nascita, che ogni giorno deponevano presso la porta del tempio detta «Bella», per chiedere l'elemosina a quelli che entravano nel tempio. Vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, egli chiese loro l’elemosina. Pietro, con Giovanni, fissando gli occhi su di lui, disse: «Guardaci!» Ed egli li guardava attentamente, aspettando di ricevere qualcosa da loro. Ma Pietro disse: «Dell’argento e dell'oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» Lo prese per la mano destra, lo sollevò; e in quell'istante le piante dei piedi e le caviglie gli si rafforzarono. E con un balzo si alzò in piedi e cominciò a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio.Tutto il popolo lo vide che camminava e lodava Dio; e lo riconoscevano per colui che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta «Bella» del tempio; e furono pieni di meraviglia e di stupore per quello che gli era accaduto.


1. Quello che ho te lo do. E che cosa ho? Noi, sorelle e fratelli, spesso tendiamo a pensare di avere poco se non addirittura nulla o quasi. Oro e argento non ne abbiamo, o almeno ne abbiamo poco; e anche se ne avessimo questo racconto ci dice che non si tratta di denaro.
Noi pensiamo di avere poco: poco denaro, pochi fedeli, pochi pastori e pastore, poca visibilità… poco di tutto. Questa storia ci dice invece che una cosa ce l’abbiamo ed è in fondo l’unica che conta: la parola.
Voi direte: ma questo è un racconto di miracolo, non una predicazione. Vero. Ma se in questa storia vediamo solo il miracolo prima di tutto ci deprimiamo e poi andiamo fuori strada.
Ci deprimiamo perché la nostra prima reazione davanti a questo racconto è: Pietro incontra un uomo zoppo dalla nascita e lo guarisce, e invece io non sono in grado. A volte mi sembra di non essere in grado nemmeno di curare o di accudire le persone che mi sono care, figuriamo di guarirle!
E poi, la frustrazione è al quadrato: pazienza i miracoli che compie Gesù, quelli li posso ancora accettare: Gesù è il figlio di Dio! Ma Pietro! Un discepolo che è arrivato a negare di conoscere Gesù, quando poco prima aveva proclamato di voler morire con lui! Proprio lui fa miracoli!
Intanto non è Pietro che compie il miracolo. Cioè non si tratta di una virtù o capacità di Pietro. È la parola che pronuncia che fa guarire lo zoppo.
Vi sembrerà una distinzione di poco conto, ma è sostanziale: non è che Pietro è diventato capace di compiere miracoli, di far guarigioni. È che in quel momento la parola agisce e guarisce. Non c’è automatismo, Pietro non è diventato un guaritore, rimane un apostolo, uno inviato ad annunciare l'evangelo. Certo quell’evangelo guarisce lo zoppo e questo ci fa domandare perché l’evangelo che annunciamo noi non lo fa. Ma non è Pietro, è la Parola dell’evangelo che guarisce.
E poi, anche davanti al miracolo, non dobbiamo fermarci all’aspetto fisico del miracolo: lo zoppo non è più zoppo, prima non camminava o camminava male, ora cammina bene. Il significato è più profondo, perché in quella società uno zoppo, come qualunque persona che oggi noi definiremmo disabile, conduceva una vita che era una non-vita.
Infatti chiede l’elemosina, perché non può lavorare, non può mantenersi e uno che non può lavorare e mantenersi difficilmente in quella società può metter su famiglia e rischia, oltre tutto il resto, di essere condannato alla solitudine. E non c’è nemmeno uno stato sociale, quindi dipende dalla generosità o dalla commiserazione degli altri.
Dopo il miracolo, quell’uomo passa da una non-vita a una vita. La parola dell’evangelo che Pietro pronuncia lo rimette in piedi, potremmo quasi dire lo risuscita. Non che fosse morto, ma conduceva appunto una vita non-vita. Ogni giorno era uguale a se stesso, non aveva che da chiedere l’elemosina per comprare qualcosa da mangiare. Ora invece è in piedi, può vivere e guardare avanti. È rinato alla speranza. La Parola di Dio non guarisce soltanto una gamba, ma la persona intera.
Rimane vero che molte persone intorno a noi hanno bisogno di guarigione fisica da troppi tipi di malattia e noi non riusciamo a darla loro. Ma è anche vero che molte persone che non hanno nessun problema di salute, che stanno benissimo, ciononostante non hanno speranza, non sembrano stare in piedi e non guardano avanti.
A tutte queste persone – malate nel fisico o nell’animo - sappiamo dare quello che abbiamo? Siamo capaci a dire «Quello che ho, te lo do», e a dire loro l’evangelo della speranza? E non ce l’ho perché quella parola, quell’evangelo, sia mia. Ce l’ho perché l’ho ricevuto e lo ricevo continuamente. Non è affatto mio, è l’evangelo di Gesù Cristo. Ma proprio perché è suo io posso darlo e dirlo.


2. Finora ho dato per scontato che noi possiamo identificarci con gli apostoli, con coloro che hanno ricevuto l’evangelo e sono chiamati a annunciare questa parola che trasforma.
E se invece, qualche volta, fossimo noi lo zoppo? Se fossimo noi quelli che chiedono l’elemosina, ovvero che hanno bisogno di qualcosa che ci aiuti a vivere?
Se fossimo noi quelli che chiedono l’elemosina, ovvero che chiedono e dalla vita si aspettano solo un’elemosina, solo briciole, per poter giusto sopravvivere e arrivare alla fine della giornata?
Come credenti siamo sì, tutti e tutte noi inviati/e a portare la parola dell’evangelo che guarisce e trasforma.
Ma siamo prima di tutto i destinatari di questa parola, siamo prima di tutto coloro che sono chiamati a ascoltarla e ad alzarsi in piedi, guariti dalle proprie tristezze e dalle proprie rassegnazioni per trovare in quella parola nuova speranza e nuovo senso alla propria vita.
Del resto non sono stati proprio anche Pietro e Giovanni “zoppi” nel loro discepolato di Gesù? Pietro il rinnegatore, Giovanni che insieme al fratello voleva stare alla destra e alla sinistra di Gesù nel suo regno non hanno “zoppicato” nel loro cammino dietro a Gesù?
È solo l’evangelo della resurrezione che li ha rimessi in piedi, solo dopo la resurrezione di Gesù e il dono dello Spirito a Pentecoste – raccontata nel capitolo precedente – che i discepoli zoppicanti nella loro sequela si sono rimessi in piedi e sono diventati apostoli, cioè annunciatori della Parola e non solo più destinatari.
E, tornando al nostro racconto, forse ora c’è un discepolo in più: una volta guarito, l’uomo che era stato zoppo «entrò con loro nel tempio, camminando, saltando e lodando Dio».
Quell’uomo entra nel tempio «camminando, saltando e lodando Dio», ovvero cammina senza problemi, vive una nuova vita, salta, cioè fa quello che prima non poteva fare, loda Dio, quindi è grato e gioioso.
Ma non solo: tutto questo lo fa entrando nel tempio «con loro». Non è più solo, è con Pietro e Giovanni, non ha trovato, o meglio: non ha ricevuto soltanto gambe nuove e quindi vita nuova, ma anche comunione nuova, fratellanza nuova. Non è più solo, la parola che lo ha guarito gli ha anche dato dei fratelli e delle sorelle.
Questa è la Parola che ci raggiunge oggi: l’evangelo ti rimette in piedi, ti dona nuova vita e nuova speranza e anche una comunità fatta di sorelle e fratelli con cui gioire, saltare e lodare Dio insieme.
Ma dopo aver gioito lodato, la stessa parola manda quella comunità fuori, a tutti gli zoppi, i tristi, i rassegnati, a tutti gli oppressi e gli emarginati a dire loro: “quello che ho te lo do”, la Parola che libera e guarisce, che ridona speranza e rimette in piedi.
Ci dia il Signore di saper invocare il suo aiuto quando siamo zoppi, stanchi e rassegnati e di saper annunciare il suo evangelo quando quella stessa parola ci rimette in piedi.
Nella ferma fiducia che quella Parola, la Parola di Dio ogni giorno ci viene incontro nel nostro zoppicare, ogni giorno ci rimette in piedi e ogni giorno ci chiama a condividere l’evangelo della rinascita e della speranza.

martedì 3 settembre 2019

Predicazione di domenica 1 settembre su 2 Samuele 12,1-14 a cura di Marco Gisola

Biella, 1 settembre 2019
 
2 Samuele 12,1-14

1 Il SIGNORE mandò Natan da Davide e Natan andò da lui e gli disse:
«C'erano due uomini nella stessa città; uno ricco e l'altro povero.
2 Il ricco aveva pecore e buoi in grandissimo numero; 3 ma il povero non aveva nulla, se non una piccola agnellina che egli aveva comprata e allevata; gli era cresciuta in casa insieme ai figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Essa era per lui come una figlia. 4 Un giorno arrivò un viaggiatore a casa dell'uomo ricco. Questi, risparmiando le sue pecore e i suoi buoi, non ne prese per preparare un pasto al viaggiatore che era capitato da lui; prese invece l'agnellina dell'uomo povero e la cucinò per colui che gli era venuto in casa».
5 Davide si adirò moltissimo contro quell'uomo e disse a Natan: «Com'è vero che il SIGNORE vive, colui che ha fatto questo merita la morte; 6 e pagherà quattro volte il valore dell'agnellina, per aver fatto una cosa simile e non aver avuto pietà».
7 Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell'uomo! Così dice il SIGNORE, il Dio d'Israele: "Io ti ho unto re d'Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, 8 ti ho dato la casa del tuo signore e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo signore; ti ho dato la casa d'Israele e di Giuda e, se questo era troppo poco, vi avrei aggiunto anche dell'altro. 9 Perché dunque hai disprezzato la parola del SIGNORE, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai fatto uccidere Uria, l'Ittita, hai preso per te sua moglie e hai ucciso lui con la spada dei figli di Ammon. 10 Ora dunque la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, perché tu mi hai disprezzato e hai preso per te la moglie di Uria, l'Ittita". 11 Così dice il SIGNORE: "Ecco, io farò venire addosso a te delle sciagure dall'interno della tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che si unirà a loro alla luce di questo sole; 12 poiché tu lo hai fatto in segreto; ma io farò questo davanti a tutto Israele e in faccia al sole"».
13 Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il SIGNORE». Natan rispose a Davide: «Il SIGNORE ha perdonato il tuo peccato; tu non morrai. 14 Tuttavia, siccome facendo così tu hai dato ai nemici del SIGNORE ampia occasione di bestemmiare, il figlio che ti è nato dovrà morire». Natan tornò a casa sua.


Il racconto di oggi è tratto da una delle pagine più drammatiche e intense dell’AT, in cui la storia di Israele si intreccia con la storia personale del re Davide. Per capire il testo che abbiamo letto dobbiamo raccontare brevemente ciò che appena accaduto prima, al cap 11. La storia inizia con Davide che è a casa tranquillo che passeggia sulla sua terrazza, mentre il suo esercito è in battaglia. Già questo non lo mette in buona luce: anziché essere con il suo esercito e guidarlo, il re se ne è rimasto a casa, dove evidentemente ha altro da fare. Mentre passeggia vede una donna che fa le abluzioni rituali, è Batsceba o Betsabea. Betsabea è bellissima, dice il testo, e Davide fa raccogliere informazioni su di lei e poi la manda a prendere. Il racconto usa propri questo verbo: prendere
Questo verbo rimanda a un racconto di alcuni capitoli prima: quando Israele aveva chiesto a Dio di avere un re, Dio lo aveva avvertito: se vogliono avere un re, egli lo darà loro, ma devono sapere che il re prenderà i loro figli, le loro figlie, i loro campi, i loro raccolti, ecc. per costituire e mantenere il suo esercito e la sua corte. Potete leggere questo in 1 Samuele 8. Ed ecco qui la prova che Dio aveva ragione: Davide manda a prendere Betsabea, semplicemente perché le piace. Manda a prendere, perché raramente i potenti si sporcano le mani, ma in genere fanno fare i lavori sporchi ad altri.
Davide ha con Betsabea un rapporto sessuale, che nei fatti è una violenza sessuale, perché Betsabea è costretta, e poi la rimanda indietro. Ha avuto quello che voleva e ora Betsabea non gli serve più, può tornare a casa. Ma non tutto va come Davide aveva previsto: Betsabea rimane incinta e lo manda a dire a Davide: come potrebbe giustificare il fatto di essere incinta, dato che suo marito, come molti uomini israeliti, è in battaglia, lontano da casa? Davide in un primo tempo cerca una soluzione morbida: manda a chiamare Uria, il marito di Betsabea, dal fronte per fare in modo che vada a letto con sua moglie. Ma Uria, pensando ai suoi compagni che stanno combattendo, dice che non può fare una cosa simile. Davide prova persino a farlo ubriacare, ma nemmeno così Uria cede. Allora Davide passa a una soluzione più drastica: fa uccidere Uria, ordina di mandarlo dove infuria la battaglia nell'assedio alla città nemica. Uria muore e Davide può di nuovo mandare a prendere Betsabea, questa volta per sposarla e avere da lei il figlio che attende.
Così finisce il cap. 11. o meglio, così finisce il racconto, ma l’autore del libro di Samuele aggiunge un commento: “Ma quello che Davide aveva fatto dispiacque al Signore”. Dio non ha fermato Davide, come non ha fermato gli aguzzini e i dittatori di cui è piena la storia umana, ma il suo giudizio è netto: quello che Davide ha fatto non va per nulla bene. Ma questo messaggio deve ora arrivare anche a Davide.
Ed eccoci al nostro testo: il compito è affidato al profeta Natan, che lo svolge in modo molto astuto: non va ad accusare direttamente Davide, ma fa in modo che Davide accusi se stesso, raccontandogli la storia di un uomo che aveva una sola agnellina che amava molto e che gli viene presa per essere uccisa e cucinata da un uomo ricco che possedeva pecore in quantità. Davide a sentire la storia si arrabbia moltissimo: “quell'uomo merita la morte!”, è la sua sentenza. E qui Natan smette di raccontare storie: “quell'uomo sei tu”, gli dice in faccia. Come l'uomo della storiella inventata ha preso la pecora del vicino, tu hai preso la moglie di Uria e lo hai fatto uccidere.
Il peccato di Davide è l'abuso di potere, grande tentazione di chiunque ha un qualche potere, grande o piccolo che sia. l’abuso di potere si è concretizzato nella violenza sessuale nei confronti di Betsabea e nell’omicidio di Uria. Israele aveva voluto un re come hanno gli altri popoli, ora ha un re che si comporta da tiranno come gli altri re del tempo. Questo racconto prende di petto il tema del potere e del suo abuso. I re pensavano a quei tempi di avere un potere assoluto, erano loro a fare le leggi ed erano loro a farle rispettare e quindi erano al di sopra della legge, perché erano loro stessi - i re - la legge.
Ma non in Israele. In Israele sopra il re c’è la legge di Dio. Questo fa la differenza, questo fa sì che un uomo come il profeta Natan possa andare dal re e dirgli: tu hai sbagliato, hai infranto la legge che è al di sopra di te, e non al di sotto, hai infranto la legge di Dio. Natan esprime il giudizio di Dio. Ciò che Davide aveva fatto dispiacque al Signore. La prima cosa dunque che questo testo ci dice è che Davide è colpevole. Ci si potrebbe stupire che questa storia si trovi nella Bibbia. Ci si sarebbe potuti aspettare che qualcuno censurasse questo racconto e lo eliminasse dalla Bibbia, per nascondere e non far conoscere questa enorme macchia che c'è nella vita del grande re Davide. E invece no, questa storia c'è, c'è questa storia fatta di abuso di potere, di violenza, di omicidio; di colpa. Davide è colpevole, ci dice la Bibbia, il grande re Davide è un uomo colpevole.
La colpa di Davide – oltre a tutto ciò che ha fatto – è stata l’abuso di potere, il potere che gli dà il fatto di essere re e il potere che gli dà il fatto di essere un maschio. Questo ci richiama al fatto che tutti e tutte noi siamo tentati dalla colpa dell’abuso del potere, perché quasi tutti abbiamo un potere, magari molto piccolo, su qualcuno che sta intorno a noi.
Ma questo non riguarda soltanto Davide: Davide è colpevole, ma io sono colpevole, tu sei colpevole. La storia umana, la grande e la piccola storia, ci dice oggi la Bibbia, è fatta da gente colpevole, non da gente innocente. E che cosa fa Dio con i colpevoli?

2. Natan – abbiamo detto - va a pronunciare il giudizio su Davide, giudizio che è netto e che Davide non può che riconoscere. Ma così facendo Natan va a salvare Davide. Davide si salva solo perché Natan gli fa riconoscere la sua colpa. Il giudizio di Dio lo mette a nudo, Davide non può mentire. Non può mentire perché non si può mentire a Dio, ma non può mentire nemmeno a se stesso. La grazia inizia con il giudizio. Senza giudizio non c’è grazia. Grazia senza giudizio, sarebbe quella che Bonhoeffer chiama la grazia a buon mercato. Ma la grazia di Dio non è buon mercato e quindi inizia con il giudizio.
Riconoscendo il giudizio di Dio su di lui, Davide smette di essere falso e bugiardo. Davide riconosce la sua colpa perché sente proclamare il giudizio di Dio su di sé. Bisogna passare da lì, lì inizia la grazia. Il giudizio di Dio è anche sempre l’invito al pentimento e l’offerta della possibilità di cambiare. Ma bisogna farlo proprio, bisogna essere sinceri prima di tutto con se stessi davanti a Dio. Davide lo fa e cambia, è trasformato dal giudizio di Natan. Riconosce la sua colpa, passa dalla presunzione al riconoscimento della colpa, passa dalla menzogna alla verità.

3. Il racconto prosegue in modo a noi incomprensibile, perché Dio decide di risparmiare Davide ma comunque di infliggergli una punizione e la punizione che Dio infligge a Davide ci sembra ingiusta e assurda: il bimbo nato da lui e Betsabea si ammala, Davide è abbattuto, digiuna e dorme sdraiato in terra, ma dopo sette giorni il piccolo muore. La domanda che ci sorge naturale (ma che non ha risposta nel testo) è perché debba pagare il bambino innocente per la colpa di Davide. Cosa assurda per noi del ventunesimo secolo, come del resto ci appare assurdo anche che mai una volta Betsabea abbia voce in questo capitolo, mai veniamo a sapere che cosa prova o cosa pensa. Questo racconto risente della (poca o nulla) considerazione che si aveva per le donne e per i bambini. La vita del bambino è vista solo in riferimento a Davide, non al neonato stesso. È Davide a essere punito con la morte del figlio, è lui a pagare.
Se vogliamo andare oltre le nostre domande, possiamo forse dire che il significato, all’interno del racconto, della morte del figlio è che la strada scelta da Davide – la strada dell'abuso di potere, della violenza, dell'inganno, dell'omicidio – non porta da nessuna parte. Quella strada non ha futuro, questo vuol dirci questa morte assurda di un innocente. Il futuro dovrà percorrere una strada diversa e infatti Davide e Betsabea avranno un altro figlio, Salomone, che rappresenterà il futuro e sarà il successore di Davide.
Dopo questi eventi drammatici, dopo il pentimento, Davide continuerà a fare il re e sarà il re più famoso di Israele. Ma la sua storia deve passare attraverso la colpa e il pentimento, Davide deve toccare il fondo, nella sua esistenza viene fuori il peggio di un’umanità che non ha scrupoli e che non guarda in faccia a nessuno.
Da questo fondo risalirà grazie alla parola di giudizio di Natan, parola di giudizio che quindi è allo stesso tempo parola di grazia. Per Davide c’è ora una nuova possibilità. Questo è il senso della storia, anche se, come abbiamo detto, per la nostra mentalità moderna molte parti di questa storia rimangono incomprensibili. Davide commette un peccato, un crimine terribile, ma Dio non lo ripudia e gli concede di andare avanti, gli offre una nuova possibilità. Proprio in questo consiste la grazia, nell'avere una nuova possibilità, anche quando si è toccato il fondo.
Questa non è certo una “bella” storia, e forse - direte – non è nemmeno una storia molto spirituale. Ma è un racconto “vero”, vero nel senso di un racconto molto umano, in cui viene fuori il peggio dell'umanità, che in Davide tocca davvero il fondo. Ed è un racconto vero anche in senso evangelico: l’evangelo di questo racconto è che Dio, proprio quando l’umanità tocca il suo fondo e il suo massimo di egoismo e crudeltà, manda Natan a pronunciare una parola di giudizio che salva Davide e lo riscatta. Perché la grazia comincia con il giudizio, perché è grazie al giudizio pronunciato da Natan che Davide arriva al riconoscimento della propria colpa e al cambiamento. È quando ci riconosciamo colpevoli e non innocenti che la grazia di Dio ci offre la possibilità di ricominciare. Perché questa è la nostra salvezza: che ogni volta che siamo colpevoli, la parola di giudizio e di grazia del Signore ci raggiunge e ci offre una nuova possibilità di ricominciare, anche quando capita di toccare il fondo.
In mezzo ai drammi dell’esistenza, nel profondo del buio della colpa, dell'orgoglio, del desiderio e dell’abuso di potere e in mezzo a tutto il dolore che tutto ciò provoca, la parola di Dio viene a dirci che c’è un’altra strada, un altro modo di vivere il nostro rapporto con Dio e con il prossimo. E questo non per illuderci di essere innocenti, ma per essere riscattati dalle nostre colpe di colpevoli.
Dio continui a raggiungerci con la sua parola anche nei luoghi più bassi della nostra esistenza, per offrirci ogni volta una nuova possibilità e una nuova speranza.