lunedì 23 ottobre 2017

Predicazione di domenica 22 ottobre 2017 su 1 Corinzi 12 a cura di Marco Gisola

1 Corinzi 12
1 Circa i doni spirituali, fratelli, non voglio che siate nell'ignoranza. 2 Voi sapete che quando eravate pagani eravate trascinati dietro agli idoli muti secondo come vi si conduceva. 3 Perciò vi faccio sapere che nessuno, parlando per lo Spirito di Dio, dice: «Gesù è anatema!» e nessuno può dire: «Gesù è il Signore!» se non per lo Spirito Santo.
4 Ora vi è diversità di doni, ma vi è un medesimo Spirito. 5 Vi è diversità di ministeri, ma non v'è che un medesimo Signore. 6 Vi è varietà di operazioni, ma non vi è che un medesimo Dio, il quale opera tutte le cose in tutti.
7 Ora a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune. 8 Infatti, a uno è data, mediante lo Spirito, parola di sapienza; a un altro parola di conoscenza, secondo il medesimo Spirito; 9 a un altro, fede, mediante il medesimo Spirito; a un altro, doni di guarigione, per mezzo del medesimo Spirito; 10 a un altro, potenza di operare miracoli; a un altro, profezia; a un altro, il discernimento degli spiriti; a un altro, diversità di lingue e a un altro, l'interpretazione delle lingue; 11 ma tutte queste cose le opera quell'unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole.
12 Poiché, come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo. 13 Infatti noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito.
14 Infatti il corpo non si compone di un membro solo, ma di molte membra. 15 Se il piede dicesse: «Siccome io non sono mano, non sono del corpo», non per questo non sarebbe del corpo. 16 Se l'orecchio dicesse: «Siccome io non sono occhio, non sono del corpo», non per questo non sarebbe del corpo. 17 Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? 18 Ma ora Dio ha collocato ciascun membro nel corpo, come ha voluto. 19 Se tutte le membra fossero un unico membro, dove sarebbe il corpo? 20 Ci sono dunque molte membra, ma c'è un unico corpo; 21 l'occhio non può dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né il capo può dire ai piedi: «Non ho bisogno di voi». 22 Al contrario, le membra del corpo che sembrano essere più deboli, sono invece necessarie; 23 e quelle parti del corpo che stimiamo essere le meno onorevoli, le circondiamo di maggior onore; le nostre parti indecorose sono trattate con maggior decoro, 24 mentre le parti nostre decorose non ne hanno bisogno; ma Dio ha formato il corpo in modo da dare maggior onore alla parte che ne mancava, 25 perché non ci fosse divisione nel corpo, ma le membra avessero la medesima cura le une per le altre. 26 Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui.
27 Ora voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua. 28 E Dio ha posto nella chiesa in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori, poi miracoli, poi doni di guarigioni, assistenze, doni di governo, diversità di lingue. 29 Sono forse tutti apostoli? Sono forse tutti profeti? Sono forse tutti dottori? Fanno tutti dei miracoli? 30 Tutti hanno forse i doni di guarigioni? Parlano tutti in altre lingue? Interpretano tutti?
31 Voi, però, desiderate ardentemente i doni maggiori!


Il capitolo 12 della prima lettera ai Corinzi è molto lungo e denso e vorrei quindi provare a guardare questo brano mettendo in risalto alcuni aspetti generali, senza entrare nei singoli dettagli. Il tema di questo capitolo – anzi dei capitoli che vanno dal 12 al 14 – è: i doni dello Spirito.
1) La prima cosa che incontriamo in questo brano è un’affermazione molto chiara e precisa, in cui Paolo dice che se uno confessa che Gesù è il Signore, lo fa grazie all’azione dello Spirito Santo; e se qualcuno dice “Gesù è anatema”, cioè “Gesù è maledetto” è chiaro che non lo fa per l’azione dello Spirito Santo.
In breve: se c’è confessione della fede – cioè se c’è fede – c’è lo Spirito. Come faccio sapere dove è che lo Spirito agisce? Paolo dice: se c’è fede, c’è lo Spirito.
Ovviamente non basta che la fede sia confessata con le parole, ripetere con la bocca una confessione di fede non implica per forza la fede; lo si può anche fare meccanicamente o peggio ipocritamente, senza credere a ciò che si dice.
Ipocrisie a parte, il criterio che mi dice dove lo Spirito agisce è la confessione della fede in Cristo: “Gesù è il Signore” è probabilmente la più antica confessione di fede cristiana.
Questo testo è dunque ecumenico per eccellenza: è lo Spirito, e non l’appartenenza a questa o a quella chiesa, che fa sì che uno sia cristiano.
Se qualcuno confessa “Gesù è il Signore” lì c’è lo Spirito in azione, non importa a quale confessione cristiana appartenga, riformata, luterana, cattolica, ortodossa, pentecostale… non è l’etichetta confessionale che conta, ma lo Spirito.
Questo ovviamente non risolve tutti i problemi e non elimina le differenze teologiche, ma è il punto di partenza per relazionarci agli altri cristiani e per non correre il rischi di non considerarli cristiani.
Paolo ci dice che non siamo noi a decidere chi sono i cristiani, ma è lo Spirito a deciderlo. Lo Spirito è Spirito di Cristo e porta a confessare Cristo. Questa è la base di partenza, da cui partire per discutere tutto il resto.


2) Paolo entra poi nel vivo della questione dei doni dello Spirito; Paolo scrive queste righe quasi sicuramente perché era stata la chiesa di Corinto stessa che gli aveva chiesto di affrontare questo tema, perché a Corinto c’erano dei problemi: qualcuno riteneva di avere dei doni dello Spirito in quantità o qualità tale che queste persone pensavano di essere speciali, diversi, superiori al resto della comunità.
Si era cioè creata una divisione – non so se anche una discriminazione – tra quelli che si ritenevano spirituali, o più spirituali di altri e il resto della comunità. Paolo reagisce a questa situazione.
E reagisce con questo suo discorso sui doni dello Spirito. Paolo ha appena detto che il primo frutto dell’azione dello Spirito Santo è la fede e quindi la confessione della fede, e che quindi tutti quelli che credono sono spirituali allo stesso modo.
E poi approfondisce il tema dei doni: “Vi è diversità di doni, ma vi è un medesimo Spirito”: i doni sono tanti, il donatore è uno, è lo Spirito. Insomma: Dio è uno e i doni di Dio, del suo Spirito, sono tanti.
E a chi lo Spirito dà i suoi doni? Al v. 7 scrive: “a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune.
A ciascuno lo Spirito dà i suoi doni. A ciascuno, non a qualcuno soltanto, non a uno o a un gruppo, a una parte della comunità, ma a tutti. Come la fede – primo dono dello Spirito – è data a tutti quelli che credono, i doni particolari dello Spirito sono dati a tutti.
Paolo vuole dire che quando si parla dei doni dello Spirito non si possono giustificare discriminazioni tra i membri della chiesa. Non c’è nessuno che non abbia nessun dono e non c’è nessuno che abbia tutti i doni. Questo tema lo riprende nella parte finale, in cui utilizza l’immagine del corpo.
Ma anche qui è chiaro: il donatore è uno, i doni sono molti, e questa molteplicità crea diversità, non discriminazione. La diversità non è diversità di livello di dono, ma casomai di tipo di dono.
Paolo stabilisce anche il criterio per verificare i doni: a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune”. Per il bene comune, cioè per il bene di tutti, di tutta la comunità. I doni dello Spirito sono al servizio della comunità infatti una delle parole che all’inizio del capitolo usa per indicare i doni è, in greco, “diaconie” cioè servizi, che la nostra Bibbia traduce “ministeri”.
Su questo Paolo tornerà nel cap. 14, quando parlerà del dono delle lingue, cioè del parlare in lingue che spesso nessuno dei presenti comprendeva. Era un fenomeno che evidentemente a Corinto era diffuso e quelli che parlavano in lingue probabilmente si ritenevano superiori agli altri.
Paolo, nel cap. 14 scriverà che:
chi parla in altra lingua non parla agli uomini, ma a Dio; poiché nessuno lo capisce, ma in spirito dice cose misteriose”. E quindi tira la conclusione che: “Chi parla in altra lingua edifica se stesso; ma chi profetizza edifica la chiesa”.
I doni dello Spirito sono dati per edificare la chiesa, non per edificare se stessi. Il dono dello Spirito diventa servizio. Se non diventa servizio, iniziano i problemi, perché se il dono non diventa servizio può diventare orgoglio, può diventare potere, può diventare voglia di primeggiare e complesso di superiorità.
Paolo nei due versetti del cap 14 che vi ho letto usa il verbo edificare, ovvero costruire. Il servizio edifica, cioè costruisce; l'orgoglio, la superiorità, il potere demoliscono le relazioni quindi demoliscono la comunità.
Da questa parte centrale del capitolo, io trarrei due insegnamenti: un ammonimento a non considerare i propri doni migliori o maggiori di quelli di altri, un ammonimento a non cadere nella presunzione di superiorità, un ammonimento a non dimenticare che anche gli altri hanno dei doni dello Spirito.
Ma anche un invito: questo brano ci dice che la chiesa la costruiamo insieme. Anzi, poiché i doni sono di tutti, e di ciascuno, questa parola di oggi ti dice che TU costruisci questa chiesa insieme agli altri, mettendo al servizio i tuoi doni insieme ai doni degli altri e di tutti.
E l’invito è un invito personale e pressante che richiede una risposta: il Signore ci dona i suoi doni e ci chiede di usarli, non solo nella chiesa ovviamente, ma anche nella società in cui viviamo.
Ma rimanendo nel discorso sulla chiesa (che è quello che Paolo fa qui): il Signore ti dona e ti chiede di usare i doni che ti ha dato in questa chiesa e per questa chiesa. Ognuno di noi si chieda: quale è il mio dono, quali sono i miei doni? E come li metto al servizio di questa chiesa, per edificare, costruire questa chiesa, questa comunità di credenti che cammina insieme, domenica dopo domenica e giorno dopo giorno?
E i doni non sono soltanto quello che sappiamo fare. Spesso infatti si parla di doni quando si vuol parlare di capacità: io so cucinare, io so imbiancare, io so di falegnameria, io so fare un impianto elettrico….
Cose preziosissime, che non voglio sminuire, ma i doni dello Spirito sono altri: non solo ciò che sai fare, ma ciò che sai essere per tuo fratello e tua sorella. Che dono sono per mia sorella, per mio fratello? È questa domanda che edifica, che costruisce relazioni, affetti, che fa sì che condividiamo la fede e la vita gli uni degli altri.
Che dono sono io/sei tu per questa comunità? Portiamoci a casa questa domanda...


3) E infine, incontriamo nel testo la bellissima immagine del corpo. Meriterebbe una predicazione solo questa immagine, perché essa vuole dirci tante cose importanti.
L’immagine del corpo esprime la ricchezza dei doni, la diversità dei doni, la pluralità dei doni. Ma non solo: esprime anche il fatto che tutte le membra del corpo, che hanno ognuno un dono diverso, una funzione diversa, sono legate le une alle altre, sono interdipendenti. Non possono stare le une senza le altre.
Le membra hanno bisogno l’una dell’altra: “l'occhio non può dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né il capo può dire ai piedi: «Non ho bisogno di voi»”. Io ho bisogno di te, questa è una delle ragioni per cui esiste la comunità; io ho bisogno di te, tu hai bisogno di lei/di lui, abbiamo bisogno gli uni degli altri.
La comunità è composta da persone che riconoscono di aver bisogno degli altri, che non sono sufficienti a se stessi perché hanno bisogno di Dio e hanno bisogno del prossimo.
E perché abbiamo bisogno del prossimo? Una risposta la troviamo in un’altra cosa che dice l’apostolo: Paolo dice che “Dio ha formato il corpo in modo da dare maggior onore alla parte che ne mancava, perché non ci fosse divisione nel corpo, ma le membra avessero la medesima cura le une per le altre”.
Questa parola “cura” mi sembra molto importante: ciascuno di noi ha bisogno degli altri perché abbiamo bisogno della cura degli altri, abbiamo bisogno che gli altri si prendano cura di noi. Anche per questo Dio ha chiamato discepoli e discepole a far parte di una comunità: per poter aver cura gli uni degli altri.


Per concludere dunque: Ciascuno ha i doni dello Spirito, ciascuno ha doni diversi, nessuno ne è senza e nessuno li ha tutti. Ciascuno ha ricevuto questi doni non per sé, non per prevalere, ma per il bene comune, per metterli al servizio della comunità e ciascuno è dunque dono per gli altri. Questo servizio mette al centro il prossimo, di cui ciascuno ha bisogno e che ha bisogno di te, perché ci prendiamo cura gli uni degli altri.
Dono, servizio, bisogno, cura… tutto ciò nasce dalla fede, che abbiamo detto è il primo dono dello Spirito, e si vive attraverso l’amore, di cui Paolo parlerà nel bellissimo canto del capitolo seguente.
Il Signore ci ha fatto il grande dono della fede e il grande dono del prossimo. Ci aiuti a viverli entrambi, nel suo corpo che è la chiesa, diventando noi stessi dono per il prossimo nell’amore.


domenica 8 ottobre 2017

Predicazione di domenica 8 ottobre 2017 su Ebrei 4,12-13 a cura di Marco Gisola

Ebrei 4,12-13

Infatti la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l'anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore. E non v'è nessuna creatura che possa nascondersi davanti a lui; ma tutte le cose sono nude e scoperte davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto.

Oggi iniziamo un ciclo di quattro predicazioni proposto dai pastori del circuito su invito del consiglio del circuito. L’obiettivo era quello di riflettere sulla comunità e sulle relazioni al suo interno, spesso segnate da conflitti. Come tema generale abbiamo quindi pensato alla “edificazione” della Comunità
Iniziamo con questo brano della lettera agli Ebrei, libro biblico non molto conosciuto, anche se il nostro lezionario comprende diversi testi tratti da questa lettera. La lettera agli Ebrei, nonostante il nome, non parla a ebrei, ma probabilmente a cristiani provenienti dall’ebraismo. Viene chiamato “lettera” ma in realtà è più un piccolo trattato che vuole istruire e edificare una comunità, anche se non si sa quale comunità.
La lettera agli Ebrei non inizia come una lettera, non ci sono saluti, ma finisce con dei saluti e l’autore dice: “quelli d’Italia vi salutano” e menziona Timoteo, per cui nell'antichità si è pensato che l’autore fosse Paolo.
Il linguaggio però è molto diverso da quello delle altre lettere di Paolo, cosa che porta molti studiosi moderni a dire che questa lettera non è di Paolo e che quindi non si sa chi l’abbia scritta e nemmeno a chi sia stata scritta e quando.
Già un padre della chiesa – Origene – nel terzo secolo diceva che solo Dio sa chi abbia scritto questa lettera…
La caratteristica di questa lettera è il fatto che Gesù è descritto come il grande sommo sacerdote. Utilizzando il linguaggio del culto sacrificale, Ebrei ci dice che Gesù è allo stesso tempo il sacerdote e la vittima del sacrificio che è stato la sua morte.
Ma venuto Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri, egli, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d'uomo, cioè, non di questa creazione, è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. (9,11-12)
Il sacrificio di Cristo è stato l’ultimo sacrificio. Proprio questo fatto ha spinto i Riformatori a contestare l’idea medievale della messa come ripetizione del sacrificio di Cristo.
Ma veniamo al nostro testo:
I due versetti che abbiamo letto costituiscono una parentesi quasi poetica all’interno di un discorso molto più lungo in cui l'autore porta degli esempi negativi del comportamento di Israele nell’Antico Testamento e invita i cristiani a cui scrive a comportarsi diversamente.
Questi due versetti mettono al centro il tema della Parola di Dio, che è descritta come vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l'anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore. E non v'è nessuna creatura che possa nascondersi davanti a lui; ma tutte le cose sono nude e scoperte davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto.
È dunque un brano che ci dice che la Parola di Dio giudica. Ma lo dice non in termini giuridici, non parla della condanna comminata dal giudice, ma dell’azione del giudicare. Il giudizio e la condanna non sono la stessa cosa.
Il testo usa l’immagine della spada: la parola di Dio che giudica è paragonata alla spada che entra nel corpo; il giudizio è descritto in modo fisico: in questa immagine in cui la Parola di Dio è spada, noi siamo corpo.
E il nostro corpo viene penetrato dalla spada a doppio taglio che entra e divide. Ma dal corpo si passa subito a ciò che non è fisico: la spada divide sì le giunture dalle midolla ma anche l'anima dallo spirito e giudica i sentimenti e i pensieri del cuore.
La Parola di Dio dice questo brano, quella che ascoltiamo ogni domenica, entra dentro la nostra anima, il nostro spirito, le nostre giunture, le nostre midolla, scruta e giudica i pensieri del nostro cuore. È un’immagine potente, che parla dell’efficacia della Parola.
La Parola di Dio non è una parola che si ascolta soltanto, non raggiunge soltanto le nostre orecchie e la nostra mente, non è soltanto una parola che fa riflettere o emoziona.


Secondo questa immagine, la Parola di Dio è una Parola che entra dentro di noi. Questa immagine della Parola di Dio che entra in noi ci vuole dire che Dio scruta, osserva la nostra vita e osserva anche ciò che non vorremmo fargli vedere, ciò che forse non vorremmo fare vedere a nessuno. Che forse vorremmo nascondere persino a noi stessi.
Come dicevo prima qui il giudizio non è condanna; il giudizio implica piuttosto l’idea che Dio ci vede e ci osserva dal di dentro.
Dio vede e osserva perché, come dice il testo, siamo nudi davanti a lui. Non è facile stare nudi davanti a qualcuno. Stare nudi davanti a qualcuno è segno di grande intimità. Solo i bambini piccoli lo fanno in un modo naturale, perché non conoscono ancora il pudore, ovvero non hanno nulla da nascondere.
Adamo ed Eva erano nudi nel giardino di Eden. Immagine del fatto che potevano stare l’uno davanti all’altra e davanti a Dio così come erano, perché non avevano nulla da nascondere. Dopo la disobbedienza, si copriranno e si nasconderanno alla vista di Dio perché avranno qualcosa da nascondere.
Anche noi abbiamo qualcosa da nascondere davanti a Dio e anche davanti al prossimo, abbiamo qualcosa che vorremmo nascondere, di cui ci vergogniamo, o di cui semplicemente non siamo contenti.
Questa parola ci dice che davanti a Dio non possiamo nascondere nulla, che siamo nudi; potremmo anche dire trasparenti, perché Dio vede dentro di noi, la spada che penetra dentro di noi mette a nudo ciò che Dio vede.
Ecco il giudizio, di cui parlano questi due versetti.
Ma è davvero un giudizio o non è piuttosto una grazia? È da temere o da invocare che Dio guardi dentro di noi, che non possiamo nascondergli nulla? È un giudizio, ma è anche una grazia. La grazia ci porta innanzitutto a accettare e a fare nostro il giudizio che Dio pronuncia su di noi (così spiegava Paolo Ricca commentando La libertà del cristiano di Lutero) e dunque accettare il giudizio di Dio è, in fondo, liberante.
Non possiamo nascondere nulla a Dio e dunque non abbiamo bisogno di nascondere qualcosa a Dio. Questo è liberante. Liberante perché non abbiamo più bisogno di nasconderci e di indossare la maschera del cristiano perfetto, del pastore perfetto, del membro di chiesa perfetto, dell’anziano di chiesa perfetto… Ma anche del padre o della madre perfetta, del marito o della moglie perfetta, del figlio o della figlia perfetta...
È chiaro che ci è chiesto di tendere sempre al meglio, ma poiché il meglio non sempre è alla nostra portata, possiamo essere cristiani, membri di chiesa, pastori, figli, madri e padri, amici, colleghi ecc. imperfetti, così come siamo.
Sapendo bene che quello che siamo ha molti difetti e cercando di correggere questi nostri difetti, ma senza fare finta di non averne, ovvero senza mentire a noi stessi e agli altri. In fondo ciò che spesso crea difficoltà di relazione e porta al conflitto è il pretendere di essere quello che non si è che.
Sapere che davanti a Dio siamo nudi, può invece aiutarci ad andare verso gli altri, se non proprio (metaforicamente) nudi, almeno senza troppi vestiti, ovvero senza troppe maschere, senza recitare la parte di ciò che non siamo, essendo un po’ più autentici.
Nella vita di ogni giorno, anche nella vita della chiesa, portiamo noi stessi così come siamo, ovvero donne e uomini che stanno sotto il giudizio di Dio, che a lui devono render conto, che hanno bisogno della sua grazia per andare avanti in modo autentico.
Se non siamo consapevoli di questo, la nostra vita non sarà autentica, ma sarà falsata dalle nostre illusioni di essere giusti o di essere meglio, dalle nostre maschere che indossiamo prima di tutto davanti a noi stessi, mentendo a Dio, al prossimo e anche a noi stessi.
Le nostre maschere stanno sotto il giudizio di Dio, che vede attraverso e oltre le maschere che portiamo ogni giorno; riuscire a toglierle è l’effetto liberante del giudizio, che è già grazia, effetto della “Parola di Dio vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio...”.
Che questa Parola è davvero vivente ed efficace, che davvero penetra e scruta il nostro cuore e la nostra vita, che davvero quindi può trasformare il nostro cuore e la nostra vita e renderli più autentici, questa è la fede dell’autore della lettera agli Ebrei.
Possa essere questa anche la nostra fede.