martedì 30 aprile 2019

Predicazione di domenica 28 aprile su 1 Pietro 1,3-9 a cura di Massimiliano Zegna

1 Pietro 1,3-9


Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una eredità incorruttibile, senza macchia e inalterabile. Essa è conservata in cielo per voi,che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi. Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove,affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell'oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo. Benché non l'abbiate visto, voi lo amate; credendo in lui, benché ora non lo vediate, voi esultate di gioia ineffabile e gloriosa, ottenendo il fine della fede: la salvezza delle anime”.


In questa lettera Pietro si rivolge ai fedeli dispersi nelle cinque province dell’Asia Minore, attuale Turchia. L’Asia proconsolare, con capitale Efeso, e la Galazia sono state evangelizzate da Paolo; non sappiamo chi sono stati i missionari che hanno portato il vangelo nel Ponto, nella Cappadocia e nella Bitinia.
Si è cercato di fissare la data della prima lettera di Pietro tenendo conto della grave minaccia di persecuzione di cui si parla in un’altra parte della lettera stessa: potrebbe trattarsi della persecuzione di Nerone, scatenata a seguito dell’incendio di Roma (nell’anno 64)? In realtà, quella spietata repressione ha riguardato soltanto la comunità di Roma. Non si è avuto un editto di persecuzione esteso a tutto l’impero. Per la situazione in Asia Minore occorre far riferimento alla lettera che Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, ha inviato all’imperatore Traiano (nell’anno 112) per sapere quale comportamento adottare nei confronti dei cristiani. Questo rapporto ufficiale testimonia l’importanza della comunità della Bitinia e fa riferimento a una persecuzione scatenata una ventina di anni prima, al tempo di Domiziano, cioè l’epoca in cui è stata redatta l’Apocalisse di Giovanni.
Per la datazione della lettera ci si basa soprattutto su criteri interni. L’accostamento fra la teologia della prima lettera di Pietro e quella dei discorsi di Pietro negli Atti farebbe propendere per l’autenticità, ma la forma letteraria dello scritto inducono in questo caso a concedere molto spazio al segretario. Il confronto con le lettere di Paolo e il distacco senza problemi dal giudaismo tendono a far risalire la lettera a dopo la morte di Pietro. Sarà stata redatta da un discepolo dell’apostolo, cioè da Silvano (5,12). In ogni modo la data di redazione è compresa tra 70 e 90 dopo Cristo.
Ma al di là dei fatti storici interessanti per comprendere meglio la situazione di quel periodo a noi interessa che cosa ci ha trasmesso Pietro o Silvano per quanto riguarda la fede oggi.
Gli esegeti, ossia gli studiosi ed interpreti della Bibbia, a distanza di duemila anni della venuta di Gesù Cristo sulla terra rivelano nuove informazioni sugli estensori di brani della Bibbia e tutto questo, secondo me, non può che arricchire il messaggio di Dio contenuto nella Bibbia stessa.
Gli arricchimenti dei messaggi di Dio a noi tutti arrivano anche dalla scienza.
Quando il 10 aprile scorso è stata pubblicata la straordinaria prima foto di un buco nero alcuni scienziati hanno esclamato: “E’ stato fotografato l’invisibile”. Dieci anni di studi di varie équipe di scienziati con telescopi situati in varie parti del mondo sono riusciti a dimostrare che Albert Einstein aveva ragione quando parlava sulla sua teoria della relatività dello spazio e del tempo.
La foto è stata pubblicata qualche giorno fa ma tale avvenimento è avvenuto 55 milioni di anni luce prima della sua pubblicazione.


Un interessante intervista è sta fatta dal quotidiano “La Stampa” al prof. Giulio Giorello, docente di Filosofia della Scienza all’Università di Milano: la scienza si trova di fronte a un successo senza precedenti, ma che cosa significa per l’uomo e il suo inconscio?
«Il concetto di buco nero – risponde Giorello - è inevitabile, porta con sé un senso di instabilità, di troppo pieno o di troppo vuoto, di nulla o di tutto all’ennesima potenza. Può anche darsi che qualcuno veda in questa scoperta il riflesso delle nostre paure o la realizzazione fisica dell’angoscia, ma per me è una nuova, ampia finestra da cui capire la complessità del reale».
Quali potrebbero essere – chiede ancora l’intervistatore - le conseguenze filosofiche di questo risultato?
«Al di là della sua portata scientifica, in quel buco nero, di cui vediamo l’orizzonte degli eventi, là dove spazio e tempo si accartocciano e da cui nemmeno la luce può emergere, non credo possa cambiare il senso del divino che i credenti mettono alla base della creazione. Nelle pieghe dell’Universo, più o meno disvelato, lo spazio per l’interpretazione religiosa resta lo stesso. Si spera solo che, un domani, credenti e non credenti possano confrontarsi senza erigere barricate».


Anche in questo caso, secondo me, non dobbiamo spaventarci di queste novità, anzi dobbiamo essere grati per le nuove scoperte scientifiche in quanto avvalorano quanto noi crediamo ossia l’esistenza di Dio. Sulle date e sulle modalità, così come ho detto prima sulla prima lettera di Pietro, dobbiamo essere grati agli esegeti della Bibbia e agli stessi scienziati che scrutano l’Universo, in quanto come protestanti cristiani abbiamo sempre detto che la nostra fede si basa su una lettura storico critica della Bibbia. Mentre stavo leggendo le parole della prima lettera di Pietro vedevo su internet le terribili immagini della strage nello Sri Lanka che ogni ora diventava più terribile: prima 40 poi 200 morti, di cui molti bambini. Parte uccisi in chiese cristiane, parte in alberghi per turisti. Proprio il giorno di Pasqua!
Le prime impressioni sono naturalmente di rabbia e di sgomento, di lacrime per i morti anche bambini.
E si chiede il perché anche se purtroppo le stragi si fanno sempre più frequenti ed è terribile come si dimentichino in fretta e lascino un segnale di impotenza e di smarrimento. Quello che però preoccupa sempre di più è come tutto ciò faccia allontanare dalla fede in Dio tante persone.
Ma forse è proprio questo che vogliono coloro che stanno seminando odio e violenza: allontanare le persone dalla fede in Dio e in Gesù Cristo e portarli all’esaltazione della propria religione e all’odio verso le altre religioni.
E così chi si professa musulmano odierà i cristiani e i buddisti odieranno gli induisti o viceversa.
Ma le parole di Gesù Cristo non sono mai state di odio neppure quando è stato crocifisso ma ha sempre insegnato ad amare.
Delle lettera di Pietro mi hanno colpito queste parole: “Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove,affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell'oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo”.
Il paragone con l’oro è significativo.
La fede è ben più preziosa dell’oro. Il paragone riguarda un metallo come l’oro che non si corrode mai. Però l’oro può perdere di valore oppure può essere rubato oppure può essere perduto. Ma la fede non deve mai corrompersi anche se vi sono momenti terribili come quello dello Sri Lanka o quello che può aver colpito ciascuno di noi con una malattia o con la morte di una persona cara.
Ho visto recentemente una ragazza alla Domus Laetitiae di Sagliano Micca su una sedia a rotelle, affiancata da persone che si prendevano cura di lei anche se non sapeva parlare ed esprimere una ringraziamento. Eppure queste persone stavano cercando di alleviare i gravi problemi di chi si trova in queste situazioni attraverso una costante attenzione.
Stavano cercando di fare in modo che potesse avere una posizione più comoda perché la sua disabilità non le recasse un maggior disturbo per la sua posizione quasi immobile.
Allora ho pensato che a quella persona chiamata Monica e quelle cure della fisioterapista e di un assistente della Domus valessero di più che se le avessero regalato un lingotto d’oro o qualunque pietra preziosa.
Non so quale idee religiose queste persone abbiano ma sicuramente stavano seguendo gli insegnamenti di Gesù Cristo quando invita ad amarsi l’un l’altro.
Questa lettera di Pietro, letta all’inizio, ben si adatta al periodo pasquale che stiamo vivendo poiché ci ricorda il fondamento della nostra fede, la risurrezione di Cristo, e ci suggerisce il modo in cui possiamo vivere la vita nuova che Egli ci ha donato.
Nelle mie ricerche dei commenti che riguardano questo brano della lettera di Pietro ho trovato questa bella predicazione del pastore Franco Tagliero che voglio riproporvi in parte.
Credere benché non si veda. Il testo di oggi tocca questi temi anche quando accenna alla questione del credere benché non si sia visto allora e non si veda oggi. Vedere che cosa? Questo è il problema che i credenti hanno dovuto affrontare fin dal tempo apostolico, tanto è vero che il discepolo di nome Tommaso, di cui parla l’evangelista Giovanni, è passato alla storia del cristianesimo come esempio di chi all’inizio non crede a qualcosa che è successo, la resurrezione di Cristo (Giovanni 20,19-29). Quello del credere e del non vedere è un tema trasversale a tutta la Bibbia: il salmista più volte si chiede: “Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?” E Dio si lascia vedere di spalle da Mosé, e gli dice: ma il mio volto non si può vedere”! La stessa cosa succede ad Elia che si rende conto di essere in presenza di Dio quando ode un suono dolce e lieve, non quando soffia il vento o romba il tuono.
I cristiani hanno scelto diverse forme di spiritualità e diverse prassi per andare oltre il non aver visto e oltre al non vedere qui sulla terra. Ogni forma, ogni prassi deve essere rispettata.
I Protestanti credono che la salvezza, come la fede, è un dono della grazia divina, un dono gratuito, che non ha dunque bisogno di immagini sacre o di opere o di riti o di ostensioni o di pellegrinaggi. Pietro dice che il fine della fede è la salvezza. Questo è il punto!

Il versetto iniziale del nostro brano ricorda che Dio ha fatto rinascere, dunque nascere una seconda volta, ad una speranza viva mediante la resurrezione di Cristo. Parla di speranza, dunque. E’ indubbio che il richiamo alla speranza in Cristo è al centro della fede evangelica. Pietro scriveva ai cristiani in un tempo di persecuzione (afflitti da svariate prove, dice il versetto letto prima) e parlava loro della speranza nel risorto, come Geremia invitava a sperare quando Israele era deportato a Babilonia, o come Mosé incitava a non abbattersi e dunque a sperare quando le difficoltà del deserto rischiavano di essere insopportabili. Ma anche i teologi della liberazione parlano di speranza ad un popolo schiacciato dalla povertà e dalle dittature. Questi esempi evidenziano come il tema della speranza sia trasversale ad ogni epoca del cristianesimo e soprattutto diventi cruciale in tempi di difficoltà e di crisi. Dunque se la fede, è “provata” cioè messa alla prova, ed è la cosa più preziosa da vivere, più dell’oro, allora anche per il nostro tempo vivere la speranza nel risorto contraddistingue i cristiani. E’ evidente però che il mondo occidentale opulento e basato soltanto sulla frenesia di far soldi e di giungere al successo non riesce a capirlo chiaramente e non ha interesse a questa speranza di cui parla Pietro. Ma in che cosa siamo esortati a sperare? I credenti sperano nella salvezza annunciata da Cristo e resa evidente dalla resurrezione: salvezza da tutto ciò che li opprime, dalla malattia, dalla crisi economica, dalle forme di paganesimo e di superstizione che si diffondono nel mondo coperte da pennellate di cristianesimo. La salvezza è annunciata ed è data in Cristo agli eletti, a coloro che con obbedienza e semplicità d’animo si mettono nelle sue mani accettando il suo invito. La salvezza per oggi consiste nel recupero del senso della vita, del mantenimento di una comprensione della vita personale come esperienza gioiosa e profondamente consapevole, al di là delle difficoltà. Il punto d’arrivo di questa “fede provata” secondo Pietro è in modo inequivocabile quello della lode e della gioia vissuta, della riconoscenza collegata alle cose della quotidianità. E questo significa riferimento alla parola e alla preghiera. Nella preghiera e nell’ascolto della Parola i credenti ricevono l’esortazione a sperare, ne sono autorizzati dalla resurrezione. La promessa del Signore segna il passaggio su questa terra ed aiuta a seguire un percorso reso luminoso dall’amore per il prossimo, dall’impegno per la liberazione degli oppressi e per dar loro una speranza via. La speranza è viva, come è vivo Cristo, il risorto. La speranza non si nutre di oggetti inanimati, ma solamente dell’amore di colui che è vivo! Se Cristo è risorto ed è vivente, come crediamo, in noi e per noi, ogni momento diventa occasione di lode e di riconoscenza. Il tempo dell’attesa non è un tempo disperato, segnato soltanto da sciagure da dolori e sofferenze, è un tempo gioioso: per questo vale la pena testimoniare la speranza”.
Amen





domenica 21 aprile 2019

Predicazione di Domenica 21 aprile 2019 - Pasqua di risurrezione - su Giovanni 20,11-18 a cura di Marco Gisola

Pasqua di risurrezione
Giovanni 20,11-18


11 Maria, invece, se ne stava fuori vicino al sepolcro a piangere. Mentre piangeva, si chinò a guardare dentro il sepolcro, 12 ed ecco, vide due angeli, vestiti di bianco, seduti uno a capo e l'altro ai piedi, lì dov'era stato il corpo di Gesù. 13 Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?» Ella rispose loro: «Perché hanno tolto il mio Signore e non so dove l'abbiano deposto». 14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15 Gesù le disse: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» Ella, pensando che fosse l'ortolano, gli disse: «Signore, se tu l'hai portato via, dimmi dove l'hai deposto, e io lo prenderò». 16 Gesù le disse: «Maria!» Ella, voltatasi, gli disse in ebraico: «Rabbunì!» che vuol dire: «Maestro!» 17 Gesù le disse: «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli, e di' loro: "Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro"». 18 Maria Maddalena andò ad annunciare ai discepoli che aveva visto il Signore, e che egli le aveva detto queste cose.


Maria Maddalena era già stata una volta al sepolcro di Gesù, poco prima. Aveva visto la pietra rotolata ed era corsa a avvertire Pietro e gli altri discepoli, ma non era entrata. Pietro e l'altro discepolo, quello che Gesù amava, erano corsi alla tomba, Pietro era entrato e aveva visto le fasce in terra e il sudario piegato.
La tomba era vuota. E Maria Maddalena? Il testo non ci dice che cosa abbia fatto dopo aver avvertito Pietro e l’altro discepolo. Ma subito dopo, Giovanni ce la mostra di nuovo lì, sola, davanti alla tomba.
Maria Maddalena piange. È una delle scene più toccanti di ciò che i discepoli e le discepole hanno provato dopo la morte di Gesù. Maria Maddalena sola, in pianto, davanti alla tomba vuota. Come se non fosse bastata la morte di Gesù, la fine di tutti i sogni e di tutte le speranze, non resta loro nemmeno un cadavere su cui piangere.
Qui infatti Maria Maddalena piange non solo perché Gesù è morto, ma perché non c’è più nemmeno il suo corpo. Almeno un corpo su cui poter piangere, almeno una tomba che custodisca le spoglie dell’amato maestro! Invece quella tomba è aperta e vuota.
O meglio: non è proprio vuota. È vuota nel senso che non c’è il cadavere di Gesù, non c’è quello che dovrebbe esserci. Ma qualcosa, anzi, qualcuno c’è: «due angeli, vestiti di bianco, seduti uno a capo e l'altro ai piedi, lì dov'era stato il corpo di Gesù».
Due angeli, due messaggeri divini, questi strani personaggi della Bibbia che hanno il compito di ambasciatori di Dio, di portare i suoi messaggi. Qui in realtà non annunciano la resurrezione, fanno però a Maria Maddalena una domanda: perché piangi?
Maria Maddalena non lo capisce, ma quella domanda non è una richiesta di una risposta; è già l’annuncio che non c’è motivo di piangere.
Ma fermiamoci un attimo sul fatto che i due angeli sono dentro la tomba, che a quei tempi era in alcuni casi una grande stanza, a volte addirittura con un anticamera, un luogo in cui si poteva entrare, come aveva fatto Pietro poco prima.
La tomba è una tomba, un luogo di morte, un luogo dove il nostro corpo lentamente si decompone. Era quel corpo che Maria Maddalena voleva vedere e toccare finché era possibile. E invece la tomba è diventata un luogo di vita, ci sono esseri che parlano, che domandano, che stabiliscono con lei una relazione.
Ma non solo: nella mentalità ebraica il soggiorno dei morti era il luogo più lontano da Dio, il luogo dove Dio non c’era. E invece qui nella tomba di Gesù, luogo di morte, ci sono i messaggeri di Dio, c’è qualcosa di Dio, potremmo dire che c’è la sua Parola, che viene sotto forma della domanda: “perché piangi?” che è però già annuncio che non c’è ragione di piangere.
Dio fa risuonare la sua Parola nella tomba, benché essa rimanga ancora enigmatica, difficile da comprendere, anzi per Maria Maddalena impossibile da comprendere. Maria Maddalena comprende solo la nuda domanda.
E risponde che sta cercando il suo signore: «Perché hanno tolto il mio Signore e non so dove l'abbiano deposto». Maria Maddalena sta cercando il suo Signore, ma il suo Signore morto, sta cercando il corpo morto del suo Signore.
Ma il dialogo con gli angeli si interrompe, qualcosa la fa voltare. Ha visto Gesù, ma non sa che si tratta di lui. Inizia un altro dialogo, altre parole con un altra persona – il giardiniere, pensa lei – ma il tema è sempre lo stesso: Maria Maddalena vuole trovare il cadavere di Gesù.
Se quell’uomo lo sa, se lo ha preso lui, deve dirle dov’è e lei andrà a prenderlo. Maria Maddalena vuole avere quel corpo, almeno per un momento, non sappiamo se per curarsi del cadavere come ci dicono i sinottici, se solo per vederlo ancora una volta, o per poter piangere con il corpo di Gesù tra le braccia.
Maria Maddalena è lì davanti al risorto, sta parlando con lui, ma non lo riconosce. Come spesso i discepoli non riconoscono il Cristo risorto.
È difficile riconoscerlo. È difficile riconoscere la resurrezione, è difficile vivere la resurrezione. Sembra che per la testa di Maria Maddalena non passi neppure l’idea che Gesù sia risorto. Eppure glielo aveva detto. Ma lei continua a cercare soltanto un cadavere…
Finché dipende da lei, la resurrezione è un’assurdità, una realtà inimmaginabile. Ci vuole una iniziativa da parte di Gesù. E qual’è l’iniziativa che Gesù prende? Che cosa fa? Non fa miracoli, non da vita a manifestazioni spettacolari, non gli si illumina il volto come nella trasfigurazione, nessun gesto straordinario.
Gesù parla. La parola è il mezzo attraverso cui il risorto si rivela come risorto. Ma quale parola? Che cosa dice Gesù? Non proclama la sua resurrezione, non grida “sono io, sono risorto, la morte non mi ha trattenuto, sono di nuovo qui!”.
No, Gesù non parla di sé, non ancora. Gesù risorto dice la parola che più di ogni altra può toccare Maria Maddalena nel profondo: il suo nome.
Come dire: io so chi sei. Ma non solo “io so chi sei” nel senso del tuo nome, del tuo volto, dei tuoi pregi e dei tuoi difetti… io so chi sei nel profondo, so che mi stai cercando, che anzi stai cercando il mio cadavere. Ma io sono risorto e quindi tu non sei più una cercatrice di cadavere, non ha senso cercare il mio cadavere. Tu sei qualcos’altro.
E che cosa è Maria Maddalena glielo dirà poco dopo: un’apostola.
Ma prima c’è ancora un passaggio, perché la resurrezione è così difficile da credere che Maria Maddalena crede davvero che Gesù sia di nuovo vivo, ma crede appunto che sia “semplicemente” tornato in vita, che sia vivo come era prima di morire, non che sia risorto.
Il testo non ci dice che cosa Maria Maddalena abbia fatto, ci dice solo che Gesù le dice «non trattenermi», oppure (come traducono altri [Zumstein, p. 929]) «non mi toccare». Probabilmente Maria Maddalena lo abbraccia oppure gli si getta ai piedi e glieli stringe.
Finalmente ha trovato il corpo di Gesù e – notizia meravigliosa – non è morto, non è un cadavere, ma è vivo, le sta parlando! Quel corpo vuole toccarlo, stringerlo, trattenerlo, come si fa con una persona cui si vuole molto bene le si vuole dimostrare che la si vuole accanto.
Ma Gesù non è tornato in vita (come Lazzaro), è risorto. È un’altra cosa. Non starà lì con lei, non starà su questa terra per molto, anzi deve andare, deve tornare al Padre: «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre».
Non c’è tempo, non possono stare lì, hanno tutti e due qualcosa di importante da fare: Gesù deve salire al padre, anche se prima si mostrerà ai suoi discepoli che pescano sul lago.
E lei ha un compito importante, una vocazione fondamentale: «va’ dai miei fratelli, e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro».
La parola di Gesù ha cambiato Maria Maddalena, le ha detto chi lei sia veramente, quale sia la sua vocazione. l’ha convertita.
C’è un dettaglio curioso nel racconto: Maria Maddalena si volta quando Gesù la chiama per nome.
Preso alla lettera è un particolare incoerente: infatti secondo il v. 14 Maria Maddalena si era già voltata quando aveva visto Gesù pensando che fosse il giardiniere; si suppone quindi che fosse voltata verso di lui.
Se si volta di nuovo quando Gesù la chiama per nome, dovrebbe voltarsi dall’altra parte, cioè dare le spalle a Gesù, ma questo non ha senso: ha appena riconosciuto Gesù, di certo non si volta per dargli le spalle!
Qualcuno dice quindi che questo nuovo voltarsi di Maria Maddalena esprima quindi un lasciarsi alle spalle la tomba e guardare al Cristo risorto, esprima quindi la sua conversione, il suo con-vertire non solo la sua testa o il suo corpo, ma la sua vita intera verso Gesù.
Ora Maria Maddalena non è più una cercatrice di cadavere, è un’apostola. Non ha più davanti a sé la tomba, la tomba di Gesù e di tutte le speranze, ma il Cristo risorto. Ora è apostola degli apostoli, perché è lei che deve annunciare a quelli che saranno apostoli che Gesù è risorto e sta per salire al padre.
Ma gli apostoli qui non sono chiamati apostoli. Sono chiamati fratelli: «va’ dai miei fratelli». È la prima volta che nel vangelo di Giovanni i discepoli sono chiamati fratelli di Gesù (accade soltanto di nuovo al cap. 21,23).
La resurrezione rende i discepoli fratelli di Gesù. E dunque Maria Maddalena e le altre donne divengono sorelle di Gesù. E quindi sorelle e fratelli tra di loro. La resurrezione crea una nuova comunione: non più soltanto discepoli e discepole di Gesù, ma fratelli e sorelle di Gesù e fratelli e sorelle tra loro.
Da questo incarico dell’annuncio – “vai a dire ...” e dalla fratellanza tra gli annunciatori e le annunciatrici nasce la chiesa, la comunità degli inviati e delle inviate che sono fratelli e sorelle di Gesù e tra loro.
Di questa comunità di inviati/e e fratelli/sorelle facciamo parte anche noi, che riceviamo l’annuncio di Pasqua, come Maria Maddalena.
Come lei, tutti gli esseri umani cercano qualcosa. Alcuni cercano soltanto denaro e potere, successo e gloria. Molti cercano per fortuna anche altro.
Anche noi - come Maria Maddalena – cerchiamo, cerchiamo senso, affetto, una direzione…. Ma anche noi - come Maria Maddalena cercava nella tomba - spesso cerchiamo le cose sbagliate o cerchiamo nel posto sbagliato. Ma grazie a Dio è Lui a trovarci, Gesù morto per la nostra liberazione e risorto per la nostra speranza.
Il risorto viene a cercarci attraverso la sua Parola e chiama per nome anche noi, pronuncia anche il tuo nome e ti dice chi sei, ti dona una nuova identità, un compito: annunciare la meraviglia della vittoria della vita sulla morte, della gioia sulla tristezza, della speranza sulla rassegnazione. E ti dona una comunità di sorelle e fratelli.
Questa è la Pasqua: il Risorto che viene a cercarci in mezzo alle nostre tombe, nella nostra rassegnazione, nelle nostre lacrime e ci chiama per nome.
Voltiamoci verso di lui, che converte il nostro sguardo e la nostra vita, ascoltiamo il suo invito e, come Maria Maddalena, andiamo!




Predicazione di Venerdì Santo 2019 su Giovanni 19,17-30 a cura di Marco Gisola

Giovanni 19,17-30


17 Presero dunque Gesù; ed egli, portando la sua croce, giunse al luogo detto del Teschio, che in ebraico si chiama Golgota, 18 dove lo crocifissero, assieme ad altri due, uno di qua, l'altro di là, e Gesù nel mezzo.
19 Pilato fece pure un'iscrizione e la pose sulla croce. V'era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. 20 Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l'iscrizione era in ebraico, in latino e in greco. 21 Perciò i capi dei sacerdoti dei Giudei dicevano a Pilato: «Non lasciare scritto: "Il re dei Giudei"; ma che egli ha detto: "Io sono il re dei Giudei"». 22 Pilato rispose: «Quello che ho scritto, ho scritto».


Chi è quell’uomo che viene crocifisso quel lontano giorno di quasi duemila anni fa, appena fuori le mura di Gerusalemme, insieme ad altri due condannati a morte? Chi lo sa chi sia quest’uomo? I suoi discepoli forse lo sanno, o forse non lo sanno più, vista la fine che sta facendo… Ma i suoi discepoli non ci sono, solo Pietro e un altro discepolo lo avevano seguito, ma poi Pietro aveva negato di conoscere Gesù.
Non lo sanno coloro che lo hanno mandato a morire sulla croce, anzi pensano che sia un impostore, un trascinatore di folle, un poco di buono che vuole solo mettere il suo popolo nei guai con i romani, la cui occupazione è già abbastanza dura…
Forse le donne che – secondo Giovanni – sono lì davanti alla croce intuiscono qualcosa, ma anche se è così non possono dire nulla, non possono nemmeno protestare…
È solo Pilato che - senza crederci e senza volerlo – proclama al mondo che Gesù è il re dei giudei, ovvero il messia di Israele.
Gesù è il messia e il figlio di Dio, questo ci dice ogni pagina del vangelo di Giovanni e – ironia della sorte… anzi: ironia di Dio! - colui che lo proclama al mondo è il pagano e opportunista governatore romano Ponzio Pilato.
Fa mettere un cartello sopra la croce, come usava per tutti i condannati, con il nome e il motivo della condanna. “Gesù il Nazareno, Re dei Giudei”. Il motivo della condanna diventa però un annuncio, una proclamazione rivolta a tutto il mondo, perché il cartello è scritto in tre lingue: ebraico, greco e latino.
La lingua degli ebrei, la lingua dei romani, cioè dell’impero, e la lingua dei greci, quella del commercio, parlata da chi viaggiava in tutto il mediterraneo.
A morire sulla croce è il re dei Giudei, ci dice Pilato, che diventa profeta, che annuncia quello che è il cuore del vangelo di Giovanni; lo Spirito Santo si serve di questo uomo, di cui altrimenti non conosceremmo nemmeno il nome, che sarebbe rimasto noto soltanto agli studiosi di storia romana. E che invece è entrato nel Credo apostolico: “patì sotto Ponzio Pilato”.
Giovanni nel suo vangelo chiama “innalzamento” la crocifissione, perché per lui, per la sua teologia e per la sua fede, la croce non è luogo di umiliazione e abbassamento, ma luogo di innalzamento, di gloria. Il rifiuto da parte dell’umanità, è allo stesso tempo la glorificazione di Gesù da parte di Dio.
E infatti Giovanni ci racconta che Gesù porta la croce da se stesso, non ci sono altri (Simone di Cirene, come ci dicono i sinottici) a portargli la croce, a significare che egli avanza di propria volontà verso la condanna.
Giovanni non ci racconta le prese in giro nei confronti di Gesù ai piedi della croce, gli scherni e gli insulti. Gesù è padrone delle sue scelte.
Viene crocifisso al centro, in mezzo a altri due crocifissi, di cui Giovanni non ci dice nulla. Anche questo piccolo dettaglio che Gesù è al centro, per molti è segno della sua regalità: è al centro come i re, che hanno ai loro fianchi aiutanti e consiglieri.
La croce è come un trono: Gesù regna dalla croce, non regna dal trono, non regna dal palazzo, non regna con l’esercito, ma regna dalla croce. Dal luogo più improbabile e più paradossale – la croce - Gesù regna. Questo ci vuol dire Giovanni.


23 I soldati dunque, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato. Presero anche la tunica, che era senza cuciture, tessuta per intero dall'alto in basso. 24 Dissero dunque tra di loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocchi»; affinché si adempisse la Scrittura che dice: «Hanno spartito fra loro le mie vesti, e hanno tirato a sorte la mia tunica». Questo fecero dunque i soldati.


La crocifissione di Gesù adempie le Scritture. Gesù non viene dal nulla, viene dal suo popolo per il suo popolo, benché la maggior parte del suo popolo lo respinga.
Alcuni dettagli della crocifissione di Gesù sono importanti perché adempiono ciò che dice la Scrittura, in questo caso il salmo 22: «spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica» (v. 18).
si è discusso molto sulla tunica di Gesù, una tunica senza cuciture, cioè tessuta tutta insieme. Anch’essa probabilmente vuole simboleggiare qualcosa e la tesi più diffusa è che simboleggi l’unità della chiesa, come farebbe anche la rete che non si strappa nonostante i 153 pesci di Giovanni 21.
Secondo Agostino, la veste divisa in quattro parti rappresenterebbe la chiesa sparsa ai quattro angoli del mondo, mentre la tunica che non viene strappata, rappresenta l’unità delle quattro parti della chiesa sparsa nel mondo attraverso il vincolo dell’amore.



25 Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Maddalena. 26 Gesù dunque, vedendo sua madre e presso di lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio!» 27 Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!» E da quel momento, il discepolo la prese in casa sua.


Quattro erano probabilmente i soldati che eseguono il triste compito di eseguire la condanna a morte di Gesù, (perché si dividono le vesti in quattro parti) e quattro sono le donne ai piedi della croce. Un’altra particolarità di Giovanni: le donne non guardano da lontano, come nei sinottici, ma sono lì vicino.
Insieme a loro c’è anche un uomo, il discepolo amato, o prediletto, un discepolo di cui non si conosce l’identità e di cui ci parla soltanto il vangelo di Giovanni.
Essi sono abbastanza vicini alla croce perché Gesù possa rivolgere la parola a Maria e al discepolo prediletto.
(Notiamo tra parenesi che il vangelo di Giovanni parla pochissimo di Giuseppe, anzi non ne parla affatto, menziona solo due volte Gesù chiamandolo “figlio di Giuseppe”. Ma Giuseppe non compare mai. La tradizione vuole che a questo punto Maria sia già vedova).
In questa scena, Gesù chiede al discepolo amato di sostituirlo in qualche modo nel ruolo di figlio; la parola “sostituire” non è giusta, ovviamente, perché un figlio non si può sostituire… Ma Maria è affidata a questo discepolo, che dovrà aver cura di lei come se fosse sua madre. Infatti questo discepolo prende Maria in casa sua.
Fin dal medioevo questa scena è stata interpretata nel senso che il discepolo rappresenterebbe tutti i discepoli, cioè la chiesa, la quale sarebbe così stata affidata a Maria. Sembra però più corretto il contrario, ovvero che Maria venga affidata al discepolo amato da Gesù, che infatti la accoglie in casa sua; si tratterebbe di una preoccupazione molto umana di Gesù nei confronti di sua madre.


28 Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era già compiuta, affinché si adempisse la Scrittura, disse: «Ho sete». 29 C'era lì un vaso pieno d'aceto; posta dunque una spugna, imbevuta d'aceto, in cima a un ramo d'issopo, l'accostarono alla sua bocca. 30 Quando Gesù ebbe preso l'aceto, disse: «È compiuto!» E, chinato il capo, rese lo spirito.


L’ultima scena è il culmine. Per Giovanni la morte di Gesù è il compimento. Gesù “sa” che ogni cosa è compiuta e morendo pronuncia la frase “è compiuto”. “compimento” è la parola chiave di questo brano.
Ma fermiamoci un attimo su due dettagli: il primo è che Gesù chiede da bere, dice “ho sete”. Ma non perché ha davvero sete, bensì affinché si adempisse la Scrittura. Tutto deve accadere come profetizzato dalla Scrittura, come Giovanni aveva già detto a proposito delle vesti di Gesù tirate a sorte tra i suoi aguzzini.
Il secondo dettaglio è il mazzo di issopo: non è molto realistico, perché sembra non potesse sorreggere una spugna imbevuta di aceto. Ma il mazzetto di issopo era stato usato per spennellare le porte delle case degli ebrei la notte della morte dei primogeniti (esodo 12,22). si tratterebbe di un collegamento alla Pasqua ebraica, dove Gesù ha preso il posto dell’agnello.
Ma il culmine è proprio nelle parole “è compiuto”. Che cosa è compiuto?
È compiuta la vita di Gesù, nel senso che è giunta al termine ma anche nel senso che la sua missione è arrivata alla fine. Potremmo dire che è compiuta l’incarnazione, che lo scopo per cui «la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo tra noi» è raggiunto; lo scopo era – per usare le parole dello stesso Giovanni – amare i suoi fino alla fine («avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine», Giovanni 13,1).
È compiuta la vita di Gesù, ed è compiuta l’incarnazione: la Parola fatta carne, Dio fattosi umano, che prende su di sé tutta la fragilità umana, subisce il rifiuto, l’ingiustizia, la morte. È vero che Giovanni è quello che ci presenta un Gesù più “divino”: non c’è la preghiera angosciata del Getsemani, non ci sono gli oltraggi dei passati sotto la croce… Ma è proprio lui, del resto, che parla di carne al cap. 1.
Gesù è carne come noi, e soffre come noi le cose peggiori che un essere umano può soffrire: appunto il rifiuto dei suoi compagni in umanità, l'ingiustizia, la condanna a morte. È compiuta l’incarnazione, nel senso che Gesù compie l’esistenza umana, non l’esistenza umana del re o del potente, bensì l’esistenza dell’essere umano misero e senza potere.
È compiuta la decisione di Dio di venire nel mondo in questo modo e non in altri, a rivelarci la sua volontà di donarsi di essere dono e non un’altra. È compiuta la decisione di Dio di mettersi nelle mani degli esseri umani.
E così è compiuta la rivelazione di Dio in Cristo, la rivelazione del suo volto misericordioso e giusto; giusto, perché la croce mostra tutta l’ingiustizia umana, che respinge e uccide il Dio che gli viene incontro, che respinge e uccide la libertà e la riconciliazione che Gesù ha vissuto e predicato. La croce è il giudizio su questa ingiustizia umana.
Misericordioso perché la croce significa che quel giudizio è pronunciato, ma non attuato. La sentenza è emessa, ma non eseguita. Questa è la grazia: che il giusto giudizio non è attuato, la giusta sentenza non è eseguita.
Solo così la rivelazione è compiuta, solo nella croce arriva a compimento la rivelazione della giustizia e della misericordia di Dio, della giustizia di Dio che è misericordia.
E infine, è compiuto l’amore di Gesù per l’umanità. Non solo per i suoi, ma per l’umanità intera. È compiuto l’amore di Gesù per noi, compiuto nel senso di totale, completo, assoluto. Solo l’amore di Dio – e quindi di Gesù – è completo, assoluto, compiuto appunto.
Il nostro amore è sempre in-compiuto, in-completo, relativo, parziale... Non potrebbe non essere così, perché siamo umani e la compiutezza, la assolutezza non ci appartengono. Gesù fa quello che noi non avremmo potuto e non potremmo fare, arriva dove noi non potremmo arrivare.
Il nostro amore è sempre anche amore per se stessi, solo l’amore di Dio – e quindi di Gesù – è amore totalmente gratuito, totalmente dono di se stesso, fino alla morte, e alla morte di croce, come scrive Paolo.


L’ultima cosa che ci dice questo racconto è che Gesù «chinato il capo, rese lo spirito». Questa affermazione “rese lo Spirito” dicono gli studiosi, ha due significati: il primo è che esso indica la morte di Gesù. Gesù rende lo Spirito nel senso che restituisce lo Spirito vitale, restituisce la vita al Padre e muore. La morte in croce è una morte lenta e dolorosa, per soffocamento, e per Gesù arriva – si potrebbe dire finalmente – l’ultimo respiro. Gesù muore.
Ma c’è un secondo significato: lo Spirito può anche essere inteso non come l’ultimo respiro, ma come lo Spirito Santo: Gesù morendo dona lo Spirito Santo. La Pentecoste ci è raccontata soltanto dal libro degli Atti, scritti dall’evangelista Luca.
Per Giovanni morte, resurrezione, ascensione e dono dello Spirito Santo in pratica coincidono, cronologicamente e teologicamente, sono un evento unico.
Gesù morendo ritorna al Padre (innalzamento) e dona lo Spirito. Lo Spirito che, come lo ha definito qualcuno, è “la presenza di Gesù assente”, cioè è Gesù quando Gesù non c’è più fisicamente, viene donato subito, appena Gesù lascia questo mondo.


La vita di Gesù, l'incarnazione, cioè la decisione di Dio di venire nel mondo, la rivelazione del suo volto giusto e misericordioso sono compiute nella croce e con esse è compiuto, completamente vissuto e rivelato l’amore di Dio per noi.
Perché noi possiamo credere tutto questo, che proprio nella croce raggiunge il suo massimo il compimento dell’amore di Dio, Gesù ci lascia lo Spirito.
Lo Spirito ci aiuti a vivere in questa fede e in questa speranza, che la nostra vita che è sempre incompiuta è nelle mai di colui che nella croce ha compiuto tutto per noi.


giovedì 11 aprile 2019

Predicazione di domenica 7 aprile 2019 - Culto con Scuola Domenicale: La Passione secondo... Pietro

La passione secondo… Pietro


Oggi vogliamo ripercorrere la storia della Passione di Gesù mettendoci nei panni di uno dei protagonisti di questa storia, Pietro. Questa mattina diventiamo tutti quanti un po’ Pietro. Pietro, come sapete è uno dei primi discepoli che Gesù ha chiamato a seguirlo, è un discepolo importante, perché spesso è lui che parla a nome di tutti gli altri.
È un discepolo, come vedremo, umano, con i suoi alti e i suoi bassi, con i suoi entusiasmi e le sue paure. Proprio come noi. Per questo vogliamo rileggere alcuni episodi della passione e della pasqua attraverso i suoi occhi.


Marco 8, 27-30: Pietro ha capito chi è Gesù
27 Poi Gesù se ne andò, con i suoi discepoli, verso i villaggi di Cesarea di Filippo; strada facendo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?» 28 Essi risposero: «Alcuni, Giovanni il battista; altri, Elia, e altri, uno dei profeti». 29 Egli domandò loro: «E voi, chi dite che io sia?» E Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». 30 Ed egli ordinò loro di non parlare di lui a nessuno.

Il grosso tema del vangelo di Marco è: chi è Gesù? Qui Gesù chiede ai discepoli che cosa la gente dica di lui e poi chiede a loro: «E voi, chi dite che io sia?». Cioè: chi sono io, secondo voi?
Pietro risponde prontamente, senza alcun dubbio: tu sei il Cristo. Cioè il Messia, il liberatore che Israele aspettava da molto tempo e che i profeti avevano annunciato. La risposta di Pietro, quindi, è quella giusta: è vero, Gesù è il Messia. Ma è sufficiente dire “Messia”?


Marco 8, 31-33: Ma ha capito davvero?
31 Poi cominciò a insegnare loro che era necessario che il Figlio dell'uomo soffrisse molte cose, fosse respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, e fosse ucciso e dopo tre giorni risuscitasse. 32 Diceva queste cose apertamente. Pietro lo prese da parte e cominciò a rimproverarlo. 33 Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: «Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini».

Appena Gesù dice che tipo di messia sarà, appena dice che cosa gli accadrà, cioè che deve essere respinto dai capi del suo popolo che lo metteranno a morte, e che poi risorgerà, Pietro lo rimprovera: il testo non ci dice che cosa Pietro abbia detto a Gesù, ci dice solo che lo rimprovera. Pietro non vuole che a Gesù accada qualcosa di male, non vuole che muoia.
Gesù, secondo Pietro, deve essere un messia trionfante, glorioso, non uno che viene respinto! Gesù lo rimprovera duramente: Pietro non ha il senso delle cose di Dio, cioè ragiona in modo troppo umano, esclusivamente umano.
Ecco il primo tratto molto umano di Pietro: vuole decidere lui che cosa Gesù deve fare, vuole decidere lui che cosa il messia deve fare, cioè che cosa Dio deve fare. Anche noi siamo un po’ così….


Marco 14,26-31: l’annuncio del rinnegamento di Pietro
26 Dopo che ebbero cantato l'inno, uscirono per andare al monte degli Ulivi.
27 Gesù disse loro: «Voi tutti sarete scandalizzati perché è scritto: "Io percoterò il pastore e le pecore saranno disperse". 28 Ma dopo che sarò risuscitato, vi precederò in Galilea». 29 Allora Pietro gli disse: «Quand'anche tutti fossero scandalizzati, io però non lo sarò!» 30 Gesù gli disse: «In verità ti dico che tu, oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo abbia cantato due volte, mi rinnegherai tre volte». 31 Ma egli diceva più fermamente ancora: «Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.


Gesù dice che tutti saranno scandalizzati. Che cosa vuol dire scandalizzati? Qui questa parola ha un significato ben preciso, un po’ diverso da quello che usiamo di solito: vuol dire “inciampare”. Gesù vuol dire che i discepoli inciamperanno, cioè che la loro fede inciamperà in un ostacolo molto grosso; questo ostacolo è la croce, è quello che Gesù subirà nella sua passione.
Ma Pietro è molto sicuro di sé, si sente forte, non ha paura. Gesù parla di quello che lo aspetta e del fatto che i discepoli fuggiranno: è scritto: “Io percoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse”.
Qui Pietro arriva a dire a Gesù: io sono disposto persino a morire insieme a te, se è necessario.
Pietro si sente un eroe, vuole bene a Gesù e vorrebbe stare con lui fino alla fine, qualunque cosa accada. Anche noi a volte ci sentiamo forti e ci sembra di non avere paura di nulla.
Ce la farà, Pietro? Intanto Gesù va in un giardino a pregare e la sua preghiera è molto angosciata, perché lui, invece, ha paura.


Marco 14,32-42: Nel Getsemani
32 Poi giunsero in un podere detto Getsemani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedete qui finché io abbia pregato». 33 Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e cominciò a essere spaventato e angosciato. 34 E disse loro: «L'anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate». 35 Andato un po' più avanti, si gettò a terra; e pregava che, se fosse possibile, quell'ora passasse oltre da lui. 36 Diceva: «Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi». 37 Poi venne, li trovò che dormivano e disse a Pietro: «Simone! Dormi? Non sei stato capace di vegliare un'ora sola? 38 Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». 39 Di nuovo andò e pregò, dicendo le medesime parole. 40 E, tornato di nuovo, li trovò che dormivano perché gli occhi loro erano appesantiti; e non sapevano che rispondergli. 41 Venne la terza volta e disse loro: «Dormite pure, ormai, e riposatevi! Basta! L'ora è venuta: ecco, il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. 42 Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce è vicino».


Gesù chiede proprio a Pietro e ad altri due discepoli - Giacomo e Giovanni - di accompagnarlo e di pregare con lui. Ma loro si addormentano. Insomma: poco prima Pietro aveva detto di essere disposto a morire per Gesù e ora non riesce nemmeno a stare sveglio…


Il sonno è simbolo di stanchezza, ma anche di distanza: Pietro - e gli altri due – non riesce a stare con Gesù…


Simbolo: discepoli dormono


Marco 14,43-50: l’arresto
43 In quell'istante, mentre Gesù parlava ancora, arrivò Giuda, uno dei dodici, e insieme a lui una folla con spade e bastoni, inviata da parte dei capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani. 44 Colui che lo tradiva aveva dato loro un segnale, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; pigliatelo e portatelo via sicuramente». 45 Appena giunse, subito si accostò a lui e disse: «Rabbì!» e lo baciò. 46 Allora quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono.
47 Ma uno di quelli che erano lì presenti, tratta la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli recise l'orecchio.
48 Gesù, rivolto a loro, disse: «Siete usciti con spade e bastoni come per prendere un brigante. 49 Ogni giorno ero in mezzo a voi insegnando nel tempio e voi non mi avete preso; ma questo è avvenuto affinché le Scritture fossero adempiute». 50 Allora tutti, lasciatolo, se ne fuggirono.
Vengono armati a prendere Gesù. Giuda lo bacia come i discepoli usavano baciare i loro maestri. Solo che questa volta il bacio era un segnale: “quello che bacerò è lui pigliatelo”, aveva detto Giuda ai soldati. I soldati mettono le mani addosso a Gesù e uno dei discepoli cerca di difendere Gesù tirando fuori la spada e tagliando l'orecchio del servo del sommo sacerdote.
Il vangelo di Marco non ci dice chi è, ma il vangelo di Giovanni sì:


Giovanni 18,10-11
10 Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la prese e colpì il servo del sommo sacerdote, recidendogli l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. 11 Ma Gesù disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero; non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?» (Giov. 18,10-11).


Pietro vuole difendere Gesù e per farlo usa persino le armi! Pietro vuol fare l’eroe!
Ma Gesù lo rimprovera: deve bere il calice che il Padre gli dà, cioè deve affrontare la sua passione, non c’è altra via. Bisogna andare avanti.
Pietro, di nuovo, non aveva capito, pensava di potere lui aiutare Gesù. Pensava di potere salvare Gesù.


Simbolo: spada


La spada ci ricorda il nostro orgoglio e ci ricorda che la violenza non porta da nessuna parte e che Gesù non ha voluto la violenza. E ci ricorda anche che qualche volta non capiamo ciò che Dio vuole dirci e facciamo esattamente il contrario di quello che lui vorrebbe.


Marco 14,66-72: il rinnegamento
66 Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle serve del sommo sacerdote; 67 e, veduto Pietro che si scaldava, lo guardò bene in viso e disse: «Anche tu eri con Gesù Nazareno». 68 Ma egli negò dicendo: «Non so, né capisco quello che tu dici». Poi andò fuori nell'atrio e il gallo cantò. 69 La serva, vedutolo, cominciò di nuovo a dire ai presenti: «Costui è uno di quelli». Ma lui lo negò di nuovo. 70 E ancora, poco dopo, coloro che erano lì dicevano a Pietro: «Certamente tu sei uno di quelli, anche perché sei Galileo». 71 Ma egli prese a imprecare e a giurare: «Non conosco quell'uomo di cui parlate». 72 E subito, per la seconda volta, il gallo cantò. Allora Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detta: «Prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte». E si abbandonò al pianto.
Gesù viene portato dal sommo sacerdote e dagli anziani che lo interrogano. Pietro lo segue di nascosto, non vuole abbandonarlo. Ma una donna lo riconosce: “anche tu eri con lui”. E qui Pietro ha paura: “non so che cosa dici”; e intanto il gallo canta.
Ma la donna insiste: è uno di quelli”, cioè uno dei discepoli di Gesù. Pietro nega. Altri cominciano a dire: «Certamente tu sei uno di quelli» e Pietro risponde: “Non conosco quell’uomo di cui parlate!”.
Il Gallo canta per la seconda volta.
Pietro si ricorda delle parole di Gesù: prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte”.
Eccolo qui, il Pietro coraggioso, quello che voleva morire con Gesù, quello che voleva difenderlo con la spada, arriva a dire che nemmeno lo conosce e per ben tre volte! Pietro si rende conto di quello che ha fatto e piange.
Pietro è triste ed è deluso da se stesso. Ha fatto tutto il contrario di quello che avrebbe voluto fare. Voleva essere forte è stato debole, voleva essere coraggioso ed ha avuto paura, voleva aiutare Gesù e per salvarsi ha detto che nemmeno lo conosceva…


Simboli: gallo e lacrime


Anche a noi capita a volte di non esser come vorremmo essere, o anzi addirittura di fare il contrario di quello che vorremmo fare. Vorremmo essere pronti, coraggiosi, generosi, attenti agli altri e invece a volte siamo stanchi, sospettosi, sfiduciati, indifferenti...
anche a noi capita di essere delusi da noi stessi, di essere colpevoli...
vogliamo esprimere tutto questo in una preghiera di Confessione di peccato


Marco 15,21-27: crocifissione
21 Costrinsero a portare la croce di lui un certo Simone di Cirene, padre di Alessandro e di Rufo, che passava di là, tornando dai campi. 22 E condussero Gesù al luogo detto Golgota che, tradotto, vuol dire «luogo del teschio». 23 Gli diedero da bere del vino mescolato con mirra; ma non ne prese.
24 Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirandole a sorte per sapere quello che ciascuno dovesse prendere. 25 Era l'ora terza quando lo crocifissero.
26 L'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
27 Con lui crocifissero due ladroni, uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra.
La morte – e la resurrezione, ovviamente – di Gesù sono uno spartiacque. Tutto quello che Gesù aveva detto accade. Egli soffre, viene maltrattato e insultato e poi crocifisso.
Il terzo giorno risorgerà, ma per ora ci fermiamo un istante davanti alla croce, che rappresenta il rifiuto che noi umani opponiamo spesso a Gesù.


simbolo: croce


Giovanni 21,1-6.9-14: la pesca miracolosa
1 Dopo queste cose, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli presso il mare di Tiberiade; e si manifestò in questa maniera. 2 Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e due altri dei suoi discepoli erano insieme. 3 Simon Pietro disse loro: «Vado a pescare». Essi gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Uscirono e salirono sulla barca; e quella notte non presero nulla. 4 Quando già era mattina, Gesù si presentò sulla riva; i discepoli però non sapevano che era Gesù. 5 Allora Gesù disse loro: «Figlioli, avete del pesce?» Gli risposero: «No». 6 Ed egli disse loro: «Gettate la rete dal lato destro della barca e ne troverete». Essi dunque la gettarono, e non potevano più tirarla su per il gran numero di pesci. […]

9 Appena scesero a terra, videro là della brace e del pesce messovi su, e del pane. 10 Gesù disse loro: «Portate qua dei pesci che avete preso ora». 11 Simon Pietro allora salì sulla barca e tirò a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci; e benché ce ne fossero tanti, la rete non si strappò. 12 Gesù disse loro: «Venite a fare colazione». E nessuno dei discepoli osava chiedergli: «Chi sei?» Sapendo che era il Signore. 13 Gesù venne, prese il pane e lo diede loro; e così anche il pesce.
14 Questa era già la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo esser risuscitato dai morti.


Pietro e gli altri discepoli sono tornati a fare quello che facevano prima, sono tornati al loro lavoro di pescatori. Pietro e gli altri vanno a pescare di notte, perché di notte i pesci abboccano di più e i pescatori andavano (e ancora oggi vanno) di notte a pescare. Ma quella notte non prende nulla. È già mattina quando incontrano Gesù, lo vedono a riva mentre se ne tornano con le reti vuote.
Incontrano Gesù ma non lo riconoscono. Gesù dice loro di tornare a pescare: “Gettate la rete dal lato destro della barca e ne troverete” e essi seguono il suo consiglio, anche se non hanno ancora capito che è lui.
E questa volta pescano un sacco di pesci al punto che “non potevano più tirarla su per il gran numero di pesci”.
Uno per volta cominciano a capire che quell’uomo che li ha rimandati al largo a pescare è Gesù e lui li invita a fare colazione con lui.
Siamo tornati al punto di partenza, ma questa volta è Gesù risorto che è lì con loro a mangiare il pesce. E Gesù compie qui due miracoli: il primo è che i discepoli tornano a pescare dopo una notte in cui non hanno preso nulla, niente di niente. Il secondo miracolo è che questa la pesca è molto abbondante.
Ma senza il primo miracolo, non sarebbe successo nemmeno il secondo, se i discepoli non forse tornati a pescare non avrebbero preso quei 153 pesci.
La presenza di Gesù risorto ci aiuta a non rassegnarci davanti ai fallimenti, ci spinge a ricominciare, a gettare di nuovo le reti. Per ricordarci di questo mettiamo qui davanti a noi un pesce.


simbolo: pesce


Giovanni 21,15-19: Gesù e Pietro

15 Quand'ebbero fatto colazione, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami più di questi?» Egli rispose: «Sì, Signore, tu sai che ti voglio bene». Gesù gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo, una seconda volta: «Simone di Giovanni, mi ami?» Egli rispose: «Sì, Signore; tu sai che ti voglio bene». Gesù gli disse: «Pastura le mie pecore». 17 Gli disse la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?» Pietro fu rattristato che egli avesse detto la terza volta: «Mi vuoi bene?» E gli rispose: «Signore, tu sai ogni cosa; tu conosci che ti voglio bene». Gesù gli disse: «Pasci le mie pecore. 18 In verità, in verità ti dico che quand'eri più giovane, ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti». 19 Disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio. E, dopo aver parlato così, gli disse: «Seguimi».


Per tre volte Gesù chiede a Pietro se lo ami e per te volte Pietro risponde di sì, anche se l’ultima volta è un po’ triste perché si chiede perché Gesù continui a chiedergli la stessa cosa…
Tre volte Pietro aveva rinnegato Gesù, tre volte Gesù gli chiede se lo ama. Anche se Gesù non lo dice chiaramente, questa triplice domanda di Gesù e risposta di Pietro forse servono per superare l’episodio del rinnegamento.
Gesù non lo rimprovera, non lo condanna, non lo caccia via, gli chiede semplicemente se gli voglia bene.
E ogni volta che Pietro risponde di sì, Gesù gli dice: “pasci le mie pecore” o “i miei agnelli”. Gesù dà a Pietro un compito, il compito di pastore delle sue pecore, cioè dei discepoli. Quel Pietro così inaffidabile e così pauroso, quel Pietro che si voleva morire con Gesù e poi nega addirittura di conoscerlo, quel Pietro ha il compito di pascere le pecore di Gesù.
Il Signore chiede anche a noi se lo amiamo e se rispondiamo di sì, ha un compito anche per noi.


Gesù non ci chiede di essere perfetti, sa che come Pietro non posiamo esserlo e che come Pietro siamo pieni di contraddizioni.
Ci pone però ogni giorno una domanda, se l'amiamo, cioè se vogliamo seguirlo e fidarci di lui.
E ci chiede ogni giorno di gettar le nostre reti, anche se lo abbiamo già fatto, anche se siamo tornati a mani vuote.
Pietro è arrivato fin qui, a incontrare il risorto, nonostante e attraverso tutte le sue contraddizioni.
A lui – e a noi – Gesù chiede di amarlo, di fidarsi e di gettare le reti laddove lui vuole, e ricominciare così sempre di nuovo.