sabato 28 marzo 2020

Predicazione su Giobbe 19,19-27 - domenica 29 marzo 2020, quinta domenica del tempo di Passione, a cura di Marco Gisola

Non potendo celebrare il culto domenicale, a causa dei provvedimenti presi dal governo per limitare la diffusione del Coronavirus, pubblichiamo la predicazione sul testo di domani, domenica 29 marzo

Giobbe 19,19-27

19 Tutti gli amici più stretti mi hanno in orrore, quelli che amavo si sono rivoltati contro di me.
20 Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle e alla mia carne, non m’è rimasta che la pelle dei denti.
21 Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.
22 Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?
23 «Oh, se le mie parole fossero scritte! Se fossero impresse in un libro!
24 Se con lo scalpello di ferro e con il piombo fossero incise nella roccia per sempre!
25 Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desiderio, mi si consuma!


In questa quinta domenica del tempo di passione, mentre ci stiamo avvicinando al momento in cui la passione di Gesù avrà inizio e Gesù toccherà il fondo della sua vita umana, ci viene proposto un testo tratto dal libro di Giobbe, il personaggio biblico che più di ogni altro ha davvero toccato il fondo della sua esistenza.
Giobbe ha toccato il fondo non solo in quanto a disgrazie (ha perso beni, familiari, affetti e anche la salute: ha perso letteralmente tutto), ma perché tutto e tutti gli sono contro, anche i cosiddetti amici.
Ma non solo: come se non bastasse, persino Dio gli è contro, persino Dio è un suo nemico e vuole il suo male. Così dice Giobbe poco prima del brano che abbiamo letto:
«Sappiatelo: chi m’ha fatto torto e m’ha avvolto nella sua rete è Dio […] Dio mi ha sbarrato la via e non posso passare, ha coperto di tenebre il mio cammino […] Ha acceso la sua ira contro di me, mi ha considerato come suo nemico» (19,6.8.11).
Per un credente, è la peggior cosa che possa capitargli: arrivare a pensare che colui in cui ha sempre riposto fiducia, che ha sempre considerato un rifugio, è ora un nemico, non è più a suo favore ma contro di lui.
Sappiamo che Giobbe non è l’unico ad essere arrivato a pensare questo, lo ha fatto anche il salmista che ha pregato con le parole del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato...” e lo ha fatto Gesù, che ha ripetuto quelle stesse parole del salmo mentre era sulla croce.
Davvero un terribile lamento quello che Giobbe esprime qui con disperazione, ma anche con rabbia, rabbia verso i nemici che non lo capiscono e cercano anzi di dimostragli che è tutta colpa sua, e rabbia contro Dio che gli ha inflitto tutte queste sofferenze.
E allora si rivolge di nuovo agli amici e implora la loro pietà; se non può avere la pietà di Dio almeno quella degli amici!: «Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito» (19,21).
Giobbe vorrebbe che questo suo grido con cui implora pietà venisse scritto per essere ricordato; vorrebbe che le sue parole di lamento e di protesta «fossero incise con lo scalpello di ferro e con il piombo nella roccia per sempre!» (19,24).
Siamo davvero al punto più basso, Giobbe ha davvero toccato il fondo. Dio è contro di lui, gli amici non lo capiscono… Gli amici sono lì, ma Giobbe non si è mai sentito così solo. Non c’è davvero più futuro, non c’è più comunione, non c’è più speranza….
Ma…!
C’è un “ma” nel testo che abbiamo letto e c’è un “ma” anche nel cuore di Giobbe. Nel bel mezzo della disperazione, dell’angoscia, della solitudine, a cui nessun grido pone rimedio, nasce un “MA”:
«Ma io so che il mio Redentore vive».
Nel bel mezzo di questa realtà terribile, quel “Ma” fa scorgere un altra realtà, una realtà diversa, che dice che la realtà non è tutta e non è solo quella che Giobbe sta vivendo.
Quel “Ma” di Giobbe è la parolina che apre alla speranza, che dice che la speranza non è morta.
Il teologo cattolico Luigino Bruni, commentando questo brano, ha scritto queste parole:
Una speranza che arriva come un arcobaleno mentre ancora infuria la tempesta. Le speranze vere arrivano sempre così: non sono frutto delle nostre virtù né del merito, ma tutto e solo grazia, charis, dono. E quindi ci sorprendono sempre, lasciandoci senza fiato” (quotidiano Avvenire, 25 aprile 2015).
La tempesta infuria ma Giobbe intravvede l’arcobaleno: «Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere». Ecco la speranza che è dono, è grazia: No, Dio non può essere il nemico, alla fine si rivelerà per quello che è, ovvero il redentore. Anzi il mio redentore, dice Giobbe.
Il redentore indica nell’Antico Testamento una persona che ha un ruolo ben preciso, è colui che ha il dovere di riscattare un parente in difficoltà. Il riscatto può essere di una proprietà del parente caduto in disgrazia (per esempio della terra che ha dovuto vendere perché non era in grado di pagare i debiti), oppure della persona stessa, nel caso abbia dovuto, sempre in seguito a una disgrazia, vendersi come schiavo al proprio creditore. In questo caso il riscatto è una vera e propria liberazione dalla situazione di servitù.
Questo termine è poi stato utilizzato per indicare Dio stesso, che è così descritto come il redentore del suo popolo Israele, che ha liberato dalla schiavitù d’Egitto.
Giobbe ritrova la speranza nel redentore, nel suo redentore, che si alza sulla polvere nella quale Giobbe si trova, perché è proprio a terra e non ha nemmeno più la forza di rialzarsi.
C’è un grosso dibattito sul significato delle parole che seguono «E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio» (19,26), se esse si riferiscano a una speranza nella resurrezione oppure se Giobbe speri che questo accada ancora nel corso della sua vita e speri in ciò che poi la conclusione del libro ci racconterà, ovvero in una sua riabilitazione non solo nella salute, negli affetti e nei beni, ma anche davanti a Dio, che darà ragione a lui e non ai suoi amici che si erano auto-eletti “difensori di Dio..”.
Ma per concludere vorrei fermarmi ancora su questa affermazione di Giobbe: «io so che il mio redentore vive…»
«Io so...»; proprio in queste settimane di epidemia del Coronavirus siamo stati messi a duro confronto con ciò che non sappiamo. Quante volte abbiamo detto o abbiamo sentito dire, anche da medici ed esperti, che non si sa quando finirà l’epidemia, non si conosce ancora una cura, non si sa esattamente da dove questo virus arrivi…
La nostra conoscenza per certi versi è meravigliosa (e del resto è anch’essa un dono di Dio…), ma non è onnipotente e non è onnisciente, ovvero non sappiamo tutto. In teoria siamo ben consapevoli del fatto che non conosciamo tutto, che anzi sono molte le cose che non conosciamo; anche in campo medico, pensiamo alla instancabile ricerca sul cancro, che da un lato fa grandi passi avanti, mentre d’altro lato molte persone ancora ne muoiono.
Ma – dobbiamo ammetterlo - a un’epidemia, che ha colpito e sta colpendo quasi tutto il mondo e con una notevole velocità, non eravamo preparati. E dunque in questo caso la nostra non conoscenza è evidente, a partire dal fatto che – noi che vorremmo prevedere sempre tutto – non abbiamo saputo prevederla, fino ad arrivare soprattutto al fatto che non sappiamo (ancora) curarla. Medici e scienziati ce la stanno mettendo tutta, ma al momento non hanno ancora trovato una cura.
Non intendo paragonare la nostra situazione a quella di Giobbe, le storie sono troppo diverse, ma forse possiamo dire che una cosa che le accomuna è la domanda “perché?”, è – appunto - il non sapere perché certe cose accadano.
Giobbe non si spiega perché sia stato gettato così in basso, lui non trova delle ragioni e le spiegazioni che gli danno gli amici non gli bastano; Giobbe non sa. Eppure in questo versetto c’è una svolta, perché Giobbe afferma che una cosa la sa: che il suo redentore vive e agirà.
In mezzo a tutte le incertezze, una certezza Giobbe ce l’ha; nel profondo della disperazione, una speranza la trova; nella confusione delle domande, dei tentativi di trovare risposte, del rifiuto delle risposte (sbagliate) degli amici, una cosa chiara Giobbe nella sua mente e nel suo cuore ce l’ha; nel buio più totale, una luce la vede: Giobbe sa che il suo redentore vive.
Vive” non vuol dire semplicemente che esiste (il pensiero ebraico non è astratto, ma molto concreto), ma che agisce, interviene, che libererà Giobbe dalla polvere in cui si trova, che agirà da redentore, da liberatore.
Questa affermazione è tanto più profonda e più significativa proprio perché non viene pronunciata da un uomo a cui va tutto bene, ma da un uomo a cui va tutto male, malissimo, che ha – appunto – toccato il fondo.
È una parola che ci viene donata perché anche noi la facciamo nostra e la pronunciamo quando va tutto male. Una parola per i momenti in cui noi tocchiamo il fondo, in cui siamo vicini alla disperazione o ci siamo già caduti dentro, in cui tutto appare buio e non sembra esserci alcuna luce.
È una parola – per usare un’immagine che si rifà alla storia della passione di Gesù – da Venerdì santo, una parola da momenti estremi, da momenti ultimi. E se le parole di Giobbe che abbiamo citato prima vanno in parallelo con il salmo pregato da Gesù sulla croce – “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27,46) - questa affermazione (potremmo dire: questa confessione di fede) di Giobbe va in parallelo con quell’altra affermazione che secondo l’Evangelo di Luca Gesù pronuncia sulla croce un attimo prima di morire: «Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio» (Luca 23,46).
Una confessione di fede che nasce dall’abisso dell’esistenza. Questo sono queste parole di Giobbe, come quelle di Gesù sulla croce (almeno secondo Luca.
Una parola che ci raggiunge nel nostro abisso, nel momento in cui noi tocchiamo il fondo e ci sollevano lo sguardo verso una realtà altra, diversa, ma altrettanto reale dell’angoscia e del dolore.
A Giobbe è stato dato di riuscire a pronunciare questa parola, che è davvero, come tutto il suo libro, rimasta scritta (anche se non nella roccia, ma ci è arrivata lo stesso…) per sempre, per noi.
Ci dia il Signore di poterla pronunciare anche noi, quando ci capiterà di toccare il fondo e precipitare nell’abisso: una cosa la so, una sola, ma mi basta: che il mio redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere e solleverà anche me dall’abisso.
Questa unica, sola cosa che so è quella che fa sì che possa rinascere la speranza.

sabato 21 marzo 2020

Predicazione sul testo di Isaia 66,10-14 - domenica 22 marzo 2020, quarta domenica del tempo di Passione a cura di Marco Gisola

Non potendo celebrare il culto domenicale, a causa dei provvedimenti presi dal governo per limitare la diffusione del Coronavirus, 
pubblichiamo la predicazione sul testo di domani, domenica 22 marzo

 

Domenica 22 marzo 2020 – Quarta del tempo di Passione
Isaia 66,10-14

10 «Gioite con Gerusalemme ed esultate a motivo di lei, voi tutti che l’amate!
Rallegratevi grandemente con lei, voi tutti che siete in lutto per essa,
11 affinché siate allattati e saziati al seno delle sue consolazioni;
affinché beviate a lunghi sorsi e con delizia l'abbondanza della sua gloria».
12 Poiché così parla il SIGNORE: «Ecco, io dirigerò la pace verso di lei come un fiume,
la ricchezza delle nazioni come un torrente che straripa,
e voi sarete allattati, sarete portati in braccio, accarezzati sulle ginocchia.
13 Come un uomo consolato da sua madre così io consolerò voi, e sarete consolati in Gerusalemme».
14 Voi lo vedrete; il vostro cuore gioirà, le vostre ossa, come l’erba, riprenderanno vigore;
la mano del SIGNORE si farà conoscere in favore dei suoi servi, e la sua indignazione, contro i suoi nemici.


In questa quarta domenica del tempo di passione – e quarta domenica senza culto comunitario! - ci viene incontro una parola che è un invito alla gioia e una promessa di consolazione! Un meraviglioso brano del profeta Isaia, tratto dall’ultimo dei suoi 66 capitoli.
Qualcuno ha detto che questa domenica – che nel calendario liturgico prende il nome proprio dalla prima parola del primo versetto del brano di Isaia, cioè “Gioite!” - è una piccola Pasqua nel bel mezzo del tempo di Passione.
Potremmo dire: nel bel mezzo del tempo di Passione ci raggiunge la promessa di Pasqua. E con la promessa l’invito a gioire.
Questo non vuol dire “cristianizzare” Isaia; ma poiché noi leggiamo Isaia con occhi cristiani, notiamo come la promessa di Dio, la Parola di Dio, annuncia ciò che ancora non è e chiede la nostra fiducia, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, nei profeti come nei vangeli: «sarete consolati in Gerusalemme». È come l’annuncio della resurrezione fatto proprio nel bel mezzo della Passione di Gesù.
Ma vediamo un attimo il contesto: siamo dopo la fine l’esilio in Babilonia, gli Israeliti sono tornati a casa e a Gerusalemme si sta progettando la ricostruzione del tempio, perché il tempio di Salomone era stato distrutto dagli Assiri che avevano deportato gli Israeliti.
Questi ultimi capitoli di Isaia alternano, come tutto il libro, annunci di giudizio e annunci di salvezza. Poco prima (65,17) Dio aveva annunciato che avrebbe creato nuovi cieli e nuova terra, aveva annunciato un tempo di pace e di gioia in cui persino «il lupo e l’agnello pascoleranno insieme … e non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo» (65,25).
Il tono cambia invece all’inizio del cap. 66: poco prima del brano di oggi, troviamo un invettiva contro il falso culto, cioè verso il culto ipocrita, praticato proprio da chi vorrebbe costruire a Dio una casa, cioè il tempio, mentre è proprio Dio il creatore di tutto ciò che esiste: «tutte queste cose le ha fatte la mia mano...» dice Dio al suo popolo tramite Isaia (66,2).
Questo testo è quindi decisamente controcorrente: non è la casa che gli esseri umani costruiranno a Dio che conta. Ciò che conta è quello che Dio dice subito dopo, che è una parola chiave per la lettura di questo capitolo e di tutto il libro di Isaia, per non dire di tutta la Bibbia: «Ecco su chi io poserò lo sguardo: su colui che è umile, che ha lo spirito afflitto e trema alla mia parola» (66,3).
Dio posa il suo sguardo su chi è umile, su chi si presenta davanti a lui con umiltà, non con l’intenzione di costruire qualcosa per lui, ma con la consapevolezza che è Dio il “costruttore”, il creatore di tutto ciò che esiste. A costoro Dio annuncia consolazione, costoro Dio invita alla gioia. Gioia per la rinascita di Gerusalemme, che non rinasce grazie ai progetti degli esseri umani, ma grazie ai progetti di Dio.

Chi è invitato a gioire con Gerusalemme? Chi ama Gerusalemme, chi è in lutto per Gerusalemme. Gerusalemme è ancora ferita dalla catastrofe dell’esilio, ma non è tanto o soltanto la città che va ricostruita, bensì il popolo stesso che va ricostruito, e questa ricostruzione è opera di Dio, solo lui può ricostruirlo.
Gli esseri umani possono ricostruire le mura, le abitazioni, persino il maestoso tempio come quello che aveva costruito Salomone, ma non possono ricostruire se stessi, non possono ricostruire la loro fede e la loro speranza. Quelle sarà Dio a ricostruirle.
È chi è in lutto che è invitato a gioire. Questo è l’evangelo di questo brano. Queste parole non sono rivolte a chi sta bene, a chi è felice e sereno, ma chi è in lutto, a chi è tornato da Babilonia e ha trovato la sua città semidistrutta.
Questa è in fondo la Pasqua, o se vogliamo questo è l’evangelo, la Parola di Dio che ci incontra sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento. Oggi l’evangelo ci incontra oggi nelle parole del profeta Isaia.
La gioia si fonda sulla promessa di Dio, dunque si fonda su ciò che non si vede, su ciò che non si può ancora sperimentare, su ciò che sembra lontano, per non dire incredibile.
Ma la cosa che sembra più incredibile è anche la più certa, la più degna di fede. Dio ricostruirà il popolo, ricostruirà la sua fede e la sua speranza, gli donerà di nuovo la pace.
Umanamente sembra più credibile che il popolo ricostruisca il tempio… per questo bastano terra, pietre, legno… E lo farà, il popolo ricostruirà il tempio, ma non sarà questo che gli darà gioia e pace. Gioia e pace vengono da Dio, non dall’opera umana.
In questo brano ci viene incontro un Dio estremamente tenero, un Dio materno, che allatta, che “sazia al seno delle sue consolazioni…” e a tutti noi viene in mente un neonato che strilla e che trova pace (oltre che cibo…!) al seno della madre. 
 
Dio si presenta a noi oggi con questa immagine della madre che allatta. E un neonato non ci va da solo al seno della madre, deve esservi portato, deve essere preso in braccio e portato – letteralmente – al seno.
Così fa Dio con noi, ci porta al seno delle sue consolazioni, ci prende in braccio per portarci vicino alla fonte della consolazione, che è lui e la sua Parola efficace, che fa risorgere e dona speranza.
Allattati, portati in braccio, accarezzati sulle ginocchia… ecco che cosa siamo. Vorremo essere più di questo? Pensiamo di essere più di questo? Oggi la Parola di Dio ci dice che siamo questo, esseri bisognosi di consolazione e di gioia e che Dio è colui che ci offre la sua consolazione e la sua gioia.
E poco più avanti viene però detto che non è un neonato che viene preso sulle ginocchia, ma un uomo: «Come un uomo consolato da sua madre così io consolerò voi, e sarete consolati in Gerusalemme».
Sono già uomini, sono già grandi coloro che hanno bisogno della consolazione di Dio, quindi non i neonati (davanti ai quali si può dire: poi crescono e se la cavano da soli…), ma gli esseri umani adulti hanno bisogno di Dio e delle sue consolazioni, è per per uomini fatti e finiti (magari quelli che volevano costruire il tempio…!) che Dio è tenera madre che consola.
E se vogliamo fare un altro paragone con il Nuovo Testamento, con il tempo della Passione di Gesù, non ci vengono forse in mente i discepoli, che fuggono davanti all’arresto di Gesù? Uomini fatti e finiti, i dodici, la cerchia più stretta dei discepoli di Gesù, i prescelti, fuggono come bambini spaventati quando il loro maestro viene preso. 
 
«Rallegratevi grandemente con lei [Gerusalemme], voi tutti che siete in lutto per essa». È per chi ha toccato il fondo l’annuncio di gioia che Dio ci offre oggi, è per chi è nella disperazione la promessa della consolazione di Dio.
L’annuncio della consolazione è per chi ha perso; per chi ha perso qualcosa, come la casa, la famiglia, come chi ha dovuto fuggire dal proprio paese. Pensiamo per esempio ai profughi che stanno tra Grecia e Turchia in condizioni estreme e che nessuno vuole più, che rischiano grosso di ammalarsi del virus che spaventa tanto noi, che pure abbiamo una casa e possiamo lavarci le mani ogni volta che vogliamo.
L’annuncio della consolazione è per chi ha perso qualcuno ed è nel lutto e nella solitudine, e in questi giorni molte donne e uomini muoiono nei nostri ospedali e molti sono i familiari che li piangono.
È per tutti gli sconfitti l’annuncio della consolazione, per tutti i disperati l’annuncio della gioia, per tutti i sofferenti l’annuncio della pace.
È questo l’anticipo di Pasqua che ci raggiunge attraverso le parole del profeta Isaia nel bel mezzo del tempo di Passione e nel bel mezzo della pandemia di questo inizio 2020.
Quando Dio agisce è sempre Pasqua, è sempre rinascita, è sempre resurrezione e quando Dio parla è sempre annuncio pasquale di consolazione, di gioia e di pace per gli umili, sui quali Dio posa il suo sguardo.
Che questa promessa possa dare già oggi pace ai nostri cuori, consolazione al nostro animo e gioia alla nostra fede.


sabato 14 marzo 2020

Predicazione sul testo di domenica 15 marzo 2020, Luca 9,51-62 a cura di Marco Gisola

Non potendo celebrare il culto domenicale, a causa dei provvedimenti presi dal governo per limitare la diffusione del Coronavirus, pubblichiamo la predicazione sul testo di domani, domenica 15 marzo

Domenica 15 marzo 2020 – Terza domenica del tempo di Passione
Luca 9,51-62

51 Poi, mentre si avvicinava il tempo in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme. 52 Mandò davanti a sé dei messaggeri, i quali, partiti, entrarono in un villaggio dei Samaritani per preparargli un alloggio. 53 Ma quelli non lo ricevettero perché era diretto verso Gerusalemme. 54 Veduto ciò, i suoi discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che un fuoco scenda dal cielo e li consumi55 Ma egli si voltò verso di loro e li sgridò. 56 E se ne andarono in un altro villaggio.
57 Mentre camminavano per la via, qualcuno gli disse: «Io ti seguirò dovunque andrai». 58 E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». 59 A un altro disse: «Seguimi». Ed egli rispose: «Permettimi di andare prima a seppellire mio padre». 60 Ma Gesù gli disse: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va' ad annunciare il regno di Dio». 61 Un altro ancora gli disse: «Ti seguirò, Signore, ma lasciami prima salutare quelli di casa mia». 62 Ma Gesù gli disse: «Nessuno che abbia messo la mano all'aratro e poi volga lo sguardo indietro, è adatto per il regno di Dio».


Siamo in un momento cruciale della missione e della vita di Gesù. Secondo l’evangelista Luca, proprio in questo momento, Gesù parte per Gerusalemme e partire per Gerusalemme significa iniziare il viaggio verso la croce.
L'evangelista lo dice subito: “mentre si avvicinava il tempo in cui sarebbe stato tolto dal mondo Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme”. Il viaggio, ci dicono gli studiosi, non seguirà una traiettoria chiara, anzi non sembra nemmeno un viaggio. Ma ciò che conta per Luca è che Gesù parte dalla Galilea e arriverà a Gerusalemme, dove troverà ad attenderlo prima la folla osannante e poi la croce.
Per raggiungere la Giudea, dove si trova Gerusalemme, partendo dalla Galilea, è necessario attraversare la Samaria. Gesù cerca di organizzare il viaggio, mandando dei messaggeri a cercare un alloggio e forse anche con l'intento di parlare ai samaritani del regno di Dio. Ma i samaritani non lo ricevono perché sanno che è diretto a Gerusalemme e evidentemente non vogliono avere a che fare con chi va in Giudea.
Ci colpisce la reazione dei discepoli Giacomo e Giovanni, che si propongono di invocare un fuoco dal cielo (!) per consumare il villaggio che li ha respinti.
Questo primo episodio ci dice due cose: primo, che non sempre Gesù è accolto; e questo lo sappiamo bene, sapendo come andrà a finire la sua storia. Gesù e il suo evangelo non sono sempre accolti, Gesù va incontro a dei fallimenti, a dei rifiuti. E il racconto dell'invio in missione dei discepoli ci dice che lo stesso vale per loro, che a volte devono scuotere la polvere dai loro piedi, laddove non vengono accolti.
Non è strano che l’evangelo venga respinto da qualcuno. Se l’evangelo è predicato per quello che è, se non viene addomesticato, diluito, trasformato in una legge o in una morale, allora è normale che l’evangelo non venga accolto da tutti. Ci sarà sempre qualcuno che sceglierà altre strade, come il giovane ricco.
Quello che è strano è qui il comportamento di Giacomo e Giovanni. Non esiterei a definirlo fanatismo religioso. Giacomo e Giovanni ragionano pensando: o con noi oppure a morte: “vuoi che diciamo che un fuoco scenda dal cielo e li consumi?”.
Giacomo e Giovanni si dimostrano qui doppiamente fanatici: primo perché esprimono un giudizio di condanna eterna nei confronti dei samaritani e vogliono mettere a morte chi respinge Gesù, senza sapere che sarà proprio Gesù ad essere respinto e ucciso, che si lascerà respingere e uccidere.
In secondo luogo perché pensano che Dio possa assecondare la loro richiesta, come se Dio condividesse questo modo di fare...! Pensano di sapere, anzi: decidono, che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato e pretendono che Dio si metta a servizio della loro idea e della loro vendetta. Invocano un Dio che vorrebbero giustiziere, mentre Dio è il padre misericordioso di colui che sarà giustiziato.


La seconda parte del brano è quello che contiene alcune delle parole più note e più chiare di Gesù sulla sequela, cioè sul diventare discepoli di Gesù stesso. Davanti a questo brano è difficile non citare Dietrich Bonhoeffer, che ha commentato questo brano nel suo famoso libro “Sequela”, in cui ha raccolto e rielaborato quello che raccontava nelle sue lezioni agli studenti del seminario clandestino che si preparavano a diventare pastori della chiesa confessante, quindi pastori in quella piccola parte di chiesa evangelica tedesca che osava opporsi al nazismo.
In genere evito di inserire citazioni nelle predicazioni, ma alcune affermazioni di Bonhoeffer mi sembrano molto più profonde e chiare di quanto potrei dire io e mi sembra quindi utile condividere alcuni suoi pensieri.
Bonhoeffer ripercorre i tre incontri narrati in questo brano, tre incontri che Gesù ha con tre aspiranti discepoli. Il primo è lui stesso a proporsi: “io ti seguirò dovunque andrai”. Bonhoeffer dice che quell’uomo non sa quello che fa, che è pieno di entusiasmo, ma non ha capito che diventare discepoli di Gesù vuol dire accompagnarlo verso la croce.
Bonhoeffer dice addirittura che “nessun uomo può volere questo per propria scelta. Nessun uomo può rivolgere la chiamata a se stesso”. Ecco l’errore di questo primo aspirante discepolo: non è Gesù che lo chiama ma è lui che chiama se stesso, senza rendersi conto di che cosa voglia dire seguire Gesù.
Il secondo invece è chiamato da Gesù, con il classico invito/ordine già rivolto ai primi discepoli: “Seguimi”. L’uomo interpellato da Gesù però vorrebbe prima seppellire suo padre. E Bonhoeffer nota che non si tratta soltanto di affetto filiale, ma è la legge che lo vincola a fare questo; non si tratta cioè di una scusa per prendere tempo, ma di un’esigenza molto importante e prescritta dalla Torah.
La risposta di Gesù è molto dura: “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. Che cosa vorrà dire questa frase un po’ enigmatica? Qualcuno dice che è un po’ come dire: lascia che dei morti si occupino quelli che sono morti spiritualmente.
Ma forse ha ragione Bonhoeffer nel dire che il significato è che semplicemente nulla, nemmeno la legge di Mosè, la buona e santa legge di Mosè, può frapporsi tra la chiamata di Gesù e la risposta umana. Nemmeno le cose buone possono essere di ostacolo. Gesù non voleva certo dire che non bisogna occuparsi delle esequie dei propri cari, e non voleva certo dire che in generale non bisogna rispettare la legge di Mosè.
Forse il senso è che quando Gesù chiama, nulla può ostacolare questa chiamata, nemmeno – appunto – le cose giuste e sante. È una parola paradossale come molte altre parole di Gesù. Quando Gesù chiama, il paradosso entra nella tua vita, l’urgenza entra nella tua vita. Tutto diventa secondario rispetto alla chiamata di Gesù.
Il terzo uomo incontrato da Gesù si propone da sé, come il primo, con – dice Bonhoeffer - “un programma di vita personalmente scelto”. Ma non solo, quest’uomo si sente autorizzato anche a porre delle condizioni: “Ti seguirò Signore, ma lasciami prima salutare quelli di casa mia”.
Vuole seguire Gesù – scrive ancora Bonhoeffer – ma vuole personalmente stabilire le condizioni della sua sequela”. Vuole seguire Gesù, ma come e quando vuole lui; la sequela diventa così qualcosa di molto umano e razionale, decisione umana e non risposta alla chiamata di Gesù.
Mi sembra che concludendo potremmo dire alcune cose su cui poi tutti noi potremmo riflettere: intanto, che la chiamata di Gesù è qualcosa che va considerata con molto rispetto e sopratutto non va confusa con i nostri desideri e con le nostre migliori intenzioni. Il mio progetto, il mio programma, per quanto possano essere belli e coerenti con l’evangelo, non sono quelli che Gesù mi propone, non si identificano tout court con la chiamata di Gesù.
Questo va ricordato, altrimenti rischiamo di confondere colui/colei che viene chiamato/a – cioè noi – con Colui che chiama, cioè Gesù. La chiamata di Gesù mi raggiunge da fuori, è qualcosa spesso di inatteso e soprattutto qualcosa che vuole dare una nuova direzione alla mia vita. E questa direzione è abbastanza chiara: seguire Gesù significa seguirlo verso Gerusalemme.
Non mi porta verso le spiagge di qualche località balneare esotica, ma mi porta a Gerusalemme, mi porta alla croce, mi porta verso la sua croce e verso le croci e i crocifissi che riempiono il mondo. Il discepolato di Gesù ha solo questa meta. Le altre mete le raggiungiamo seguendo qualcun altro.
L’ultima cosa che ci dice questo brano, riletto con l’aiuto di Bonhoeffer, è che il principale ostacolo alla sequela siamo noi stessi. Che sia il giovane ricco che non riesce a staccarsi dai suoi beni, che sia il volenteroso aspirante discepolo di questo brano che dice: “sì vengo, ma prima devo fare questo e quest’altro”, l’ostacolo principale al nostro metterci in cammino dietro a Gesù siamo noi stessi.
Perché tutti noi siamo naturalmente portati a guardare indietro dopo aver messo mano all’aratro, a lasciarci andare a nostalgie verso il passato o a nostalgie verso il futuro, verso ciò che è stato o verso ciò che sarà, così come ce lo immaginiamo e ce lo vogliamo costruire noi, col rischio di essere poco disposti a lasciare che sia Gesù a costruire il nostro futuro.
Luca non ci racconta come siano andati a finire i tre incontri tra Gesù e gli aspiranti discepoli. Non ci dice, come nel caso del giovane ricco, che qualcuno di loro abbia rinunciato o se qualcuno abbia deciso di seguire davvero Gesù.
Forse questi racconti lasciando appositamente il finale aperto, forse questo finale aperto vuole dirci che una risposta alla chiamata di Gesù dobbiamo darla noi stessi.
Gesù però non passa soltanto una volta. Passa spesso e spesso ci ha rivolto e ci rivolge la sua chiamata; a volte l’avremo sentita e avremo risposto o risponderemo, altre volte invece non l’avremo ascoltato o non l’ascolteremo e andremo in altre direzioni.
Ma lui continua a passare e a chiamare, non soltanto in Galilea, ma anche qui e passa anche da noi e chiama anche noi, e attende la nostra risposta. La sua chiamata è opera della sua grazia; il suo Spirito ci aiuti a rispondere con fiducia e con gioia.