Giobbe 19,19-27
19
Tutti gli amici più stretti mi hanno in orrore, quelli che amavo si
sono rivoltati contro di me.
20 Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle e alla mia carne, non m’è rimasta che la pelle dei denti.
21 Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.
22 Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?
20 Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle e alla mia carne, non m’è rimasta che la pelle dei denti.
21 Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.
22 Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?
23
«Oh, se le mie parole fossero scritte! Se fossero impresse in un
libro!
24 Se con lo scalpello di ferro e con il piombo fossero incise nella roccia per sempre!
24 Se con lo scalpello di ferro e con il piombo fossero incise nella roccia per sempre!
25
Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla
polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desiderio, mi si consuma!
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desiderio, mi si consuma!
In
questa quinta domenica del tempo di passione, mentre ci stiamo
avvicinando al momento in cui la passione di Gesù avrà inizio e
Gesù toccherà il fondo della sua vita umana, ci viene proposto un
testo tratto dal libro di Giobbe, il personaggio biblico che più di
ogni altro ha davvero toccato il fondo della sua esistenza.
Giobbe
ha toccato il fondo non solo in quanto a disgrazie (ha perso beni,
familiari, affetti e anche la salute: ha perso letteralmente tutto),
ma perché tutto e tutti gli sono contro, anche i cosiddetti amici.
Ma
non solo: come se non bastasse, persino Dio gli è contro, persino
Dio è un suo nemico e vuole il suo male. Così dice Giobbe poco
prima del brano che abbiamo letto:
«Sappiatelo:
chi m’ha fatto torto e m’ha avvolto nella sua rete è Dio […]
Dio mi ha sbarrato la via e non posso passare, ha coperto di tenebre
il mio cammino […] Ha acceso la sua ira contro di me, mi ha
considerato come suo nemico»
(19,6.8.11).
Per
un credente, è la peggior cosa che possa capitargli: arrivare a
pensare che colui in cui ha sempre riposto fiducia, che ha sempre
considerato un rifugio, è ora un nemico, non è più a suo favore ma
contro di lui.
Sappiamo
che Giobbe non è l’unico ad essere arrivato a pensare questo, lo
ha fatto anche il salmista che ha pregato con le parole del Salmo 22:
“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato...” e lo ha fatto
Gesù, che ha ripetuto quelle stesse parole del salmo mentre era
sulla croce.
Davvero
un terribile lamento quello che Giobbe esprime qui con disperazione,
ma anche con rabbia, rabbia verso i nemici che non lo capiscono e
cercano anzi di dimostragli che è tutta colpa sua, e rabbia contro
Dio che gli ha inflitto tutte queste sofferenze.
E
allora si rivolge di nuovo agli amici e implora la loro pietà; se
non può avere la pietà di Dio almeno quella degli amici!: «Pietà,
pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito»
(19,21).
Giobbe
vorrebbe che questo suo grido con cui
implora pietà venisse scritto per essere ricordato; vorrebbe che le
sue parole di lamento e di protesta «fossero incise con lo
scalpello di ferro e con il piombo nella roccia per sempre!»
(19,24).
Siamo
davvero al punto più basso, Giobbe ha davvero toccato il fondo. Dio
è contro di lui, gli amici non lo capiscono… Gli amici sono lì,
ma Giobbe non si è mai sentito così solo. Non c’è davvero più
futuro, non c’è più comunione, non c’è più speranza….
Ma…!
C’è
un “ma” nel testo che abbiamo letto e c’è un “ma” anche
nel cuore di Giobbe. Nel bel mezzo della disperazione, dell’angoscia,
della solitudine, a cui nessun grido pone rimedio, nasce un “MA”:
«Ma
io so che il mio Redentore vive».
Nel
bel mezzo di questa realtà terribile, quel “Ma” fa scorgere un
altra realtà, una realtà diversa, che dice che la realtà non è
tutta e non è solo quella che Giobbe sta vivendo.
Quel
“Ma” di Giobbe è la parolina che apre alla speranza, che dice
che la speranza non è morta.
Il
teologo cattolico Luigino Bruni, commentando questo brano, ha scritto
queste parole:
“Una
speranza che arriva come un arcobaleno mentre ancora infuria la
tempesta. Le speranze vere arrivano sempre così: non sono frutto
delle nostre virtù né del merito, ma tutto e solo grazia, charis,
dono. E quindi ci sorprendono sempre, lasciandoci senza fiato”
(quotidiano
Avvenire,
25 aprile 2015).
La
tempesta infuria ma Giobbe intravvede l’arcobaleno: «Ma
io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla
polvere». Ecco
la speranza che è dono, è grazia: No,
Dio non può essere il nemico, alla fine si rivelerà per quello che
è, ovvero il redentore. Anzi il mio
redentore,
dice Giobbe.
Il
redentore indica nell’Antico
Testamento
una persona che ha un ruolo ben preciso, è
colui che ha il dovere di riscattare un parente in difficoltà. Il
riscatto può essere di una proprietà del parente caduto in
disgrazia (per esempio della terra che ha dovuto vendere perché non
era in grado di pagare i debiti), oppure della persona stessa, nel
caso abbia dovuto, sempre in seguito a una disgrazia, vendersi come
schiavo al proprio creditore. In questo caso il riscatto è una vera
e propria liberazione dalla situazione di servitù.
Questo
termine è poi stato utilizzato per indicare Dio stesso, che è così
descritto come il redentore del suo popolo Israele, che ha liberato
dalla schiavitù d’Egitto.
Giobbe
ritrova la speranza
nel redentore, nel suo redentore, che si alza sulla polvere nella
quale Giobbe si trova, perché è proprio a terra e non ha nemmeno
più la forza di rialzarsi.
C’è
un grosso
dibattito sul significato
delle parole che seguono «E
quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia
carne, vedrò Dio»
(19,26),
se esse
si
riferiscano a una speranza nella resurrezione oppure
se Giobbe speri che questo accada ancora
nel
corso
della
sua vita e speri in ciò che poi la conclusione del libro ci
racconterà, ovvero in una sua riabilitazione non solo nella salute,
negli affetti e nei beni, ma anche davanti a Dio, che darà ragione a
lui e non ai suoi amici che si erano auto-eletti “difensori di
Dio..”.
Ma
per concludere vorrei fermarmi ancora su questa affermazione di
Giobbe: «io so che il
mio redentore vive…»
«Io
so...»; proprio in queste settimane di epidemia del Coronavirus
siamo stati messi a duro confronto con ciò che non sappiamo.
Quante volte abbiamo detto o abbiamo sentito dire, anche da medici ed
esperti, che non si sa quando finirà l’epidemia, non si conosce
ancora una cura, non si sa esattamente da dove questo virus arrivi…
La
nostra conoscenza per certi versi è meravigliosa (e del resto è
anch’essa un dono di Dio…), ma non è onnipotente e non è
onnisciente, ovvero non sappiamo tutto. In teoria siamo ben
consapevoli del fatto che non conosciamo tutto, che anzi sono molte
le cose che non conosciamo; anche in campo medico, pensiamo alla
instancabile ricerca sul cancro, che da un lato fa grandi passi
avanti, mentre d’altro lato molte persone ancora ne muoiono.
Ma
– dobbiamo ammetterlo - a un’epidemia, che ha colpito e sta
colpendo quasi tutto il mondo e con una notevole velocità, non
eravamo preparati. E dunque in questo caso la nostra non
conoscenza è evidente, a partire dal fatto che – noi che vorremmo
prevedere sempre tutto – non abbiamo saputo prevederla, fino ad
arrivare soprattutto al fatto che non sappiamo (ancora) curarla.
Medici e scienziati ce la stanno mettendo tutta, ma al momento non
hanno
ancora trovato una cura.
Non
intendo paragonare la nostra situazione a quella di Giobbe, le storie
sono troppo diverse, ma forse possiamo dire che una cosa che le
accomuna è la domanda “perché?”, è – appunto - il non
sapere perché certe cose accadano.
Giobbe
non si spiega perché sia stato gettato così in basso, lui non trova
delle ragioni e le spiegazioni che gli danno gli amici non gli
bastano; Giobbe non sa. Eppure in questo versetto c’è una
svolta, perché Giobbe afferma che una cosa la sa: che il suo
redentore vive e agirà.
In
mezzo a tutte le incertezze, una certezza Giobbe ce l’ha;
nel profondo della disperazione, una speranza la trova; nella
confusione delle domande, dei tentativi di trovare risposte, del
rifiuto delle risposte (sbagliate) degli amici, una cosa
chiara Giobbe nella sua mente e nel suo cuore ce l’ha; nel buio più
totale, una luce la vede: Giobbe sa che il suo
redentore vive.
“Vive”
non vuol dire semplicemente che esiste (il pensiero ebraico non è
astratto, ma molto concreto), ma che agisce, interviene, che libererà
Giobbe dalla polvere in cui si trova, che agirà da redentore,
da liberatore.
Questa
affermazione è tanto più profonda e più significativa proprio
perché non viene pronunciata da un uomo a cui va tutto bene, ma da
un uomo a cui va tutto male, malissimo, che ha – appunto –
toccato il fondo.
È
una parola che ci viene donata perché anche noi la facciamo nostra e
la pronunciamo quando va tutto male. Una parola per i momenti in cui
noi tocchiamo il fondo, in cui siamo vicini alla disperazione
o ci siamo già caduti dentro, in cui tutto appare buio e non sembra
esserci alcuna luce.
È
una parola – per usare un’immagine che si rifà alla storia della
passione di Gesù – da Venerdì santo, una parola da momenti
estremi, da momenti ultimi. E se le parole di Giobbe che abbiamo
citato prima vanno in parallelo con il salmo pregato da Gesù sulla
croce – “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Matteo
27,46) - questa affermazione (potremmo dire: questa confessione di
fede) di Giobbe va in parallelo con quell’altra affermazione che
secondo l’Evangelo di Luca Gesù pronuncia sulla croce un attimo
prima di morire: «Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio»
(Luca 23,46).
Una
confessione di fede che nasce dall’abisso dell’esistenza. Questo
sono queste parole di Giobbe, come quelle di Gesù sulla croce
(almeno secondo Luca.
Una
parola che ci raggiunge nel nostro abisso, nel momento in cui
noi tocchiamo il fondo e ci sollevano lo sguardo verso una
realtà altra, diversa, ma altrettanto reale dell’angoscia e del
dolore.
A
Giobbe è stato dato di riuscire a pronunciare questa parola, che è
davvero, come tutto il suo libro, rimasta scritta (anche se non nella
roccia, ma ci è arrivata lo stesso…) per sempre, per noi.
Ci
dia il Signore di poterla pronunciare anche noi, quando ci capiterà
di toccare il fondo e precipitare nell’abisso: una cosa la so, una
sola, ma mi basta: che il mio redentore vive e che alla fine si
alzerà sulla polvere e solleverà anche me dall’abisso.
Questa
unica, sola cosa che so è quella che fa sì che possa rinascere la
speranza.