Non
farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel
cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra.
Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il
SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei
padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli
che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi
amano e osservano i miei comandamenti.
Oggi
ci soffermiamo sul secondo comandamento (che la tradizione cattolica
considera parte del primo comandamento), in cui è comandato il
divieto delle immagini.
Nel
commentare questo testo vorrei partire dal fondo, cioè laddove Dio
dice di essere un Dio che punisce
l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta
generazione di quelli che mi odiano,
e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi
amano e osservano i miei comandamenti.
Che
Dio punisca l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e quarta
generazione ci mette in difficoltà: ma come!
Non
diciamo sempre che la fede ci porta a avere una responsabilità
individuale e personale per ciò che facciamo? Che c'entrano i figli
con le colpe dei padri?
Questa
affermazione di Dio non va presa alla lettera come se fosse una
formula matematica da applicare alla nostra vita; quello
che bisogna notare qui è l'enorme squilibrio che c'è tra la
punizione di Dio, che secondo il testo si ripercuote per tre o
quattro generazioni, e la bontà di Dio, che si ripercuote per mille
generazioni, cioè un numero enorme di generazioni.
Il
numero mille vuole appunto sottolineare l'enormità della grazia di
Dio, mentre le tre o quattro generazioni sono un tempo breve rispetto
alla durata di mille generazioni.
Tre
o quattro generazioni sono il tempo in cui si conserva la memoria dei
fatti accaduti e quindi anche delle colpe commesse.
Tre
o quattro generazioni possono convivere contemporaneamente e quindi
ciò che fa una generazione ha inevitabilmente degli effetti su
quelle immediatamente successive.
È
poi difficile negare che i nostri errori hanno spesso – non sempre,
ma spesso – ripercussioni sui nostri figli e nipoti, sia come
singoli, sia come società.
Pensiamo
alle conseguenze che la distruzione dell'ambiente provoca sulla
generazione di quelli che ora sono bambini. Pensiamo a quali
torrenti, a quali fiumi e quali mari lasciamo ai nostri figli, a
quale aria lasciamo ai nostri figli. Questa frase coglie un aspetto
dolorosamente reale della nostra esperienza.
Ma
dal punto di vista di Dio vuole semplicemente evidenziare lo
squilibrio che c’è tra la punizione di Dio e la misericordia di
Dio.
Ma
veniamo al comandamento in sé: Non
farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel
cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti
prostrare davanti a loro e non li servire.
Questo
comandamento si presta a due interpretazioni: vuole proibire di farsi
immagini di Dio o vuole proibire di farsi immagini di altre cose che
Israele potrebbe adorare al posto di Dio? È cioè una variante del
primo comandamento, o dice qualcosa sul modo di adorare il Dio di
Israele?
Io
propenderei per la seconda ipotesi, per cui si tratta della
proibizione di farsi immagini di Dio, del Dio di Israele: Israele non
solo non deve avere altri dei, ma non deve farsi immagini del suo
Dio. Nell'antichità adorare un Dio significava adorarlo attraverso
la sua immagine scolpita, quello che la Bibbia chiama idolo.
I
popoli vicini a Israele non conoscevano altro modo di prestare culto
ai loro dei. La presenza dell’idolo era la presenza del Dio stesso.
Per “avere” Dio lì presente, lo si raffigurava, lo si scolpiva.
Abbiamo
un esempio evidente di questo nel libro dell’Esodo, nel famoso
racconto del vitello d'oro: poiché Mosè tarda a scendere dal Sinai
il popolo si costruisce un'immagine di Dio e l'adora. c’era bisogno
di avere Dio lì, per adorarlo.
È
senz'altro più facile – ieri come oggi - adorare un Dio attraverso
un idolo, un qualcosa che si possa vedere e toccare. Ma
il Dio di Israele e di Gesù Cristo non può essere ridotto a idolo:
è il Dio della Parola, che parla e non si vede e non si tocca; è il
Dio della libertà donata, cioè il Dio dell'azione, che agisce per
liberare il suo popolo. È il Dio del patto, della Torah, a cui
chiede l'adesione del suo popolo.
I
profeti insistono sul fatto che l'idolo è muto, mentre Dio è
vivente e parla: e questo cambia il modo stesso di adorare Dio: Dio
non lo si adora prostrandosi davanti a una sua scultura, perché Dio
non è lì.
Lo
si adora ascoltando la sua Parola, perché Dio è lì, nella sua
Parola. Dio parla e il popolo ascolta, e dopo aver ascoltato loda Dio
e poi mette in pratica ciò che ha ascoltato: così si adora il Dio
di Israele. nell’ascolto e nell’obbedienza.
Il
Dio che libera dalla schiavitù e che parla al suo popolo liberato
non può essere ridotto a oggetto, a idolo. Dio può essere
raffigurato, perché il rischio è che quella raffigurazione finisca
per imprigionare Dio e alla lunga sostituire Dio.
Pietrificare
Dio in un idolo – qui non si parla di pittura ma solo di scultura –
significa anche pietrificare la propria fede.
Potremmo
dire: se adori un Dio di pietra, anche la tua fede diventa di pietra,
cioè cambia natura, perché cerca la dimostrazione, mentre la fede è
per sua natura fiducia, e non dimostrazione.
La
fede nasce dall'ascolto – dice l'apostolo Paolo – e se abbiamo
bisogno di ascoltare è perché ancora non sappiamo tutto, abbiamo
ancora sempre da imparare, perché non possiamo fare a meno di
tradurre e attualizzare la parola di Dio in realtà vissuta, e questo
ogni giorno.
La
fede è soprattutto speranza, attesa di ciò che non è ancora, e di
conseguenza impegno per ciò che non è ancora.
L'idolo
– nella visione della Bibbia – è invece ciò che non cambia mai,
che è lì, è così e sarà sempre così. Non c'è nulla di nuovo
nell'idolo, c'è invece sempre qualcosa di nuovo in Dio, o meglio: da
ricevere da Dio.
L'idolo
è l'immutabile, Dio è immutabile nella sua fedeltà, ma ci mostra
la sua fedeltà in modi sempre nuovi.
L'idolo
è ciò che imprigiona e pietrifica Dio e quindi imprigiona e
pietrifica noi e la nostra fede, perché ci impedisce di cogliere ciò
che di nuovo Dio ci dona.
E
non è detto che l'idolo debba essere un oggetto; può benissimo
essere un idea, un pensiero, una dottrina. Tutto ciò che imprigiona
Dio e imprigiona la fede diventa un idolo e finisce per sostituire
Dio.
E
questo è un terreno molto delicato, perché in fondo di Dio non
possiamo che parlare attraverso immagini, non possiamo descriverlo o
definirlo. Vi sono immagini più dottrinali, altre più esistenziali,
vi sono quelle bibliche e quelle moderne.
Non
possiamo che parlare di Dio per immagini, ma guai a identificarlo con
l’immagine che usiamo per parlarne.
Dio
non si esaurisce nell’immagine che usiamo per parlarne. Lo
chiamiamo Padre, perché ci è indicato nella Bibbia. Ma se da questa
immagine, da questo linguaggio nasce una chiesa fondata sui padri
umani, cioè sacerdotale o patriarcale e paternalista, siamo fuori
strada.
C’è
il rischio di imprigionare Dio nelle immagini che usiamo, come c’è
il rischio di imprigionarlo in una istituzione, in un rito, in un
dogma.
Questo
comandamento ci vuole salvare dall’errore di imprigionare Dio.
Fermare Dio in un immagine, materiale o mentale che essa sia,
significa imprigionare Dio e se stessi in qualcosa di statico, di
fermo, mentre Dio è libero e dinamico e vuole che la nostra fede sia
libera e dinamica.
Paolo
Ricca ha detto che nella Bibbia l’unica immagine di Dio che c’è
è .. l’essere umano, perché nel libro della genesi c’è scritto
che Dio creo l’uomo e la donna a sua immagine!
Non
imprigioniamo Dio in una immagine, ma restiamo in attesa e in ascolto
della sua parola, lasciamolo libero di sorprenderci con la sua
chiamata e di stupirci con la speranza che ci offre.
Restiamo
aperti a ciò che ancora non sappiamo di lui e di noi, restiamo
aperti alla novità di Dio e del suo regno.
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