martedì 16 gennaio 2018

Predicazione di domenica 14 gennaio 2018 su Giovanni 1,35-42 a cura di Daniel Attinger, pastore riformato e monaco di Bose

ERA CIRCA LA DECIMA ORA

Letture: 1 Samuele 3,1-10; Giovanni 1,35-42
Cari fratelli e sorelle,
La domenica dopo la festa dell’Epifania, si rilegge tradi­zionalmente nelle Chiese d’Occidente l’episodio del battesi­mo di Gesù da parte di Giovanni Battista. Su ciò che av­venne dopo, gli evangeli non concordano: secondo gli evangeli si­nottici, Gesù fu con­dotto nel deserto e fu tentato dal diavolo. Ma quest’episodio è normalmente riletto all’i­nizio del­la qua­resima, nel tempo che ci prepara alla Pasqua, perciò si legge solitamente, la domeni­ca dopo il battesimo di Gesù, il testo dell’evangelo secondo Giovanni che narra la chiama­ta dei primi discepoli di Gesù. Questa vocazione riceve, come ve­dremo, delle riso­nanze dalla chiamata di Samuele che abbia­mo letto come prima lettura.
Prima però di vedere queste risonanze, vorrei sottoline­are una curiosa annotazione dell’evangelo. Dopo aver narra­to l’incontro di Gesù con i due discepoli di Giovanni Batti­sta che l’hanno seguito per vedere dove abitava, l’evangelista conclude: “Era circa la deci­ma ora”, vale a dire circa le quat­tro del pomeriggio. A cosa serve questa indicazione tem­po­rale? Forse m’incuriosisce questa frase perché sono figlio di orologiaio, ma non è l’unica ragione!
Vi sono nella nostra vita dei momenti – magari insignifi­canti per gli altri – ma per noi decisivi; talmente decisivi che si sono impressi nella nostra mente in modo indelebile. Li ricordiamo dicendo ad esempio: “Me ne ricordo, come se fosse ieri”, oppure, per sottoli­nearne l’importanza, si dice: “Mi ricordo perfettamente: eravamo in quel bosco, o in quel luogo specifico”, o ancora: “Ricordo, il cielo era nitidissimo”. Sono mezzi con i quali cer­chiamo di dire quanto un evento è stato per noi assolutamente unico.
La menzione di questa “decima ora” è di questo tipo. È un segnale dato al lettore dell’evangelo per chiedergli di non passare troppo rapidamente sull’episodio che ha appena let­to, e per dirgli: “Attenzione! C’è del senso da trovare in ciò che ho scritto!” Ma allora, quale senso?
Ricordiamo: Giovanni Battista ha designato Gesù, che era un suo discepolo, come “l’agnello di Dio”. Questo titolo evoca la Pasqua, cioè la liberazione dalla schiavitù d’Egit­to: gli ebrei avevano dovuto spargere il sangue di un agnello sugli stipiti delle loro porte per essere risparmiati dall’ultima piaga. L’agnello era il simbolo, l’immagine della libera­zione. Ecco ciò che Giovanni discerne in Gesù: è colui che viene a portare la liberazione e la salvezza.
Andrea e il suo compagno si mettono quindi a seguire Gesù che, voltatosi, chiede loro: “Che cercate?”. Sorpresi, i due non sanno troppo cosa dire: “Rabbi, dove dimori?” Per il lettore dell’evangelo, questa domanda ha poco significato, sia perché il luogo dove dimorava Gesù non ha per lui gran­de importanza, sia, soprattutto, perché in realtà egli sa, non dove Gesù dimorava, ma dove dimora: il prologo dell’evange­lo lo ha detto: “Nessuno ha mai visto Dio. L’Unigenito che è nel seno del Padre lo ha rivelato”. Ecco la dimora di Gesù: non già una qualche casa della Palestina, ma il seno del Padre: è là che Gesù abita ed è proprio là che ha condotto i due disce­poli quando ha detto loro: “Venite e vedete!”
Ma cosa significa vedere che Gesù dimora nel seno del Padre? Anzitutto ciò dice la vicinanza di Gesù rispetto a Dio; è ciò che esprimiamo con il titolo di Figlio: colui che na­sce dal seno del Padre è suo Figlio, non come lo può essere una creatura di Dio qualunque, ma in un modo specifico, per cui pur essendo pienamente uomo, come noi, egli è anche intera­mente Dio. Gesù è il paradosso per eccellenza della fede cri­stiana; non un Dio trave­stito da uomo o che fa finta di essere uomo, ma un Dio che viene a condividere in tutto la nostra realtà umana fino alla morte – e quale morte! Scandalo e fol­lia per chiunque non crede.
Ma dire di Gesù che dimora nel seno del Padre significa anche che egli esce da lui. Ora cosa esce da Dio, se non la sua Parola? Proprio come dice il Prologo dell’evangelo: il Cristo è la Parola di Dio, Parola rivolta al Padre (vale a dire in dialo­go con lui), ma parola che s’indirizza a noi, esseri umani: non in una tempesta, né con suono di tromba o di tam­buro, ma che parla al nostro cuore, con voce non lontana da noi, non al di là dei mari o dei monti, ma vicinissima: nel cuore, proprio come la voce che chiamò: “Samuele, Samuele”.
Samuele non conosceva il Signore e perciò confonde la voce che lo chiama con quella del vecchio sacerdote col quale viveva nel tempio di Silo. Niente infatti distingueva la voce divina da una voce umana; già in quella voce Dio si era fatto uomo. Ecco perché “la parola di Dio era rara”: non già per scarsità, ma per il suo valore preziosissimo; la Parola di Dio è più preziosa di una gemma, appunto perché è parola di Dio indirizzata a noi, uomini.
Ma se vi è una parola di Dio per noi, occorre ascoltarla: “Parla Signore, il tuo servo ascolta!” Ecco una parola diffi­cile, perché vorremmo sempre dire esattamente il contrario: “Ascolta Signore, perché il tuo servo parla”. Come possiamo ascoltare la parola di Dio, di colui cioè che nessuno ha mai visto ma del quale ci parla Gesù? Forse a due condizioni noi possiamo ascoltare questa parola di Dio.
La prima, assolutamente necessaria, è che occorre fare silenzio. Ora questa è una del­le cose più difficili oggi: siamo costantemente assediati da mille rumori: le macchine, i com­puter, gli apparecchi, tutto nella nostra vita è accompagnato da rumori. Non si sop­porta più il silenzio, perché il silenzio fa paura, perché ci fa credere di essere soli, mentre in realtà è proprio in quel silenzio che non siamo soli. Soli si è in mezzo ai rumori o alle folle: più gridano più dicono la nostra solitu­dine! Nel silenzio invece, stiamo davanti al Dio tre volte mi­sericordioso che ci ribadisce ciò che sempre vuol farci capire: “Io ti amo, ti amo più di me stesso”.
Fratelli e sorelle, questa proprio è la vocazione; non tan­to uno scopo da raggiungere o una missione da compiere, ma prima di tutto essere raggiunti da questa voce che ci dice l’amore infinito di Dio per noi e lasciarsi persuadère che dav­vero questa è la nostra situazione davanti a Dio.
La seconda condizione è data dal fatto che Andrea non è solo: sta con un compagno anonimo, compagno quindi che possiamo essere noi. Se la Parola di Dio si ascolta nel si­len­zio, la si ascolta anche insieme a quelli che sono stati chiama­ti come noi: insieme nella ricerca di Dio, nella vita fraterna e nella comune lettura della Scrittura, luogo per eccellen­za do­ve la Parola di Dio ci vuol raggiungere. Il silenzio non impe­disce, anzi favorisce la comunione: comunione nell’ascolto e nella gioia di scoprirci figli e figlie di Dio in Gesù, colui che è, come lo dirà più avanti nell’evangelo di Giovanni, la via – il nostro cammino – e la nostra vita. A Lui la lode e la gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.

domenica 7 gennaio 2018

Predicazione di domenica 7 gennaio 2018 (Epifania) su Efesini 2,2-12 a cura di Marco Gisola

Efesini 3,2-12
2 Senza dubbio avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami per voi; 3 come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui più sopra vi ho scritto in poche parole; 4 leggendole, potrete capire la conoscenza che io ho del mistero di Cristo. 5 Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, così come ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui; 6 vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo, 7 di cui io sono diventato servitore secondo il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù della sua potenza. 8 A me, dico, che sono il minimo fra tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo 9 e di manifestare a tutti quale sia il piano seguito da Dio riguardo al mistero che è stato fin dalle più remote età nascosto in Dio, il Creatore di tutte le cose; 10 affinché i principati e le potenze nei luoghi celesti conoscano oggi, per mezzo della chiesa, la infinitamente varia sapienza di Dio, 11 secondo il disegno eterno che egli ha attuato mediante il nostro Signore, Cristo Gesù; 12 nel quale abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui.


In questo brano non così semplice della lettera agli Efesini, che non si sa se sia dell’apostolo Paolo oppure di un suo allievo e discepolo, l’autore parla del tema che in genere è al centro del culto dell’Epifania, ovvero il fatto che la venuta di Gesù, che abbiamo celebrato a Natale, è un evento che riguarda tutti gli esseri umani. Questo è il senso della visita che fanno a Gesù i Magi, uomini che non erano ebrei, ma pagani e sono venuti da terre lontane per adorare Gesù.
Qui l’apostolo parla di un mistero che è stato rivelato: il mistero è appunto l’intenzione universale, universalistica di Dio, che ora in Cristo è diventata chiara. Potremmo qui obiettare che al pensiero ebraico questa intenzione non era sconosciuta, nel senso che i profeti parlano più volte del fatto che tutte le nazioni un giorno avrebbero riconosciuto il Dio di Israele e che Dio aveva detto che in Abramo stesso sarebbero state benedette tutte le nazioni e non solo il popolo che sarebbe nato da lui. Ma è vero che per i pagani questa è stata una enorme novità: per Dio non ci sono più distinzioni, come scrive Paolo in Romani 3(22b-24): “non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio - ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù”.
L’apostolo usa la parola mistero, ma non facciamoci spaventare da questa parola: Paolo parla di mistero solo per dire che ora non è più un mistero, perché è stato rivelato in Cristo. Rivelato vuol dire che è stato fatto conoscere da Dio attraverso la venuta di Gesù Cristo. Non c’è nulla di misterioso, c’è solo qualcosa di rivelato, non ci sono misteri da scoprire, ma solo un mistero già scoperto, appunto ri-velato, svelato. Il mistero rivelato è quello descritto al v. 6 del nostro brano: “vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo”.
Nella nostra traduzione in questo versetto ritorna tre volte l’espressione “con noi”, intendendo “con noi ebrei”. In greco il testo è più sintetico e usa le parole “coeredi” (eredi con noi), “con-corpo” (che in italiano non esiste, ovviamente, per questo è stato tradotto “membra con noi di un medesimo corpo”), e “compartecipi” della promessa.
Vorrei fermarmi un attimo su queste tre parole:
1. Co-eredi: eredità è il termine che ritorna più volte nell’AT per indicare le benedizioni di Dio per il suo popolo. Immaginiamo un pagano che un bel giorno riceve la comunicazione che ha ricevuto un’eredità. Ma come un’eredità? Il pagano non sa da chi potrebbe ricevere un’eredità. La persona che gli ha lasciato l’eredità non è un parente, nemmeno lontano! Fuori di metafora, i pagani non si attendevano nulla dal Dio di Israele, perché era il Dio di Israele! Loro avevano altri dèi; quella eredità non era loro diritto, per i pagani è stato un puro dono.
E come la mettiamo allora con gli ebrei? Mentre qualcuno diceva ai pagani che avevano ricevuto un’eredità inattesa, doveva anche dire agli ebrei che la loro eredità non era più soltanto loro, ma era anche di qualcun altro. La grossa differenza con le eredità “normali”, ovvero materiali, è che questa eredità, se gli eredi sono due anziché uno, non si divide, ma rimane uguale per tutti, anzi quasi si potrebbe dire che si moltiplica. Se gli eredi sono mille o un milione, l’eredità non viene divisa, perché è la stessa per tutti. Non è che dividi l’eredità con qualcun altro, ma con-dividi l’eredità con qualcun altro, che è co-erede con te, potremmo dire che godi dell’eredità con qualcun altro. E questo è un “di più”, non un “di meno”. Ebrei e pagani, dunque, eredi tutti insieme.

2. la seconda parola, in greco, è con-corpo, che in italiano non esiste ma che rende bene l’idea. Nella nostra Bibbia questa parola è tradotta “membra con noi di un medesimo corpo” e nel nuovo NT della Riforma “parte dello stesso corpo”. “Con-corpo” vuol dire che siamo corpo insieme, che ebrei e pagani sono insieme quello che Paolo in altre lettere chiama “corpo di Cristo”. Dal punto di vista ebraico, l’umanità si divideva in ebrei e pagani; ora le due parti sono unite. Se manca una delle due parti – ebrei e pagani – al corpo manca un pezzo. Solo insieme il corpo è completo. “Con-corpo” è un’espressione molto forte; significa che queste due grandezze – ebrei e pagani – in Cristo non solo sono unite, ma sono inseparabili.
Sappiamo dal Nuovo Testamento che ovviamente non tutti gli ebrei credettero in Cristo e tanto meno tutti i pagani, ma qui non si tratta di avere per forza tutti gli esseri umani inclusi nel corpo di Cristo, ma di non aver nessuno escluso a priori. “Con-corpo” significa che nessuno è escluso, che si è corpo insieme e che nessuno è escluso dall'essere parte di questo corpo.

3. la terza parola è “compartecipi” della promessa. Tutto si fonda sulla promessa che Dio ha fatto in Cristo e prima ancora aveva fatto al suo popolo. Questa promessa ora non è più limitata al popolo ebraico, ma è per tutti. Gesù porta a compimento questa promessa, che ora è per tutti. È la promessa che ti rende partecipe dell’eredità, è la promessa che ti inserisce nel corpo di Cristo. Ma non soltanto tu ebreo, ma anche l’altro, il pagano. E non soltanto tu, pagano, ma anche l’altro antico erede, l’ebreo.

In tutte e tre queste espressioni, in tutte e tre queste parole, la grande novità è che ora c’è l’altro. Per l’ebreo l'altro è il pagano, per il pagano l'altro è l’ebreo. Il risultato è lo stesso per entrambi: ora c’è l’altro. L’altro che non conoscevi, l’altro su cui avevi pregiudizi, l’altro che ti sembrava e forse ti sembra ancora diverso e distante. Ora è qui “con te”, coerede, con-corpo, compartecipe.
Questa è la novità del cristianesimo: l’altro non è più altro, ma è con te, a volte accanto a te, a volte di fronte a te, ma non è più senza di te e tu non sei più senza di lui. Questa è la meraviglia e la difficoltà della vita cristiana: che l’altro non è più a priori fuori dalla mia vita, ma è “con me”, “con noi”. E io non sono più fuori dalla vita dell’altro, ma sono con lui, e lui è con me.

Tutto questo, secondo l'apostolo, avviene “mediante il vangelo, di cui io sono diventato servitore secondo il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù della sua potenza”. Attraverso l’evangelo avviene tutto questo, attraverso l’evangelo predicato, ascoltato, praticato avviene proprio questo miracolo: che l’altro non è più altro, non è più lontano, non è più diviso da te.
L'evangelo è questo cammino che avvicina, che unisce. Come i Magi, che hanno fatto un lungo cammino per arrivare da Gesù, hanno percorso migliaia di chilometri per non essere lontani e divisi da Gesù quando è nato, ma per essergli vicini e uniti.
È un lungo cammino, quello che unisce e avvicina. Un cammino che ci è dato di percorrere e ci è chiesto di percorrere, che a volte è faticoso, perché non è detto che l’altro abbia così tanta voglia di essere vicino e unito a noi, o che voglia essere vicino e unito nel modo in cui noi lo intendiamo. È un cammino lungo e faticoso, ma è il cammino che è tracciato dall’evangelo.
Di questo evangelo, scrive l’autore di questa lettera, “io sono diventato servitore”. Egli “serve” questo evangelo, vive al servizio di questa buona notizia, che nessuno è escluso, che il muro di cui ha parlato nel cap. 2 (14) è crollato, non può più dividere. L’apostolo si chiama “il minimo fra tutti i santi” e noi siamo ancora più minimi di lui. Ma anche a noi è dato non solo il dono di vivere questo evangelo, di vivere la realtà che questa buona notizia ci dà, ma ci è dato anche il compito di annunciarlo, di esserne servitori.
Per questo esiste la chiesa: in primo luogo per essere il corpo (o il “con-corpo”) che Dio ha creato nella fede in Cristo e di cui i credenti sono membra, e in secondo luogo per essere la servitrice di questo evangelo, di questa promessa, di questa Parola.
L’apostolo conclude: “Abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui”, cioè in Cristo. Tutti e tutte, nessuno escluso, abbiamo questa libertà, che non va intesa come un diritto, ma come un dono, il dono di essere anche noi coeredi, anche noi con-corpo, anche noi compartecipi della promessa di Dio, rivelataci nell’evangelo.
In Cristo, anche noi, con tutti gli altri e non senza l’altro, abbiamo la libertà e il dono di poterci accostare a Dio con piena fiducia. È questo che oggi celebriamo nella festa dell’Epifania ed è per questo dono che ringraziamo il Signore.