domenica 25 febbraio 2018

Predicazione di domenica 18 febbraio 2018 (festa del XVII Febbraio) su Giovanni 8,31-36 a cura di Marco Gisola

Giovanni 8,31-36
31 Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; 32 conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33 Essi gli risposero: «Noi siamo discendenti d'Abraamo, e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come puoi tu dire: "Voi diverrete liberi"?» 34 Gesù rispose loro: «In verità, in verità vi dico che chi commette il peccato è schiavo del peccato. 35 Ora lo schiavo non dimora per sempre nella casa: il figlio vi dimora per sempre. 36 Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi.


In questo denso dialogo che ci riporta l’evangelista Giovanni, Gesù ci dà una grande lezione sulla libertà, che è sempre il tema al centro delle nostre riflessioni nel culto del XVII febbraio.
C’è una libertà che si pensa di avere, che ci si illude di avere, che è un’illusione, che è quella che spinge gli interlocutori di Gesù a dire: «Noi siamo discendenti d'Abraamo, e non siamo mai stati schiavi di nessuno». Noi siamo già liberi, lo siamo perché apparteniamo al popolo che Dio stesso si è riscattato liberandolo dalla schiavitù di Egitto.
In sé, non si più certo dire che avessero tutti i torti: la libertà che Dio aveva guadagnato al popolo ebraico, schiavo in Egitto, era una delle caratteristiche principali che ha segnato il rapporto tra Dio e il suo popolo: Dio aveva donato la libertà e aveva donato al popolo anche i mezzi per viverla, ovvero la terra e la Torah, che contiene le istruzioni per vivere e mantenere la libertà una volta che fossero entrati nella terra promessa.
Tutto ciò era sacrosanto, purché questa libertà non diventasse un fatto acquisito, scontato. Purché non diventasse una proprietà e non si cadesse nell’errore di pensare di non avere più bisogno di essere liberati, perché “tanto siamo già liberi e non siamo mai stati schiavi di nessuno...”.
In questo errore cadono gli interlocutori di Gesù e in questo errore spesso rischiamo di cadere anche noi: quello di pensare che la nostra libertà sia un dato acquisito, sia un fatto che nessuno può toglierci, quasi un dato naturale o storico: con la nostra storia di valdesi perseguitati, figurati se non sappiamo che cosa sia la libertà…!
La libertà non è mai scontata. Non lo è quella civile, e i recenti fatti di violenza razzista e di richiami al fascismo lo dimostrano. E non lo è quella spirituale, come dice Gesù, perché «chi commette il peccato è schiavo del peccato». Da questa schiavitù del peccato, che ci separa da Dio e dal prossimo, non ci liberiamo da soli.
Non è una nostra proprietà la libertà, e non è nelle nostre possibilità la liberazione. Non ci liberiamo da soli, abbiamo bisogno di essere liberati, abbiamo bisogno di un liberatore.
E infatti: «la verità vi farà liberi». O ancora: «Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi». I verbi sono sempre al futuro: vi farà liberi, sarete veramente liberi… Questa parola di Gesù ci viene a dire oggi, che celebriamo le festa della libertà, che la libertà è sempre e solo un dono, che la possiamo solo e sempre ricevere, mai avere e possedere.
E questo, di nuovo, è vero per la libertà civile, quella che parla dei diritti civili, dei diritti umani; ed è vero a maggior ragione per la libertà spirituale, per la libertà dei figli di Dio.
La verità vi farà liberi”, dice Gesù. Cioè non siete liberi, non siete naturalmente liberi. Naturalmente siete schiavi. Siamo schiavi di noi stessi e della nostra miopia, che ci impedisce di vedere oltre noi stessi.
Ma cadiamo poi facilmente in molte altre schiavitù: possiamo diventare servi di un leader, di un capo, di una ideologia (che è spesso portata avanti da un capo)… E quanti, illudendosi di essere liberi, diventano schiavi di una qualche dipendenza, dal gioco, dall’alcol, da altre sostanze…!
Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi. Perché si può essere falsamente liberi, credere di essere liberi, ma in realtà essere schiavi. Chi passa le sue giornate davanti alle slot machines, giocandosi tutto ciò che ha e riempiendosi di debiti, è convinto di essere libero nelle sue scelte.
Il peccato è subdolo: ci rende schiavi dandoci l’illusione di essere liberi. Ma proprio l'illusione di essere liberi, di “possedere” la libertà, è il primo sintomo della nostra schiavitù. C’è bisogno di qualcuno che ci renda liberi, che ci dia la libertà.
La verità vi farà liberi”, dice Gesù: e la verità è lui stesso, è lui la parola incarnata e vera che Dio pronuncia su di noi. Essa è allo stesso tempo parola di giudizio, che scoperchia la menzogna della nostra finta libertà travestita da egoismo e indifferenza, e parola di grazia che ci dona la vera libertà, perché ci libera da tutti i padroni che possiamo avere.
Potremmo dire: non siamo liberi, ma siamo liberati, e siamo liberi solo nella misura in cui Dio continua a liberarci. Siamo liberi solo nella misura in cui non pensiamo di “avere” la libertà, ma siamo consapevoli di aver bisogno della liberazione del Signore.


E come fa a darci la libertà? Gesù ci dice qual’è la strada: «Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».
Perseverare nella sua parola è la prima cosa da fare per ridiventare liberi ogni giorno, per ricevere ogni giorno la libertà dei figli di Dio.
Frequentare la Parola equivale a frequentare una scuola di libertà. Questo la Riforma ce lo ha insegnato chiaramente. Nell’anno di celebrazioni del cinquecentenario della Riforma si è parlato molto della libertà di Lutero, che si è sentito libero di disobbedire al papa e all’imperatore, perché la sua coscienza era prigioniera della Parola di Dio.
L’anno di celebrazioni è finito – ed è giusto che sia finito, è stato un bel momento ma non si può celebrare all’infinito – ma forse il modo migliore per continuare a celebrare la Riforma è ritornare con entusiasmo alla scuola della Parola, da cui tutto ha avuto inizio.
La nostra libertà non la troviamo dentro di noi, non la troviamo nemmeno nella nostra storia, ma la troviamo soltanto in quella parola in cui siamo chiamati a perseverare.
Perseverando in quella Parola troveremo la nostra libertà, perché ci troveremo prima tutte le nostre schiavitù. Specchiandoci in essa e in ciò che essa ci racconta, troveremo le nostre schiavitù. Troveremo la schiavitù del nostro orgoglio nella storia del fariseo che va a pregare ringraziando di non essere come gli altri.
Troveremo la schiavitù della nostra pigrizia nel racconto del figlio che dice di voler andare a lavorare nella vigna ma poi non ci va. Troveremo la schiavitù della nostra invidia nella storia dei lavoratori della prima ora che si lamentano perché quelli dell’ultima ora hanno guadagnato tanto quanto loro.
Troveremo la schiavitù della nostra indifferenza nel comportamento del sacerdote e del levita che passano oltre l’uomo ferito e per evitarlo si spostano sull’altro lato della strada.
Frequentare la Parola di Dio è come frequentare un buon medico, che per prima cosa fa una diagnosi della malattia. Nella Parola troviamo la diagnosi della nostra schiavitù, che è il giudizio sul nostro peccato che ci rende schiavi.
Ma come un buon medico non si limita a fare la diagnosi, ma cura poi anche la malattia, così la Parola di Dio non si limita al giudizio ma pronuncia anche la parola di grazia, cioè di liberazione.
Per poter avere la cura bisogna però accettare la diagnosi, ovvero fare nostro il giudizio che Dio pronuncia su di noi e potere così accogliere la Parola di grazia.
La parola di grazia è che il nostro orgoglio, la nostra pigrizia, la nostra invidia, la nostra indifferenza non hanno l'ultima parola, che c’è una possibilità di riscatto da tutte queste colpe, perché l’amore di Dio ci offre una nuova possibilità, ovvero ci dona la libertà di poter ritentare di essere come Dio ci vuole.
Questo significa frequentare la scuola della Parola: dietro questo invito di Gesù c’è la ferma fiducia che quella parola – che è poi stata raccolta nella testimonianza degli apostoli e dei profeti – può trasformarci: come l’acqua scava la roccia su cui cade goccia dopo goccia, così la Parola di Dio vuole fare con le nostre vite, scavandole e trasformandole.
«Perseverate nella mia parola… conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Perseverando nella Parola di Dio conosceremo la verità innanzitutto su di noi, sulle nostre piccolezze e sulle nostre piccole schiavitù, che noi non vorremmo neppure vedere.
Conosceremo quanto è illusorio pensare di liberarci da noi stessi, e quanto siamo illusi se pensiamo di essere naturalmente liberi.
Ma verremo anche a scoprire che la libertà ci è offerta, donata, in Cristo, che ce l’ha guadagnata a caro prezzo, a prezzo della sua vita.
E che da lì, da questo dono immeritato e gratuito, tutto può ricominciare: da lì può ricominciare la nostra fede, la gioia, la nostra speranza e anche la nostra libertà.


domenica 4 febbraio 2018

Predicazione di domenica 4 febbraio 2018 su 2 Corinzi 12,1-10 a cura di Marco Gisola

2 Corinzi 12,1-10

1 Bisogna vantarsi? Non è una cosa buona; tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore.
2 Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa (se fu con il corpo non so, se fu senza il corpo non so, Dio lo sa), fu rapito fino al terzo cielo. 3 So che quell'uomo (se fu con il corpo o senza il corpo non so, Dio lo sa) 4 fu rapito in paradiso, e udì parole ineffabili che non è lecito all'uomo di pronunciare. 5 Di quel tale mi vanterò; ma di me stesso non mi vanterò se non delle mie debolezze. 6 Pur se volessi vantarmi, non sarei un pazzo, perché direi la verità; ma me ne astengo, perché nessuno mi stimi oltre quello che mi vede essere, o sente da me.
7 E perché io non avessi a insuperbire per l'eccellenza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi affinché io non insuperbisca. 8 Tre volte ho pregato il Signore perché l'allontanasse da me; 9 ed egli mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. 10 Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte.


Oggi incontriamo un brano che è tra i più densi di quelli dell’apostolo Paolo. Denso sia per quello che Paolo dice su di sé, sia perché in questo brano incontriamo una confessione di fede di Paolo che è incredibilmente esistenziale, che ci dice come la fede segna in profondità l’esistenza dell’apostolo.
Il contesto è polemico, come accade in diversi brani delle sue lettere. Paolo si deve difendere dalle accuse che gli venivano rivolte. Nel capitolo 11 Paolo introduce il tema del “vantarsi” e dice – in un brano in cui afferma di parlare “da pazzo” - che lui avrebbe molto di cui vantarsi. Ha da vantarsi innanzitutto del fatto di essere un ebreo “doc” e poi avrebbe da vantarsi anche di tutto ciò che ha subito per il fatto di essere un servitore di Cristo: «Spesso sono stato in pericolo di morte. … Spesso in viaggio, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli; in fatiche e in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità...
E non solo: nel brano che abbiamo letto ora, Paolo racconta, unica volta nelle sue lettere, il suo rapimento al terzo cielo. Inutile speculare su quale tipo di esperienza sia stata questa che Paolo ha vissuto. È un riferimento a quella rivelazione che Paolo ha avuto e di cui non sapremo mai come sia veramente andata. Quello che ci interessa qui, e interessa a noi per è quello che interessa a Paolo, è che lui di questa esperienza non si vuole vantare. Anzi, ne parla come se fosse accaduto a un altro: «Di quel tale mi vanterò». Ma è chiaro che quel tale è lui, ma ne parla come fosse un'altra persona: «ma di me stesso – dice - non mi vanterò se non delle mie debolezze».
Ecco qui la parola chiave: debolezza. Paolo non vuole vantarsi se non della sua debolezza. Uno che ha sofferto tutto quello che Paolo ha appena descritto – percosse, prigionia, fame, freddo…. - potrebbe vantarsi di averle superate tutte una per una, potrebbe vantarsi della forza che ha avuto per superare tutte quelle difficoltà. E invece no: delle mie debolezze mi vanterò. Non di altro. Di più: Paolo ha quella “spina nella carne” che non si è mai capito veramente che cosa fosse, forse una malattia, un dolore fisico costante. E ha chiesto a Dio di eliminargliela, ma la sua preghiera è rimasta inascoltata.
Il senso di tutto ciò è nelle parole che Paolo scrive alla fine del brano che abbiamo letto: Egli [Dio] mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte.
Ecco il culmine teologico ed esistenziale del discorso: sono debole, ho patito molto, ho una spina nella carne, ma di questo mi “vanto”, non per suscitare compassione o tenerezza, ma perché proprio qui, nella mia debolezza, si rivela la potenza di Cristo. La mia debolezza – dice Paolo – è il luogo che Dio sceglie per far riposare la potenza di Cristo.
Non perché io abbia qualche merito perché Dio faccia questo, anzi, Dio ha dovuto convertirmi, rivoltarmi come un calzino perché ero un persecutore dei cristiani. Ma semplicemente perché Dio mi ha scelto, mi ha reso debole – io che mi credevo forte – per far riposare su di me la potenza di Cristo; che è la potenza della croce.
Dove si è rivelata al suo massimo grado la potenza dell’amore di Dio? Sulla croce, nel luogo in cui apparentemente l'unica cosa visibile era la estrema e totale debolezza umana, sconfitta dalla forza della religione e dell’impero romano. La croce ci mostra che Dio si manifesta nella debolezza, non nella forza. «la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza» dice Dio a Paolo, che quindi può dire: «quando sono debole, allora sono forte». Parola di Dio da un lato, parola di Paolo dall’altro.
Parola di Dio: «la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Parola di Paolo: «quando sono debole, allora sono forte». Evangelo e esistenza umana che si incontrano e si incrociano nella potenza di Dio che si rivela nella debolezza umana.
Facciamo fatica a comprendere il discorso di Paolo. Almeno, io faccio fatica ad accettarlo fino in fondo. Faccio fatica perché è un paradosso (un paradosso è un’affermazione che va contro la logica comune): come facciamo a mettere insieme la forza e la debolezza? O c’è l’una o c’è l’altra…! E come faccio a mettere insieme Dio e la croce? Dio e la morte? Dio e la sconfitta di Dio? Sono cose che, secondo la logica umana, non stanno insieme. Eppure da quel giorno in cui Gesù è stato crocifisso, Dio si rivela nel paradosso. Il paradosso della croce, Paolo parlerà della pazzia della croce.
Gesù è morto debole, come è nato debole ed è vissuto debole. Gesù si è fatto debole, ma non perché si divertisse a fare così, si è fatto debole per stare con i deboli e dalla parte dei deboli, per manifestare, nella sua debolezza, la potenza di Dio. Gesù ha preso su di sé tutta la debolezza umana, per affidarsi completamente alla potenza di Dio.
La potenza di Dio non ha zittito chi urlava “crocifiggilo!”; non ha allontanato chi lo scherniva; e non ha fermato chi lo crocifiggeva. La potenza di Dio non ha schiacciato chi voleva la morte di Gesù e non ha eliminato chi voleva ucciderlo. La potenza di Dio non ha annientato l’oppressore, ma ha risuscitato la vittima. Per questo la potenza di Dio si dimostra perfetta nella debolezza. Perché non è la forza che annienta, ma è la forza che riconcilia; non è la forza che sconfigge, ma è la forza che libera. L’evangelo ci dice che Dio chiama dei deboli a essere suoi discepoli e sue discepole. Chiama dei deboli e li riveste della sua forza, che non è la forza del “quanto”, non è la forza del potere, delle armi, del successo, ma è la forza della liberazione e della riconciliazione.
Non è una parola facile da accogliere, perché è troppo rivoluzionaria per la nostra vita. Tutto intorno a noi spinge a essere forti, e a contare sulle proprie forze. Nella nostra società ciò che conta è il “quanto”: Quanta forza si ha, quanti soldi si hanno, quanto successo si ha, quanti amici si hanno su facebook…, e così via. Anche noi, nelle nostre chiese, siamo spesso portati a contare quanti membri di chiesa abbiamo, quante persone vengono al culto, quante persone ci sono alle nostre attività...
Questa parola ci dice che invece Dio ci chiama proprio in quanto deboli e attraverso la nostra debolezza vuole annunciare la sua forza. Non è dunque necessario che tentiamo di essere forti, non è necessario che cerchiamo la nostra forza e contiamo sulla nostra forza. Anzi: cercare la forza ci allontana da Dio, che cerca e sceglie i deboli. Non preoccupiamoci quindi del “quanto abbiamo” o del “quanti siamo”, ma della riconciliazione e della liberazione che Dio ci chiede di annunciare. Preoccupiamoci di quante occasioni abbiamo nella nostra vita di annunciare la liberazione dei deboli dalla forza e dalla prepotenza dei forti. Anche la nostra debolezza può diventare strumento della forza riconciliatrice di Dio.
Quando sono debole, allora sono forte, dice Paolo. La mia vera debolezza diventa vera forza nelle mani di Dio. Non è la forza umana del potere, dei soldi, del successo, ma è la forza di Dio, la forza della fede, la forza del perdono, la forza della speranza, la forza della libertà.
Non temiamo la nostra debolezza, non vergogniamoci della nostra debolezza, piuttosto mettiamola nelle mani di Dio, che anche a noi dice: «la mia grazia ti basta». E ci insegni a rispondergli con fiducia: sì, è vero Signore, la tua grazia mi basta. E la tua grazia, che mi basta, faccia riposare la tua potenza di perdono, di liberazione, di riconciliazione sulla mia debole vita e sulla mia debole chiesa.
Di altro non ho bisogno, perché in Te e soltanto in Te «quando sono debole, allora sono forte».