mercoledì 30 aprile 2008

martedì 29 aprile 2008

Frammenti e riflessi di memoria

Dialogo Interreligioso

Prefettura di Biella
Ufficio Territoriale del Governo
COMUNICATO STAMPA

Dialogo interreligioso: nuova iniziativa coordinata dal Tavolo istituito presso la Prefettura di Biella


Si è tenuta nei giorni scorsi in Prefettura una riunione del Tavolo permanente per il dialogo interreligioso per la promozione di una iniziativa ideata dall’Associazione Amici del Vernato.
Durante l’incontro che si è svolto con la partecipazione dei principali esponenti delle comunità religiose presenti sul territorio, dopo una breve relazione dei rappresentanti dell’Associazione è stato definito il programma dell’evento.
La manifestazione prevede un mostra fotografica sulle grandi religioni dal titolo “I colori di Dio” che si terrà nella Chiesa di San Nicola situata in Costa del Vernato di Biella dal 5 all’11 maggio 2008.
In occasione dell’inaugurazione che avrà luogo domenica 4 maggio alle ore 20.30 presso la Chiesa di San Nicola stessa, si svolgerà una tavola rotonda cui parteciperanno alcuni componenti del Tavolo per il dialogo interreligioso istituito presso la Prefettura di Biella e loro delegati per riflettere sul tema ciascuno secondo il proprio punto di vista religioso.
Al termine delle relazioni vi sarà spazio per gli interventi del pubblico e per un breve dibattito.
La mostra, curata da Enrico Mascheroni, autore delle fotografie che prenderà anche parte all’incontro di domenica 4 maggio, sarà illustrata in un catalogo contenente la presentazione del Cardinale Carlo Maria Martini.

Biella, 22 aprile 2008

L’addetto stampa
(dr.ssa Cristina Lanini)

giovedì 24 aprile 2008

25 aprile

Diapositive (a colori) della 2a brigata d'assalto Garibaldi "Ermanno Angiono (Pensiero)"

Fotografie di Carlo Buratti
Proprietà Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli

Ascolta un libro

Le novelle marinaresche di mastro Catrame
Emilio Salgari

Introduzione (formato Mp3)
Un lupo di mare (formato Mp3)
Il vascello maledetto (formato Mp3)
Il passaggio della linea (formato Mp3)
La campana dell'inglese (formato Mp3)
La croce di Salomone (formato Mp3)
I fantasmi dei mari del Nord (formato Mp3)
I fuochi misteriosi (formato Mp3)
Il vascello dei topi (formato Mp3)
Le sirene (formato Mp3)
Il serpente marino (formato Mp3)
Le murene (formato Mp3)
La nave-feretro sul mare ardente (formato Mp3)
L'apparizione del naufrago (formato Mp3)

mercoledì 23 aprile 2008

PORRAJMOS [a forza di essere vento]

Uno sterminio dimenticato

martedì 22 aprile 2008

Testamento Biologico

Intervento del pastore valdese Sergio Manna all'incontro del 18 aprile a Chivasso
Considerazioni etiche e teologiche in una prospettiva protestante

1. Premessa
Esiste un’etica rivelata e assoluta?
Quando si affrontano problematiche di carattere etico in una prospettiva protestante si rende necessaria una premessa fondamentale:

“le chiese riformate, sul piano dell’etica non ritengono di poter esprimere, una volta per tutte, parole definitive, né di poter desumere dalla Bibbia (confronto centrale e ineludibile per una comunità cristiana) risposte semplificate a tutti gli interrogativi che situazioni, conoscenze, civiltà diverse pongono di tempo in tempo alla coscienza dei credenti.” (Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza, 1999).

Data questa premessa, si possono però identificare alcuni orientamenti di carattere generale.


2. Linee guida per una riflessione etica e bioetica in una prospettiva evangelica
La Didachè.
La Regola d’oro.
Il comandamento dell’amore e l’etica della responsabilità.

Cosa può caratterizzare un’etica dal punto di vista cristiano?
La Didaché, antico testo della chiesa dei primi secoli, una sorta di manuale pratico di vita cristiana, redatto intorno agli anni 70-80 afferma: “Le cose che tu non vorresti fossero fatte a te non farle neppure tu agli altri” (I,3).
Mi pare un buon punto di partenza per una riflessione etica e bioetica.
Accanto a questa massima vi sono poi, in ambito evangelico, almeno due parole di Gesù che possono guidare la nostra riflessione:
“ama il prossimo tuo come te stesso” (Marco 12,31) e “come volete che gli uomini facciano a voi, fate voi pure a loro” (Luca 6,31).
Queste parole, tradotte in senso laico, potrebbero essere parafrasate in questo modo: “Sii responsabile verso il tuo prossimo come lo sei verso te stesso”, “Cerca il bene del tuo prossimo così come cerchi il tuo bene”.
Sappiamo che alla domanda “chi è il mio prossimo?”, Gesù rispose con la parabola detta del buon samaritano (Luca 10,25-33) come a ricordarci che il prossimo è anche il diverso, colui o colei che non la pensa come me, che ha un altro sistema di credenze e di valori. Se questo è vero, allora un’etica cristiana, nello spirito evangelico, non si prefiggerà di imporre regole elaborate all’interno di una specifica comunità di fede all’intera collettività, secondo un modello cosiddetto “integralista”.
Un’etica cristiana, nello spirito evangelico, sarà chiamata a tener conto della diversità di fedi e di culture, come anche dell’eventuale assenza di fede. L’obiettivo non sarà la trasformazione in leggi dello Stato di orientamenti e norme elaborate nell’ambito di una specifica chiesa, bensì la ricerca di un consenso tra soggetti diversi in vista di una migliore convivenza [eventuale citazione da Bioetica, Claudiana, 1998, p.46].
Tale consenso non andrà ricercato sul piano dei principi ultimi, quanto, piuttosto, sul piano delle attuazioni pratiche.


3. Tecnologia e umanizzazione della sanità
Esiste ancora la morte “naturale”?
Uso e abuso delle moderne tecnologie: prolungamento della vita o prolungamento dell’agonia?
Vita biologica e vita biografica.
Alcuni casi clinici per farci riflettere.
Viviamo in un’epoca nella quale tecnologie sempre più sofisticate ci permettono di prolungare, fino all’inverosimile, delle esistenze che per vie “naturali” si sarebbero già concluse da lungo tempo, e, in molti casi, vale la pena di chiedersi se si tratti veramente di prolungamento della vita o se non sia, piuttosto, prolungamento dell’agonia (esporre il caso del marito di Maria).
Sono molti i casi clinici e umani che potrebbero aprirci gli occhi, le menti e i cuori sulla necessità di batterci affinché le direttive anticipate diventino una realtà anche in Italia._


4. Che cosa è terapeutico?
Curare e prendersi cura.
Approccio olistico.
No ad una concezione salvifica del dolore.
La prassi di Gesù.

Il verbo greco therapeuo, dal quale viene la parola terapia, vuol dire prendersi cura, e per prendersi veramente cura di qualcuno bisogna rispettarlo, non privarlo della sua dignità.
Curare significa, allora, guardare alla persona integralmente, non ridurla alla parte malata del suo corpo.
Sono stato cappellano clinico per diversi anni, ma sono stato in ospedale anche come paziente diverse volte, e nelle corsie degli ospedali ho continuato a sentire come i pazienti, troppo spesso, venissero menzionati non con i loro nomi, bensì con il nome del loro organo malato: “Il fegato della stanza 8”, “il pancreas della stanza 12”, etc..
Ecco, la persona ridotta a patologia, la sua identità definita a partire dalla parte malata del suo corpo, la biografia annullata dalla biologia.

Curare e prendesi cura vuol dire anche cercare di lenire il dolore.
Ma nel nostro Paese il dolore fisico non viene adeguatamente trattato. In uno studio del 2002 l’Italia era al 101esimo posto nel mondo per somministrazione di morfina ai malati gravi, subito dopo l’Eritrea.
Non credo che le cose siano molto cambiate negli ultimi anni. Sebbene la morfina sia il farmaco più efficace nella terapia del dolore, siamo ancora scandalosamente indietro nel suo utilizzo. Si preferisce, quando va bene, l’utilizzo della codeina, che ne è un derivato ma non ne ha la stessa efficacia e talvolta costa addirittura di più.
Tutto ciò è scandaloso e, così come per il testamento biologico, richiede una battaglia di civiltà.
Noi protestanti non crediamo nella concezione salvifica del dolore.
Chi passa abbastanza tempo nelle corsie d’ospedale sa che il più delle volte il dolore non suscita la fede, ma la fa perdere.
In una prospettiva evangelica noi guardiamo alla prassi di Gesù, che ovunque ha incontrato il dolore sulla sua strada ha cercato di guarirlo, di curarlo.
Ed è significativo che il verbo usato nel vangelo di Matteo per i miracoli di Gesù è proprio therapeuo, che vuol dire prendersi cura.


5. Il Testamento biologico: una questione di civiltà_
Contraddizione tra l’assenza di una legge in materia e le affermazioni della Costituzione, del Codice di Deontologia Medica e della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina.

Sono sempre più convinto che quella del testamento biologico è una questione di civiltà. Da pastore, da cappellano ospedaliero, ma anche da semplice cittadino, non posso non che vedere favorevolmente l’introduzione, anche nel nostro Paese, di una legge sul testamento biologico, rispetto alla quale siamo spaventosamente in ritardo e perfino in contraddizione con la nostra stessa Costituzione_, con il Codice di Deontologia Medica (versione del 16/12/2006)_ e con la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina (1997, art. 9)_.

Le obiezioni degli oppositori del testamento biologico.
Loro confutazione.
I benefici del testamento biologico:
a. per il paziente
b. per i familiari
c. per gli operatori sanitari.

La mia esperienza di cappellano clinico e di pastore mi ha portato alla convinzione che il testamento biologico potrebbe aiutarci ad evitare il moltiplicarsi di tante situazioni di inutile sofferenza.

Quello che dovrebbe essere un diritto per ciascuno di noi, una questione di civiltà, è purtroppo diventato oggetto di scontro tra fazioni le cui motivazioni sono spesso dettate più da ragioni di calcolo politico che di vero interesse per la persona umana.

Gli oppositori del testamento biologico avanzano generalmente due obiezioni all’utilizzo di questo prezioso strumento:

1. Lo scarto che potrebbe intercorrere tra volontà espressa al momento della redazione del testamento biologico e volontà attuale della persona.

2. Il testamento biologico sarebbe un modo surrettizio di introdurre l’eutanasia.

A queste obiezioni non è difficile replicare.
In primo luogo, anche il testamento biologico, come ogni testamento, è modificabile e riscrivibile in ogni momento.
In secondo luogo, il numero di situazioni che oggi pongono il problema se sia lecito o no “staccare la spina” (ad esempio il caso di Eluana Englaro) si ridurre notevolmente se le persone, o i fiduciari nominati dalle stesse, potessero scegliere in precedenza di non attaccare affatto la spina.

In luogo di quelle obiezioni, prive di fondamento, sarebbe allora molto più utile ed auspicabile una riflessione pacata e attenta su quelli che potrebbero essere i benefici del testamento biologico, non soltanto per chi lo redige, ma anche per i familiari e per gli operatori sanitari, chiamati sempre più spesso a confrontarsi con dei veri e propri dilemmi etici.

I benefici per il paziente sono evidenti: dignità, rispetto e tutela della propria volontà espressa.

I benefici per i familiari consistono: nella consapevolezza di rispettare la volontà del proprio caro, nella riduzione del peso emotivo delle decisioni di cui non si è certi, nel prevenire conflitti e fratture tra familiari di opinioni opposte.

I benefici per gli operatori sanitari, che molto spesso si trovano di fronte alle pressioni di familiari, divisi tra loro sul da farsi, consistono: nel potersi appellare alla volontà espressa dal paziente, nell’essere liberati, ad esempio anche dal dilemma se dire o no la verità al paziente (dal momento che il paziente stesso avrà dichiarato nella sua carta di autodeterminazione se vorrà essere informato o meno delle sue reali condizioni).




Dr. Sergio Manna
Pastore valdese
Supervisor in Clinical Pastoral Education
(College of Pastoral Supervision and Psychotherapy)
pastoraleclinica@chiesavaldese.org

Cfr. il caso di Eluana Englaro, in stato vegetativo permanente in seguito ad incidente stradale avvenuto il 18 gennaio del 1992 e tenuta artificialmente in vita, nonostante il parere contrario dei genitori. La British Medical Association e la American Academy of Neurology sostengono che, in casi come questi, sia lecito sospendere la nutrizione e l’idratazione artificiale perché prolungare la sopravvivenza oltre i dodici mesi sarebbe accanimento terapeutico. Eluana è rimasta in quello stato già per sedici anni.

Fin dai primi anni ’90 veniva distribuito ai pazienti dell’Ospedale Evangelico Villa Betania di Napoli un modulo di testamento biologico elaborato dall’allora cappellano, il pastore evangelico battista Massimo Aprile. Ne esistono oggi altri ottimi esempi su internet.

Art. 32: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
_ Autonomia del cittadino e direttive anticipate : « Il medico deve attenersi, nell'ambito dell'autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa dalla persona di curarsi, e deve agire nel rispetto della dignità, libertà, autonomia della stessa». « Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso, in modo certo e documentato » (art. 38 co. 1 e 3).
«I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione» (art.38).

TEMI DI ATTUALITA': insegnamento della religione a scuola

Ora di religione e crediti formativi

Domenico Maselli, presidente della FCEI: "Così si crea una diseguaglianza"

Come ogni anno il Ministero della Pubblica Istruzione ha emanato un'ordinanza relativa agli esami di Stato. E, come era già accaduto nel 2007, vi si afferma che in sede di scrutinio finale gli insegnanti di religione "partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l'attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento". E gli altri? L'ordinanza precisa che il credito sarà riconosciuto anche agli studenti che hanno frequentato l'ora alternativa o hanno realizzato un percorso di "studio individuale" certificato e valutato dalla scuola. Potranno avere un riconoscimento dei crediti anche gli studenti che abbiano partecipato a iniziative formative "certificate" in ambito extrascolastico.
"Il problema della diseguaglianza tra gli studenti che si avvalgono dell'IRC e gli altri resta comunque – afferma Domenico Maselli, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) -. Infatti sappiamo bene che tranne pochissime eccezioni non esistono corsi 'alternativi' all'IRC, né programmi organici per un lavoro individuale che possa essere riconosciuto. Quanto ai crediti per le attività extrascolastiche, riguardano tutti gli studenti, anche quelli che si avvalgono dell'IRC. Insomma - prosegue Domenico Maselli - comunque la si metta, gli studenti che si avvalgono di una materia come l'IRC che la Corte Costituzionale ha stabilito opzionale e quindi non curriculare, sono comunque avvantaggiati rispetto agli altri". Secondo il presidente della FCEI andrebbe rivisto l'intero sistema dell'IRC. "È ormai chiaramente provato che esistono nel nostro paese oltre tre milioni di aderenti a comunità di fede diverse dalla cattolica; al tempo stesso cresce l'interesse per un approccio aconfessionale alla storia delle religioni. E' in questa linea che si muove il mondo evangelico italiano, d'intesa con altri organismi religiosi e laici per un'azione comune: riaffermare il carattere laico della scuola pubblica e promuovere un'adeguata informazione storico-religiosa in una prospettiva aconfessionale" conclude il presidente della FCEI.

Tratto da NEV - Notizie evangeliche del 2 aprile 2008

lunedì 21 aprile 2008

Testamento Biologico

Per ascoltare la conferenza del 18 aprile a Chivasso vai qui (in formato mp3). A cura di Radio Radicale.
Qui per scaricare audio e video

venerdì 18 aprile 2008

Energia

Il documento completo qui

giovedì 17 aprile 2008

Mina Welbi

Intervista al giornale "La Nuova Periferia"
di Chivasso

mercoledì 16 aprile 2008

martedì 15 aprile 2008

Forum

un interessante forum di discussione della chiesa valdese di Reggio Calabria
http://valdesiareggio.altervista.org/index.php?mod=Forum

giovedì 10 aprile 2008

Dolcino, civiltà montanara e autonomia bioregionale - Terza e ultima parte - di Tavo Burat

Così Dolcino appare, emblematicamente, mitico eroe di una civiltà alpina che "resiste". Un personaggio maestoso e tragico, come i protagonisti dei romanzi del maggior scrittore svizzero di espressione francese, Charles Ferdinand Ramuz (1878-1947), proprio come Dolcino, in presa col destino o con le forze di una natura ostile, eroi simili a quelli della tragedia greca che guardano il volto misterioso del fato, cui non possono resistere; dovranno cedere, saranno sbalzati fuori dalla vita ma, lottando, fedeli alla loro passione, anche se soccombono, conservano una loro grande dignità. Penso soprattutto al protagonista di un suo importante romanzo, Farinet[1] , montanaro reale, fuorilegge valdostano diventato nel Canton Vallese un mito al quale il paese di Saillon, teatro delle sue gesta sino alla morte nel 1880, quando la gendarmeria gli diede una caccia spietata (come fosse un orso od un lupo) gli ha dedicato la piazza principale, un monumento, un'affascinante passerella sul precipizio dove fu trovato cadavere, una sequela di vetrate lungo il sentiero che conduce ad una simbolica e minuscola vigna, luogo di meditazione per tutti coloro che cercano libertà, pace e giustizia. Purtroppo Do1cino non avrà l'entusiastico e corale riscatto tributato a Farinet, e mai i luoghi teatro della sua vicenda epica, Prato, Varallo, Campertogno, Rassa, Trivero ... potranno rivaleggiare con Saillon. Do1cino ha avuto il torto di sfidare non gli interessi metropolitani confederali (Farinet coniava moneta in concorrenza con la zecca di Berna!), ma di ribellarsi in Italia alla Chiesa Cattolica Romana: bollato come eretico, e sanguinario bandito, ha patito per sette secoli calunnie e diffamazioni spietate. Tuttavia, chi, come Ramuz, ha saputo interpretare la civiltà alpina, ha ben colto il valore della sua figura emblematica: lo scrittore friulano Carlo Sgorlon, in un romanzo racconta "la moderna e sempre valida favola delle prevaricazioni dell'uomo sulla natura; favola antica della dabbenaggine e del miraggio del progresso che, alleati contro l'equilibrio della creazione, scatenano il sangue ferito della terra. Perché uccidono il passato, scambiandolo per passatismo, in nome di un avvenire che è furto, sconsacrazione, improvvisata padronanza del fuoco degli déi". In questo libro si staglia la figura di Siro, un montanaro contrario alla strada e alla diga progettata ed in fase di realizzo: il romanzo è ispirato alla tragedia del Vajont anche se i toponimi sono mutati. A chi diceva a Siro; "sei tu fuori dal tempo. Dov'è il pericolo? Nei lavori della strada?" replicava: "ma certo. Cominciano sempre con una strada. Se lasciate che la strada si faccia, poi sarà tardi per ogni cosa". Lui conosceva le loro tecniche, le aveva viste applicate in molte altre valli. Dopo la strada veniva gente che avrebbe messo le mani ingorde su ogni cosa. Avrebbe sventrato i boschi per farne da sci, costruito ogni possibile diavoleria, seggiovie, impianti di risalita, funivie per salire in cima alla montagna senza muovere un solo passo; avrebbe fabbricato alberghi, rovinato i nevai del massiccio, e le valli e le montagne sarebbero state percorse da una ragnatela di fili di acciaio e di piloni di cemento. Avrebbero deviato le acque... "Le acque? Cosa c'entrano le acque?" Non lo so. Dico per dire. So soltanto che rovinano tutto. "Siro, ragiona. La gente della valle aspetta da decenni che la strada sia fatta". Ma lui non voleva ragionare. Era sconvolto dalla sua passione, e continuava a dire che bisognava fare una lega di tutta la gente per bloccare il progetto che ci minacciava, correre in tutti i paesi a soffiare con ogni forza dentro l'antico corno di bue, per gettare l'allarme. Lo guardai negli occhi e ebbi l'impressione che non mi vedesse nemmeno. Mi sembra una sorta di eretico d'altri tempi. Un fra Dolcino uscito dai secoli remoti ed entrato chissà come nel nostro tempo di motori e di macchine. Non si era accorto che quell'epoca era finita, che il frate di Novara e la sua donna dai capelli rossi erano stati bruciati vivi, e la sua gente massacrata e dispersa. Si era perduto un grande sogno, quello delle antiche comunità montanare. Ma adesso i tempi erano cambiati, e sopravviveva soltanto un suo pallido fantasma nel fatto che la gente affamata andava a far legna nell'antico bosco demaniale. Tutto il resto era cambiato. Oggi i grandi feudatari esistevano sotto forma di banche e società finanziarie, le quali potevano anche riuscire in quello che era stato impossibile ai vescovi medievali. L'avrebbero fatto anche qui, e anzi avevano già cominciato a farlo, ma opporsi era una illusione mitica e fuori dal tempo.[2]
Ramuz e Sgorlon ci spiegano così, sia pure molto indirettamente, perché il movimento contro il Treno Alta Velocità -TAV- in Valle Susa abbia emblematicamente "recuperato" fra Dolcino: è la seconda volta, dopo gli anni di fine - principio secolo, quando il movimento operaio Valsesiano e Biellese onorò il "precursore", che un movimento popolare riscopre Dolcino e lo rivendica. In Valle Susa, e in internet circola una significante lettera, firmata "Dolcino e Margherita, da nessun luogo" (utopia!) che è un inno alla libertà della montagna, una strenua difesa di quella "bioregione" che una colossale strada ferrata vorrebbe ancor più sconvolgere[3]. Una valle già percorsa da autostrade, superstrade e ferrovia, sconquassata da una "grande opera" che prevede montagne scavate per quindici anni, con un milione di metri cubi di materiale pericoloso da trasportare da qualche parte; cinquecento camion in transito giorno e notte nella valle per trasportare i detriti scavati; tonnellate di polvere circolante nell'aria: le verifiche secondo le quali non ci sarebbe amianto nei terreni si sono rivelate inattendibili, il movimento "No Tav" ne ha portato alla luce le lacune dal punto di vista scientifico e la Procura di Torino ha aperto un' inchiesta. Si estende la desolazione di panorami cementificati, la distruzione di prati, l'ombra di viadotti, il grigio delle decine di piloni di cemento, antenne e tralicci aumentati in modo esponenziale, inoltre le falde deviate e prosciugate, le acque inquinate. Ma l'opera che costa miliardi e miliardi di curo non solo è dannosa, ma inutile, perché il rapporto tra trasporto merci e Pil cresce fino a quando lo sviluppo economico di un Paese non raggiunge una certa soglia, dopo la quale si stabilizza e decresce: i dati europei Eurostat evidenziano come in Europa il rapporto tra tonnellate per km di merci (indicatore di qualità di trasporto delle merci) e PiI, tra il 1997 e il 2002, è rimasto invariato; per l'Italia è stazionario[4]. II movimento che ha riconosciuto in Dolcino un emblema, antepone la tutela delle bioregione e della salute agli interessi di coloro che Sgorlon chiamava i "nuovi feudatari", cioè poche ma potenti lobby economiche, spesso trasversali negli schieramenti politici.
In realtà, si confonde il "progresso", che è liberazione dal bisogno e dal servaggio, con lo "sviluppo" che non deve essere infinito e che è destinato a schiantarsi a grande velocità contro la barriera del limite ecologico. Si sostiene che la TAV è indispensabile, altrimenti l'Italia non si modernizza, ma senza fondarsi su dati e fatti nazionali. E Luciano Gallino[5] si chiede se non siano proprio gli abitanti della Val Susa a fare, invece, il vero interesse nazionale, e che stiano spronandoci a pensare se è davvero conveniente trasformare l'Italia nella piattaforma logistica d'Europa, e se la perseveranza di realizzare la TAV senza valide ragioni sia conseguenza dell'incapacità di esplorare in modo corretto altre opportunità di cui disponiamo.
Forse questi Dolcino e Margherita strenui difensori della bioregione alpina, e cioè di una regione-comunità in osmosi con il territorio, sono trascendentali, più attinenti ai personaggi mitici, tramandatici dalla tradizione popolare, che a quelli storici. Da Robin Hood a Farinet, la leggenda sembra consegnarci, meglio dei documenti, una realtà più significante, certamente più coinvolgente e affascinante. Andrè Malraux[6] lasciò scritto: “solo il leggendario è vero” Prima di lui, Beaudelaire aveva esclamato: “Sei sicuro che questa leggenda sia proprio vera? Ma che m’importa, se mi ha aiutato a vivere!”. E Alessandro Dumas va ancora oltre: “Si può violare la storia, purché ci faccia un bel figlio!”.
Dolcino e Margherita, furono torturati atrocemente ed arsi il 1° giugno 1307. Malgrado sei secoli di demonizzazione, il movimento operaio li riconobbe precursori della lotta per il riscatto degli oppressi, ed a Dolcino innalzò sul monte Massaro un obelisco alto 11 metri, abbattuto vent' anni dopo, nel 1927 , dal regime fascista. Ancora una volta si credeva di averla "fatta finita" con siffatti simboli scomodi. Il bisettimanale della curia scrisse allora che "quel povero cumulo di pietre aveva cessato di essere, come si augurò e si credette dai promotori, un faro ed un punto di riferimento " Ma non fu cosi: nel 1974, l'anno in cui il pensiero laico trionfò respingendo con un referendum la proposta di abrogare la legge che introduceva il divorzio nell'ordinamento giuridico italiano, sui ruderi di quell'obelisco sorse un cippo. Oggi Dolcino e Margherita fanno sentire le loro voce "altra", come eroi dell'autonomia e della salvaguardia delle bioregione. Per dirla con Giuseppe Giusti, "dopo morti sono più vivi di prima.

[1] Ferdinand Ramuz, Farinet ou la fausse monnaye (1932) riedito a cura degli "amis de Ramuz" e dagli "Amis de Farinet", Rezè (Francia), 1999. Sul personaggio storico Samuel Farinet (1845 - 1880) si veda la prefazione di Pascal Thurre a Farinet, citato; in italiano: Tavo Burat; Il Robin Hood delle alpi vive ancora. La leggenda di Samuel Farinet il fabbro e liutaio, invita alla libertà ed alla fraternità, in "Riforma" a XIII n° 18 (13.5.2005) e Corrado Mornese, Farinet il falsario dal grande cuore, in Banditi e ribelli dimenticati, cit. p. 131 - 134 e 338 - 342. In un altro racconto, La guerre des papers, Ramuz narra la vicenda di una comunità montana insorta contro la burocrazia metropolitana conservatrice e oppressiva.
[2] Carlo Sgorlon, L'ultima valle (Romanzo), ed, Oscar Mondatori, Milano 1989 pp. 54-55 e introduzione di Carlo Toscani pp. 5-13: a pag, 40 rievoca il "sacro macello" compiuta dall'inquisizione in una valle (nella realtà a Teglio in Valtellina) quando "si era diffusa l'Eresia dello Spirito Santo predicata da un artigiano e tutta lo popolazione della vallata gli era andata dietro con passione" (v. pure a p. 49). Altrove la "simpatia ereticale" di Sgorlon riappare quando rievoca l'eresia di Domenico Scandella, detto Menocchio, un mugnaio della Valcellina (Friuli) messo al rogo nel 1599, la cui vicenda è stata compiutamente studiata da Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500, Einaudi, Torino 1999). C.F Ramuz aveva narrato una psicosi simile all'Ultima valle nel suo romanzo La grande peur dans la montagne (1926). I romanzi di Ramuz sono stati editi anche in italiano dalla Jaka Book, Milano.
[3] Prima lettera di Dolcino e Margherita ai Valsusini in lotta, www.socialpress.it.
[4] Si veda in proposito la lettera dell'eurodeputato Vittorio Agnoletto, Quei ripensamenfi sulla TAV, lettera al "Corriere della sera", 12. X. 2006, p. 53, Sul "No Tav": Alleanza per l’opposizione a tutte le nocività, Treni ad alta nocività: Perchè il treno ad alta velocità è un danno individuale un flagello collettivo, Nautilus, 1993 e 2006; Antonio G. Calafati, Dove sono le ragioni del si? La TAV in Val Susa nella società della conoscenza, Seb 27, Torino, 2006.
[5] "La Stampa", 7.12.2005.
[6] Andrè Malraux (1901 - 1976) grande scrittore e uomo politico francese, archeologo e specialista del sanscrito, collaboratore della resistenza anticolonialista (e quindi antifrancese) in Indocina, poi combattente "rosso" e ferito nella guerra di Spagna, esponente della Resistenza, internato nei campi di concentramento nazisti da cui riuscì ad evadere per riprendere la lotta, è autore di romanzi che escludono gli elementi individualisti consueti alla narrativa tradizionale per poggiare invece sul motivo assoluto della aventure, dell'azione sollecitata da una volontà imperiosa, in cui l'eroe ritrova la coscienza della solidarietà umana: i suoi numerosi romanzi (1921-1949) sono raccolti in volume unico, La voix du silente (1951).

Dolcino, civiltà montanara e autonomia bioregionale - Seconda parte - di Tavo Burat

Per le alti valli di cui stiamo parlando, possiamo rilevare che la tradizione culturale formatasi durante l'età finale del bronzo e del ferro, sta tramontando soltanto con i nostri nonni o addirittura con i nostri padri (la prima Guerra Mondiale può essere considerata lo iato), come dimostra lo studio delle tradizioni popolari che hanno tramandato sino ad oggi antichissime ritualità.
Oltre alla vicìnia, esisteva un'altra organizzazione comunitaria, la cui importanza è sfuggita agli studiosi di Diritto italiano, in quanto nelle documentazioni comunali se ne trovano soltanto labili tracce molto frammentarie: si tratta di quella che era chiamata (in Piemonte, ma non solo) la Badia, o Abbadia: corporazione che in origine riuniva i giovani dal comune periodo di "spupillamento", gelosa custode delle ataviche libertà e della "cultura" orale alternativa: lo stesso nome di "Abbadia" appare come una sfida alla cultura ufficiale, "scritta", quella codificata nelle Abbazie del monachesimo medievale. Le "Badie" strenuamente difendevano i più remoti ordinamenti e costumi comunitari, tramandati nelle feste stagionali, quali i carnevali ed i maggi, e furono alla base del tuchinaggio. Le competenze stesse di queste corporazioni, ovvero l'organizzazione della vita comunitaria, delle antiche regole, delle feste, della difesa del territorio e dei suoi confini, divengono quindi eredità vivente e ragione storica delle insorgenze montanare e contadine del Piemonte. Infatti, tutte le insurrezioni e le rivolte contadine mirarono a ristabilire norme e valori infranti nel passato[1]. I "coscritti" ed i "comitati" per il Carnevale, i grandi pasti comunitari (fagiolate, polentate, risotti ecc.) sono "reliquie" delle Badie; molte di esse furono cattolicizzate e divennero confraternite (alcune tuttora armate, come quella di Barbania nel Canavese): i capi, gli abà, si trasformarono in "priori" o addirittura santificati: Euseo, strano santo valsesiano di cui si racconta che morì per la vergogna di essere stato costretto dai giovani ad indossare abiti carnevaleschi, fu con ogni probabilità un abà; il suo santuario è eretto su un masso erratico, all'imbocco della Valsesia, e colà vi è una grande coppella nella roccia, che raccoglie l'acqua piovana e che funge da terapeutica acquasantiera. E così, io sono convinto che Milano Sola, il "ricco contadino" di Campertogno (ma si poteva essere "ricchi contadini" nell'agricoltura di sopravvivenza che caratterizzava la località agli inizi del XIV secolo?), che "invitò" Dolcino ed i suoi in alta Valle, altri non era se non un abà, un autorevole capo dei giovani di Campertogno alle armi, che manifestò l'invito decretato, come era negli usi, dalla assemblea della vicìnia. La funzione delle Badie nelle insorgenze rustiche, apparirà macroscopicamente nel tuchinaggio, iniziato in Occitania, nel Massiccio Centrale, a seguito della predicazione di un francescano dissidente, Jean de la Rocquetaillade, cinquant'anni circa dopo il rogo di Dolcino e di Margherita; ripreso nel Biellese con la cattura del vescovo da parte dei giovani del Piazzo nel 1377, nel Canavese dal 1380 alla metà del XVI secolo.[2]
Come abbiamo più volte sostenuto, la comunità cristiana che Dolcino ed i suoi seguaci proponevano come preconitrice del "Regno" era del tutto speculare, omologa, a quella dei montanari specie dell'alta valle non soggetta alle influenze mercantili della pianura: infatti vi si riscontrano i medesimi valori fondamentali: solidarietà e fratellanza, comunione dei beni, rifiuto di ogni tipo di balzello (taglie, o decime che fossero), parità uomo-donna, nessun servo nessun padrone, ma Dio unico "Signore"; rifiuto del denaro (si pensi al fondatore del movimento Apostolico, predecessore di Dolcino, quel Gherardino Segalello, "libertario di Dio" che gettò via i denari, francescano anarchico, salito al rogo l'anno 1300 a Parma) poiché l'economia era fondata sul servizio comunitario e sul baratto... Dolcino testimoniava nel messaggio evangelico radicale la validità dell'ordinamento giuridico alpino, rivitalizzato dai Longobardi e minacciato dal Diritto Romano che montava dai centri urbani della pianura. La "crociata", invece, era la messa in opera di uno strumento oppressivo per l'affermazione dei princìpi antitetici: gerarchia; privilegi riconosciuti ai Signori feudali, laici o ecclesiastici che fossero; la donna considerata veicolo diabolico; la moneta sonante, anziché il libero scambio.
La sconfitta di Dolcino segnerà l'inizio della fine della civiltà alpina: alla luce del sole rimarrà l'ordinamento giuridico latino; ai "resistenti" resterà il buio dei boschi e della notte, dove troveranno rifugio i banditi; le donne "vestali" dell'antica cultura agreste diventeranno "streghe". Le fate giovani e belle saranno tramutate dalla cultura vincente in vecchie malefiche megere. La pratica del libero scambio in sfida alla legge sarà dei contrabbandieri.
Le alte valli alpine presenteranno nella loro decadenza economica, politica e sociale tutti i caratteri delle colonie, così come appaiono nel Terzo Mondo[3]: le materie prime prodotte (si pensi ai metalli, cominciando dall'oro, ma anche all'acqua, bene quanto mai prezioso), sono consumate e trasformate nelle metropoli; le popolazioni sono territorialmente divise con confini estranei alla loro realtà economica sociale (le etnie alpine sono le medesime nei due versanti: provenzali o occitani, francoprovenzali, walser, retoromanci o ladini, tirolesi, carinziani, sloveni, .. ); le valli costituiscono una grande riserva di mano d'opera (serve, e poi operai) e di buoni soldati; il sistema viario di comunicazione da orizzontale tra valle e valle, sostituito da quello a raggiera che parte dai centri metropolitani per facilitare la pianurizzazione delle attività economiche; il capitale locale sparito, è sostituito da quello dei metropolitani, che a poco a poco si impadroniscono della terra (turismo speculativo che espelle gli indigeni); la produzione agricola, artigianale, soppiantata da quella industriale metropolitana; gli indigeni considerati culturalmente alienati, minus habentes e gli idiomi che esprimono la loro cultura bistrattata, degradati da valore "lingua" a "minus-valore" dialetto, da estirpare e buttare (la rapina del minus-valore, dopo quella del plus-valore!). Economia, cultura e lingua delle élites metropolitane si impongono sempre più nelle periferie: quanto è "alternativo", resistente alla globalizzazione, viene via via sospinto ai margini, o buttato a mare (come avvenuto nelle aree celtiche: in Scozia, Galles, Irlanda; Bretagna e per quella occitana, in Francia) dalla potenza economica metropolitana (di Londra o Parigi[4]); da noi la "resistenza" è compressa contro le montagne, nelle Valli, sempre più in alto. Laddove i popoli indigeni non concordano con i piani elaborati dalle élites, che mistificano il proprio interesse facendolo apparire "progresso" tout court, essi possono essere sempre rappresentati quali terroristi pericolosi, primitivi, gretti egoisti, ostacolo allo sviluppo[5]. E' l'inversione dell' etica: colto, aperto e positivo il "cittadino"; ignorante e rozzo, testardo e meritevole al più di "conversione" di "emancipazione", quando non di severa condanna, il montanaro, "villano" insomma: un "eretico", cui un tempo spettava l'abitello giallo o il rogo, ed oggi il disprezzo sociale del benpensantismo cittadino. E' l'antica favola del lupo a monte e del povero agnello a valle, colpevole di aver intorbidito l'acqua ...

[1] Cfr. G. Cìola - A. Colla - C. Mutti - T. Mudry, Rivolte e guerre contadine, Soc. ed. Barbarossa, Milano 1994
[2] Cfr. Piero Vanesia, Il Tuchinaggio in Canavese ( 1386 – 1391), Società accademica di storia Canavesana, Ivrea, 1979; sulle "Badie": G.C Pola Falletti - Villafalletto, Associazioni Giovanili e feste antiche, Vl. 1°, Torino, 1979 (in particolare alle pp. 71, 208, 468 e 55, 473, 480), Tavo Burat, Il Tuchinaggio occitano e piemontese, in Banditi e ribelli dimenticati. Storie di irriducibili al futuro che viene, a cura di Corrado Mornese - Gustavo Buratti, Lampi di Stampa ed., Milano 2006.
[3] Cfr. Gustavo Buratti, Decolonizzare le Alpi, in Autori vari, Prospettive di vita dell'arco alpino. Interventi di uomini di studio e d'esperienza del passato, il presente e il futuro delle Alpi, Jaca Book, Milano 1981 pp. 64 - 80; in appendice la Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine 19-12-1943. Si tratta della cosiddetta "Carta di Chivasso", con la quale quattro esponenti della Resistenza delle Valli valdesi e due valdostani, tra i quali Emile Chanoux che ne fu l'ispiratore, preconizzavano per le vallate alpine autonomie politiche, amministrative, culturali e scolastiche, anticipando di un trentennio la filosofia e le istanze poi elaborate da Gary Snyder, Kirkpatrick Sale e dagli altri bioregionalisti.
[4] Cfr. Daniel Nettle - Suzanne Romaine, Voci del Silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di estinzione, Carocci ed., Roma 2001
[5] Si veda per esempio la vicenda del montanaro grigionese Marco Camenisch, condannato per ecoterrorismo, narrata, come in autobiografia, a cura di Piero Tognoli, Achtung Banditen! Marco Camenisch e l'ecologismo radicale, Nautilus, Torino, 2004; e a cura di C. Mornese e G. Buratti, Banditi e ribelli dimenticati, cit.

Dolcino, civiltà montanara e autonomia bioregionale - Prima parte - di Tavo Burat

Per "bioregione" si intende un luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, di specie animali e vegetali, di microclima, oltre che per la cultura umana che da tempo immemorabile si è sviluppata in armonia con tutto ciò. Le Valli alpine, come la Valle Sesia, costituiscono - o meglio, costituivano - bioregioni, e cioè insieme biologici tendenti all'autosufficienza ed all'autoproduttività, che si sono adattati alle condizioni dei loro habitat dove si realizza un "equilibrio circolare" tra tutti i fattori (produttori di energia, consumatori di energia, eliminatori dei rifiuti). Le popolazioni inserite nella bioregione formano comunità locali conferenti veste concreta a quello spirito di Gemeinchaft, cioè di "comunità di destino" entro cui si esprimono secoli di produzione culturale,[1] in spazi per lo più liberi dai condizionamenti, affrancati dalla subalternità, caratterizzati da una produzione culturale autonoma e cioè non eterodiretta.
Orbene, a me sembra che per comprendere Dolcino, Margherita e la loro relazione con la Valle Sesia, sia necessario rapportarli alla bioregione teatro della epopea del 1305-1307. Quella Valle Sesia che, con il trattato di Gozzano del 1275, aveva conquistato con decenni di guerriglia contro i feudatari Biandrate prima e i centri metropolitani di Vercelli e Novara poi, una quasi indipendenza; "quasi" perché I 'Universitas valsesiana corrispondeva - utilizzando un termine moderno - ad un protettorato: infatti, per trattati e contese con potenze forestiere era pur sempre necessario l'assenso della città (Novara).
Come è stato puntualmente rilevato[2], il rastrellamento per la caccia agli eretici, scatenato dai bravacci vescovili, con la conseguente sventura delle razzie operate da truppe assoldate che, com'era in uso, dovevano approvvigionarsi con le risorse locali, depredando i poveri montanari, invisi perché sospettati inoltre di proteggere gli eretici; le rappresaglie con l'abbattimento e l'incendio degli abituri rustici (quanto avverrà in quegli stessi luoghi 640 anni dopo, farà dire nihil sub soli novum!), non potevano che provocare una rabbiosa reazione da parte dei locali che, in quelle incursioni pre-potenti, vedevano a buon titolo una aperta violazione, e quindi una inaccettabile offesa, ai patti sottoscritti a Gozzano. Fondamentale è comprendere la struttura delle comunità alpine che caratterizzavano ancora le alti valli quando ospitarono gli Apostolici di Dolcino. Si trattava di vere comunità reali, non personali, caratterizzate dalla coesistenza fra la proprietà privata e quella collettiva. La prima era limitata alla abitazione, alle armi, agli utensili da lavoro, al bestiame ed a poca terra; la grande proprietà - i campi coltivabili, le brughiere e gli alpeggi per i pascoli, i boschi - era comunitaria, e il godimento delle sue singole componenti era stabilito da "regole" scaturite da assemblee di uomini liberi, vale a dire da coloro che portavano le armi e che al prezzo della vita difendevano quella proprietà. In alcuni Cantoni della Svizzera primitiva si è conservata la Landsgemeinde, assemblea per gli affari comunali e cantonali che emana leggi e regolamenti secondo i dettami della democrazia diretta, e la partecipazione è un diritto-dovere riservato sino a non molti anni fa agli uomini atti alle armi. Le comunità longobarde diedero vigore a tali assemblee degli uomini liberi, gli arimanni. Queste comunità erano chiamate vicìnie (vicinanze nel Biellese) comunaglie nell' Appennino parmense, regole, appunto, nel Cadore e nel Veneto. L'etica che informava lo spirito comunitario sull'inalienabilità del suolo, era di voler conservare intatto il patrimonio collettivo; quest'etica venne minata e distrutta dall'introduzione del diritto bizantino cristianizzato, codificato dall'imperatore Giustiniano, che sarà la base del Diritto Romano, dal quale si attingerà a piene mani per dotare il nuovo Stato unitario italiano del 1861. La comunità rurale-alpina può quindi definirsi come un insieme di famiglie vicine che coltivano un dato territorio soggetto a regole di utilizzazione collettiva, ed è l'antenata della maggior parte degli odierni Comuni "politici": in Svizzera sussiste tuttora il "doppio comune": quello moderno, "politico", e quello detto, in Canton Ticino e nei Grigioni italiani, "patriziale" corrispondente alla nostra "vicìnia" competente per l'amministrazione dei beni comunitari e per gli "affari pauperili" (cioè, l'assistenza)[3]; sino al secolo XIX ci furono conflitti anche aspri di competenza tra consigli "politici" e "patriziali" (in cui gli elettori sono esclusivamente gli "autoctoni", e cioè gli appartenenti a famiglie riconosciute originarie del luogo). Queste assemblee discutevano la priorità delle coltivazioni, le rotazioni agronomiche, lo sfruttamento dei boschi e dei diritti comunitari sul legnatico, di caccia e di pesca, dibattevano sull'ammissione di forestieri: così avvenne per gli Apostolici di Dolcino, come sappiamo dell'invito di Milano Sola ad ospitarli a Campertogno; o sul loro rigetto, come avvenne invece per le truppe di repressione inviate in alta Valle a caccia degli "eretici". La sostituzione del diritto tribale, poi longobardo, con il Diritto Romano non fu certo "pacifica" e durò secoli. In molte alti valli, quegli "uomini liberi" poterono conservare con le armi i loro privilegi, cioè la loro autonomia, le loro "regole"; le vicìnie riuscirono a sopravvivere specialmente sulle montagne (divennero i cosiddetti "usi civici") e si conservarono sino all'inizio del secolo XIX; in Valsesia, ricordiamo la strenua battaglia autonomista dell' on. Aurelio Turcotti (Varallo 1808 Torino 1885) canonico, ma poi fieramente eretico che manifestò nei suoi scritti simpatia per Dolcino, al Parlamento subalpino nei banchi della "montagna", la sinistra in cui sedeva Angelo Brofferio.

[1] Per il sociologo tedesco Ferdìnand Tonnies (1855-1936) Gemeindschaft è sinonimo di organizzazione sociale di tipo comunitario di società vissuta come "comunità di destino"; in contrapposizione alla Gesellschaft, una società in cui gli individui hanno rapporti di tipo utilitaristico. Ne scriveva nel suo Gemeinschaft und Gesellschaft (1897), trad. F. Tonnies, Comunità e società, ed. Comunità, Milano 1963.
[2] Cfr, Corrado Mornese Eresia Dolciniana e resistenza montanara, DeriveApprodi ed. Roma 2004; ldem, Eresia e montagna contro ortodossia e pianura. L'eretico Dolcino e lo. resistenza della Valsesia 1305-1307, in Achtung Banditen, Contadini e montanari tra banditismo, ribellismo e resistenze dall'antichità ad oggi, "Istituto Storico della Resistenza e della Società contemporanea" Novara, e "Centro Studi Doleiniani", ed . Millenia, Novara, 2004, pp. 33-46;
Tavo Burat, L'anarchia cristiana di fra Dolcino e Margherita, Leone e Griffa ed. Pollone-Biella, 2002.
[3] Cfr. Gustavo Buratti, Diritto pubblico del Canton Grigioni, ed. Cisalpina, Milano-Varese 1959. Cenni moderni sulle vicìnie, anche in L'Alpe e la Terra, i bandi campestri biellesi nei secoli XVI - XIX, contributi di Gian Savino Pene Vidari (Aspetti storico giuridici) e di Marco Neiretti (Aspetti economici), a cura di Luigi Spina, Provincia di Biella ed., Biella 1997.

mercoledì 9 aprile 2008

sito di spiritualità

Segnalo il sito di spiritualità http://www.scuolaspiritualita.it nella sezione Testi vi sono degli scritti di Dietrich Bonhoeffer.

Dietrich Bonhoeffer


Il 9 aprile 1945 fu ucciso dai nazisti
il teologo protestante DIETRICH BONHOEFFER.

lunedì 7 aprile 2008

Testamento Biologico

Diapositive proiettate durante la conferenza del 4 aprile presso i locali della chiesa valdese di Biella

500° anniversario della nascita di Giovanni Calvino

Concorso di predicazioni

Per il 500° anniversario della nascita del Riformatore Giovanni Calvino

Nel 2009 le Chiese riformate celebreranno il 500° anniversario della nascita di Giovanni Calvino, il celebre Riformatore ginevrino. Sarà l’occasione, in tutta Europa e nel mondo intero, per ricordare l’eredità teologica che egli ha lasciato e la sua importanza per la Chiesa, la cultura e la società di oggi. Per questo, la Federazione delle chiese protestanti svizzere e l’Alleanza Riformata Mondiale hanno deciso di indire insieme un concorso di predicazioni.

Concorso
Ricerchiamo delle predicazioni accattivanti, consistenti, toccanti, capaci di aprire delle prospettive nuove e inattese sull’importanza di Calvino per la nostra epoca. Sarà opportuno fare emergere chiaramente il contesto comunitario nel quale il predicatore o la predicatrice si esprime, ma anche i contenuti essenziali della teologia riformata. I contributi più convincenti saranno presi in considerazione per la preparazione del culto televisivo ufficiale in Eurovisione, previsto per la domenica di Pentecoste 2009 (31 maggio) nella cattedrale St Pierre di Ginevra.

Il tema

«Libertà divina e libertà umana»

Si veda per esempio nell’Istituzione della religione cristiana, Libro III, Cap. 19,5:
«Se le nostre anime, liberate dal rigoroso comandamento della legge, o piuttosto da tutto il suo rigore, si vedono chiamate da Dio con paterna dolcezza, allora lo seguiranno laddove egli le vorrà condurre, con cuore gioioso e franco.»

Al contempo questo tema dovrà essere collegato alla Pentecoste e alla rivelazione dello Spirito Santo.

Testo biblico: Atti 2, 1-13

Partecipanti
Questo concorso si rivolge ai pastori e alle pastore, predicatori e predicatrici delle Chiese riformate mondiali. Si raccomanda di inviare una copia della predicazione alla direzione della Chiesa di appartenenza.

Condizioni del concorso
Genere: Predicazione
Lunghezza: massimo 5000 caratteri
Lingue autorizzate: tedesco, francese, inglese, spagnolo
Formato: i testi devono essere forniti esclusivamente in formato elettronico (Word o PDF).

Giuria
Le predicazioni saranno esaminate dal comitato internazionale promotore del Giubileo di Calvino (20 membri; si veda sul sito: www.calvin09.org). I 3 documenti migliori saranno premiati e i vincitori saranno personalmente avvisati. La decisione della giuria è irrevocabile.

Premio
Le tre predicazioni migliori saranno premiate con un soggiorno di 3 giorni a Ginevra (o in un’altra città europea da concordare, in collegamento con le celebrazioni del Giubileo di Calvino nel 2009). Ciascun premio comprende il viaggio e la sistemazione per una persona. Le predicazioni pervenute saranno pubblicate sul sito internet ufficiale del Giubileo. Sarà esaminata la possibilità di un’ulteriore pubblicazione in forma stampata.

Invio
Inviare i testi esclusivamente via mail a: sermon@calvin09.org
Indicare nell’invio l’indirizzo completo del mittente (compresa la mail).
Data limite di ricevimento dei testi: 30 aprile 2008

venerdì 4 aprile 2008

LAICITÀ DELLA RAGIONE,
RAZIONALITÀ DELLA FEDE?

Giuristi, politologi, teologi e filosofi, laici, cattolici e protestanti
a confronto in un Convegno sul rapporto tra fede e ragione:
quale influenza della religione sulla sfera pubblica?

17-18 aprile 2008

Giovedì 17 e venerdì 18 aprile al Teatro Vittoria di Torino si terrà il Convegno Laicità della ragione, razionalità della fede? promosso dal Centro Evangelico di Cultura “Arturo Pascal”, dal Centro per la Riforma dello Stato e dal Centro Studi Filosofico-religiosi “Luigi Pareyson”, con il contributo della Città di Torino, del Centro di Ricerca sulla Biopolitica “Bios” dell’Università del Piemonte Orientale e del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Torino nonché il patrocinio della Facoltà Valdese di Teologia di Roma e della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Sezione di Torino.
Il Convegno – che si propone di far dialogare, su un piano scientifico e non polemico, giuristi e politologi con filosofi e teologi intorno alla questione del rapporto tra la religione e lo spazio pubblico del diritto e della società – muove dall’esigenza di riproporre, a fronte della crisi del pluralismo dei valori e al risorgere dei fondamentalismi, il nodo teorico del rapporto tra fede e ragione, nell’intento di contribuire a fare chiarezza sulle loro reciproche relazioni ed elaborare una proposta in grado di preservare l’autonomia di entrambe.
Articolato nelle quattro sessioni Fede e spazio pubblico, La lezione di Ratisbona, Le posizioni protestanti e Crisi della “crisi della ragione”?, il Convegno intende riflettere sull’ipotesi della perdita della forza veritativa e normativa della ragione, sulla crisi della ragione stessa in ambito giuridico e politico nonché sulle questioni teologiche connesse all’idea di una fede intesa come custode della ragione e possibile fondamento dello Stato e della politica, secondo quanto sembrerebbe emergere dalle tesi di Benedetto XVI.
Laici, cattolici e protestanti, i relatori – Gustavo Zagrebelsky, Mario Tronti, Piero Coda, Oreste Aime, Sergio Rostagno, Paolo Ricca, Pietro Barcellona, Claudio Ciancio e Fulvio Ferrario, coordinati da Mario Dogliani, Federico Vercellone, Maria Cristina Bartolomei e Ugo Perone – si confronteranno da posizioni diverse intorno alla necessità, manifestata da più parti, di elaborare un nuovo orizzonte normativo per la vita pubblica.

Informazioni: info@centroculturalepascal.org e 011 6692838



Laicità della ragione, razionalità della fede?

17-18 aprile 2008
Teatro Vittoria
Via Gramsci 4 – Torino
Giovedì 17 aprile

ore 9,45
FEDE E SPAZIO PUBBLICO

Gustavo Zagrebelskly – Università di Torino
Mario Tronti – Centro per la Riforma dello Stato
Presiede Mario Dogliani – Università di Torino


ore 14,30
LA LEZIONE DI RATISBONA

Piero Coda – Pontificia Università Lateranense
Oreste Aime – Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Torino
Presiede Federico Vercellone – Università di Udine



Venerdì 18 aprile
ore 10,00
LE POSIZIONI PROTESTANTI


Sergio Rostagno – Facoltà Valdese di Teologia, Roma
Paolo Ricca – Facoltà Valdese di Teologia, Roma
Presiede Maria Cristina Bartolomei – Università Statale di Milano


ore 14,30
CRISI DELLA “CRISI DELLA RAGIONE”?


Pietro Barcellona – Università di Catania
Claudio Ciancio – Università del Piemonte Orientale
Fulvio Ferrario – Facoltà Valdese di Teologia, Roma
Presiede Ugo Perone – Università del Piemonte Orientale


Il Centro Evangelico di Cultura “Arturo Pascal” di Torino – legato alla Chiesa Evangelica Valdese – intende contribuire a diffondere in Italia il pensiero e la cultura del protestantesimo.
L’attività del Centro – presieduto da Luca Savarino – si concentra su alcune aree tematiche che caratterizzano storicamente la presenza evangelica in Italia: le questioni legate a laicità, ecumenismo e dialogo interreligioso, le sfide etiche e intellettuali poste dalle nuove tecnologie scientifiche nonché il dialogo tra filosofia e teologia.

Il Centro Studi Filosofico-religiosi “Luigi Pareyson” di Torino – diretto da Claudio Ciancio e Maurizio Pagano e costituito su iniziativa di un gruppo di docenti accomunati dall’essere allievi, amici ed estimatori del filosofo da cui prende il nome – conta tra i fondatori l’Università di Torino e la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Il Centro promuove studi di carattere filosofico-religioso attraverso conferenze, convegni e borse di studio, la raccolta di materiale bibliografico relativo a Luigi Pareyson e la realizzazione di pubblicazioni scientifiche tra cui l’“Annuario Filosofico” e le “Opere Complete di Luigi Pareyson”.

Il Centro per la Riforma dello Stato – fondato nel 1972 da Umberto Terracini, con la presidenza di Pietro Ingrao, e attualmente presieduto da Mario Tronti – prosegue e sviluppa la tradizione di studio e di ricerca delle forze democratiche e progressiste sui processi di trasformazione degli ordinamenti giuridici contemporanei, dei sistemi politico-istituzionali, degli apparati amministrativi nonché dei meccanismi di rappresentanza e intermediazione degli interessi promuovendo il confronto con studiosi, operatori e istituzioni di ricerca di diverso orientamento ideale, politico e culturale

Sulle montagne dei Valdesi

giovedì 3 aprile 2008

mercoledì 2 aprile 2008

Biella 4 aprile ore 21




Gherardo Segalelli "Attualità di un eretico"

GETTA IL TUO PANE...
di Tavo Burat

Fra Salimbene de Adam, di nobile stirpe, si presentava nella sua Chronica quale "sacerdote e predicatore", qualificando Gherardino Segalello "di famiglia di basso rango", "illetterato e laico, idiota e stolto" e stigmatizzava il mentecatto fondatore degli Apostolici per varie indegne pagliacciate e per atti sconsiderati: per esempio, "venduta la sua casetta e intascatone il ricavato", anziché darlo ai poveri secondo il consiglio del Signore, "lo aveva gettato ai ribaldi che stavano a giocare sulla piazza". Ma chi dice a fra Salimbene che si trattava proprio di ribaldi? E se fossero stati semplicemente poveri, come coloro che furono beneficati da Francesco d'Assisi e da Valdesio da Lione? Comunque, egli avrebbe dovuto qualificare, con coerenza, come insensato anche il Qoelet quando riporta questo comando: "Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai. Fanne parte a sette, ed anche a otto, perché tu non sai che male può avvenire sulla terra" (Ecclesiaste, 11:1-2). Versetti piuttosto incompresi, e imbarazzanti, per alcuni esegeti biblici benpensanti, che qui travisano il messaggio della Scrittura, non accettandone il paradosso, lo scandalo. Tant'è vero che la traduzione interconfessionale in lingua corrente, interpreta il primo versetto così: "Investi i tuoi beni nel commercio marittimo e a suo tempo li ritroverai" . Una grossa sciocchezza, come la definisce il teologo riformato Jacques Ellul (La raison d'être. Méditation sur l'Ecclesiaste, Seuil, Paris 1987, p. 182): infatti, è assurdo ritenere che Qoelet dia consigli di commercio redditizio, nella sua prospettiva di pensiero globale. In realtà, si tratta di un precetto che va oltre quello ben noto di non economizzare, di non prevedere ("Osservate gli uccelli del cielo. I gigli dei campi.", Matteo 6:26-28): qui si tratta, addirittura, di "gettare via", senza ragione, dunque di "sprecare": un atto incomprensibile, scandaloso, proprio come quelli Segalelloani severamente disapprovati dal perbenista fra Salimbene. Certo, non si tratta dello spreco di chi agisce così per vana gloria, o per incoscienza perché non sa ciò che fa.

Questo "getta il pane" significa, invece, il contrario: un'estrema consapevolezza dell'atto, una volontà, una desacralizzazione del "valore", ed un distacco. Ancora: non si tratta di giustificare lo sciagurato spreco della nostra società consumistica, lo scialo di beni che potrebbero essere utili, persino indispensabili, agli altri; e neppure lo sperpero delle risorse non rinnovabili del nostro pianeta. Non è la dilapidazione effettuata dal prodigo, dallo sprecone, dall'ozioso, dal debole. Qoelet si rivolge a chi naturalmente vorrebbe economizzare, prevedere, ma si trova innanzi a questo scoglio: "getta il tuo pane". Impara a compiere le cose adesso, e gratuitamente. E' proprio la gratuità dell'atto ad essere decisiva. Soltanto l'atto gratuito non è havel, "velo di vapore", vanità. Fa un gesto contrario all'abituale, al normale. Fa questo gesto senza calcolo, senza timore, senza preoccuparti. Impara a separarti da ciò che ti è indispensabile (il pane!). E impara al tempo stesso a compiere gli atti che i benpensanti giudicano più aspramente. Un atto di questo genere è, necessariamente, oggetto di scandalo. In un mondo dove tutto deve essere utile, deve "servire" (almeno in apparenza, secondo i criteri di efficacia della società), impara a fare un gesto inutile. "Ma ciò non serve a nulla!". Appunto.

Pensiamo allora all'immensa quantità di azioni "utili" che ci bloccano, sempre più, nella catastrofe; ed a quegli altri gesti, giudicati vani (hippies o pacifisti), alle preghiere, alle devozioni solitarie, che permettono al mondo di sopravvivere. Pensiamo al Seme sotto la neve di Ignazio Silone.

Dopotutto, perché dovremmo fare soltanto ciò che serve? Impara ad agire senza motivazione, semplicemente perché Dio lo ha detto. Un gesto che non attende ricompensa. Non si dice: "Così salverai l'anima tua". No. Ma c'è un'osservazione importante, da ascriversi all'ironia dell'Ecclesiaste: tu lo ritroverai, quel pane gettato nel fiume, che tu credevi perduto, portato via sul filo della corrente. Lo ritroverai, in futuro. Avrai ancora del pane, quello o un altro. Il pane economizzato, "accumulato", non ti servirà. Il pane gettato oggi, lo ritroverai domani, quando non ci penserai più, e forse neppure te ne ricorderai. Non preoccuparti, non dartene pensiero.

Innanzi tutto, quindi, impara a "gettare", a non prevedere, a non accumulare. Poi, dopo, impara a donare ed a condividere. Il dopo viene in seguito: prima, devi imparare a distaccarti da quanto donerai. "Fanne parte a sette, ed anche a otto, perché tu non sai che male può venire sulla terra". Non sono le cinquemila persone della moltiplicazione dei pani, ma i cinque pani ed i pesci. dunque è a nostra misura, benché ci sembri comunque impossibile: come può un pane servire a sette o ad otto? Eppure. "Poiché tu non sai che male può venire sulla terra": domani, potresti non essere più in condizione di donare, di amare il tuo prossimo; se tu non puoi fare più nulla per l'altro, l'amore è parola vana, havel, nuvoletta di vapore?. Non perdere tempo: oggi ti è possibile, puoi gettare il pane, sbrigati, senza far calcoli, senza misurare, senza spirito di avarizia. Non fare calcoli per il domani, è oggi che devi agire. Non ignoriamo ciò che potrà o dovrà accadere. Un movimento pacifista riuscirà davvero ad ottenere la pace? Le nostre scelte ("eresie"!) economiche (il condono dei debiti del Terzo Mondo, ad esempio) sapranno rispondere alla miseria che affligge gran parte della Terra? Scelte politiche diverse (eresie!) assicureranno davvero un Governo più giusto, un'Amministrazione più efficiente?

Non lo sappiamo. Ma tutto ciò che riteniamo di fare, facciamolo; alla fine un risultato ci sarà. Ma quale? Sarà pur sempre relativo. senza altro vantaggio di poter donare agli altri, e gettare il tuo pane sulle acque. In questo "scandalo" (tale per il benpensante fra Salimbene) è la grandezza di un autentico francescano, "radicale", libero e testardo, "disobbediente", "sprovveduto" quale fratello Gherardino.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere.

Il nome della rosa di Umberto Eco è un "giallo di libri": l'assassino, o meglio lo strumento dell'assassino, è un libro: un supposto trattato ancora ignoto di Aristotele sul riso. Jorge, il frate bibliotecario, non voleva che quel testo venisse conosciuto, perché "il riso è debolezza, la corruzione, l'insipidità della nostra carne. E' il sollazzo per il contadino, la licenza per l'avvinazzato, anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni. Ma così il riso rimane cosa vile, difesa per i semplici, mistero dissacrato per la fede (.). Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi dalla paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di signoria (.). Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è il timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l'arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire; ma poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso l'affrancamento della paura. E come saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più provvido, e affettuoso dei doni divini? (.) Da questo libro deriverebbe il pensiero che l'uomo può volere sulla terra l'abbondanza stessa del paese di Cuccagna".

E a frate Guglielmo (il minorita che gli teneva testa, ed aveva scoperto i suoi crimini) Jorge diceva poi: "Sei un giullare, come il santo che vi ha partoriti. Sei come il tuo Francesco che de toto corpo facebat linguam, che teneva sermoni dando spettacoli (.), e imitava con un pezzo di legno i movimenti di chi suona il violino, che si travestiva da vagabondo per confondere i frati ghiottoni, che si gettava nudo sulla neve, parlava con gli animali e le erbe, trasformava lo stesso mistero della natività in spettacolo da villaggio, invocava l'agnello di Bethelhem imitando il belato della pecora.".

Gherardo, dunque, "giullare" come Francesco. Se fosse vissuto mezzo secolo prima, forse lo avrebbero santificato. Se Francesco fosse vissuto ottant'anni dopo, forse lo avrebbero mandato al rogo. Gherardino fu condannato al fuoco, facendo la fine di quel libro sul riso. Giullare, facendo ridere liberava la gente dalla paura. Rideva con Dio. Irrideva il potere. Per questo fu arso vivo, il 18 luglio 1300, a Parma, in "Gèra".

Tra lui ed il suo successore, Dolcino da Prato Sesia (Novara), sembra ci siano forti discrasie.

Il movimento apostolico con Gherardino era acefalo, anarchico, poiché l'Ozzanese non volle mai essere il capo. Con Dolcino, lo stesso movimento si presenta invece strutturato, con un organigramma, al cui vertice era egli stesso. Occorre tuttavia tener conto che sino alla fine del XIII secolo, gli Apostolici, se pur criticati, ed anche osteggiati e minacciati, non furono perseguitati, arrestati, torturati; soltanto dopo il rogo di Gherardino si scatenò la repressione feroce e si mandarono al rogo uomini e donne. A la guerre comme à la guerre : Dolcino fece di necessità virtù, e dovette fornire il movimento di un'organizzazione centralizzata ed efficiente, che agiva grazie ad una rete di simpatizzanti, attivi nelle campagne e nelle città, con un seguito non soltanto di contadini, ma anche di artigiani, commercianti, benestanti. Dolcino porterà innanzi l'autodesignazione degli Apoostolici come depositari della missione di costruire una nuova Chiesa, e di essere pertanto i promotori, più che di una "Riforma", di un cristianesimo essenzialmente alternativo.

Le differenze tra il periodo Segalelloano e quello dolciniano del movimento apostolico, sono documentate dalle deposizioni di Zaccaria di Sant'Agata, il quale fu processato nel 1299, dunque prima che Dolcino comparisse sulla scena (1300), e poi, relapso, ancora nel 1303 quando finirà al rogo, e il successore di Gherardino aveva dato un nuovo volto ed un altro impulso al movimento.

Con l'Ozzanese, l'opposizione alla Chiesa romana non è ancora scismatica, ma rigorista, in nome di un ritorno ai dettami evangelici, della povertà volontaria e di una visione libertaria e democratica della Chiesa, dove non c'è distinzione di classi, né di cultura né tra uomini e donne. La questione sessuale non è vista da Gherardo, e neppure da Dolcino, in chiave di "peccato", ma di libertà, giustificata dall'ispirazione alla perfezione, e non repressa dalla paura di una condanna canonica e divina.

Anche il Segalello è millenarista, in quanto, dalle testimonianza processuali bolognesi, sappiamo che i seguaci cantavano "Il Regno di Dio è vicino" (Matteo 3.2; 4.17; 10.7), e gli inquisiti più volte confermano questa convinzione. Il pensiero dolciniano permane all'interno della concezione esistenziale Segalelloana; le scansioni temporali gioachimite vengono riprese, ma sistemate in una nuova dinamica e, come sostiene Corrado Mornese, a quelle concezioni subentra una teosofia della storia, e la teoria diventa, con Dolcino, prassi politica.

Rimane la visione democratica della Chiesa "altra", anche se non è più acefala: il leader si rivolge a tutti coloro che, anche se "rozzi o incolti, sanno distinguere il bene dal male". Il conflitto con la Chiesa romana si radicalizza: essa è apostata, addirittura meretrice; Roma, nuova Babilonia, sarà punita da Dio; la gerarchia sarà sanguinosamente eliminata da uno strumento laico quale il nuovo Federico.

La maggior discrasia rilevata storicamente in Dolcino rispetto al Segalello, è evidenziata dalla lotta armata che costituirebbe (1305-1307) la nota saliente, e caratterizzante rispetto anche agli altri movimenti pauperistici coevi.

Ma a nostro avviso, si incorre così in un travisamento storico. I Dolciniani non avevano alcuna vocazione guerrigliera; infatti, quando nel 1303 le prime repressioni iniziarono nel Trentino, con il rogo di un uomo e due donne - una delle quali era la moglie del fabbro fra Alberto da Cimego, il più autorevole seguace locale di Dolcino - essi abbandonarono, senza opporre resistenza alcuna, le valli dove avrebbero potuto disporre di rifugi e contare su appoggi popolari. Giunto nel 1304 alle porte della lontana Valsesia, Dolcino, "con alcuni suoi seguaci" , si mise a predicare passando di casa in casa, con un comportamento non certo da capo guerrigliero. Poco dopo, nel 1305, le cronache ci dicono che nell'alta valle i dolciniani diverranno esercito forte ed agguerrito. Come fu possibile che "alcuni predicatori", con al seguito donne, bambini ed anziani, si siano in un anno trasformati in numerosissimi ribelli indiavolati, capaci, all'arma bianca, di compiere scorrerie a scapito di gente montanara che i feudatari mai riuscirono a domare completamente; e nel contempo di contrastare gli assoldati di mestiere, ingaggiati dai vescovi di Vercelli e di Novara che avevano provveduto a chiudere gli ingressi in valle con posti di blocco? Come riuscirono a transitare nel Biellese e giungere al Monte Rubello "per vie sconosciute, innevate, nottetempo"?

In realtà, la guerriglia fu fatta dalla comunità montanara dell'alta valle, gelosa delle proprie autonomie, insofferente della presenza di magistrati e di soldataglia alle dipendenze dei vescovi-padroni di Vercelli e di Novara; "alternativa" in economia e nel vivere civile, alla società dei grossi centri borghesi della pianura, strumenti del potere vescovile in progressiva espansione. I montanari da sempre usi alle armi per procacciarsi il cibo con la caccia e per contrastare le prepotenze dei feudatari, avevano accolto e protetto gli Apostolici, il cui progetto evangelico, egualitario e fraterno, era del tutto omologo al loro vivere solidale e comunitario.

I dolciniani pertanto confluirono nella ribellione montanara; vi si fusero, probabilmente diventandone i dirigenti: ma pur sempre nella convinzione di lottare per l'avvento del Regno di pace, giustizia e amore che Gherardino ed i suoi sentivano vicino.

La storiografia non comprese questa continuità, né seppe individuare nella lotta armata quanto era dei montanari ribelli, e quanto di Dolcino. Lo capì invece il Movimento operaio che dalla seconda metà del secolo XIX "rivendicò" l'apostolo del "Gesù socialista", il "grande precursore" che seguì il percorso della croce nel destino dei montanari ribelli, sino al martirio, come poco più di due secoli dopo farà Tommaso Müntzer con i contadini di Germania.

Nel 1907, VI centenario del terribile supplizio di Dolcino e di Margherita, diecimila operai valsesiani e biellesi innalzarono, in vetta al Monte Massaro, nei luoghi dell'ultima resistenza, un obelisco alto 12 metri, che vent'anni dopo i clerico-fascisti faranno saltare. Sulla Casa del Popolo, sempre nel 1907, in Vercelli venne murata una lapide (nascosta poi durante il regime fascista, ritrovata una dozzina d'anni or sono, e finalmente apposta un mese fa nell'androne dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Vercelli, all'ingresso della ex chiesa di S. Chiara, nel corso principale della città), le cui parole testimoniano la continuità pacifista da Gherardo a Dolcino:

A Fra Dolcino

Qui in Vercelli

Dalla tirannide sacerdotale attanagliato ed arso

Il 1° giugno 1307

Per aver predicato

La pace e l'amore tra gli uomini

Oggi che l'antica speranza

Rivivente nei secoli

Sta con la nuova éra

Per diventare realtà

1° giugno 1907



Mi sia ora consentito ringraziare, a nome del Centro Studi Dolciniani e della Rivista Dolciniana, l'Amministrazione Comunale di Collecchio per aver patrocinato questo convegno; e di esprimere l'auspicio che oggi, quando anche il Capo della Chiesa di Roma confessa il peccato delle passate persecuzioni, ed il pluralismo religioso è una nuova realtà nella società italiana che accoglie immigrati di altre civiltà, si voglia degnamente ricordare, qui nel suo paese natale, il Segalello, il più mite e poetico di tutti coloro che testimoniarono sino all'estremo sacrificio, la fedeltà ai princìpi di libertà, eguaglianza e fraternità che l'amore del Cristo indicò agli uomini.

Voglio pure rendere merito a coloro che in questi anni contribuirono a riabilitare fra Gherardino: innanzi tutto a Rino Ferrari, che con il suo libro dedicato al "libertario di Dio" inaugurò nel 1977 la serie delle pubblicazioni del Centro Studi Dolciniani; allo storico amico Carlo Fornari, autore del prezioso Frati, antipapi ed eretici parmensi protagonisti delle lotte religiose medievali (1994), ed al prof. Luigi Spaggiari, che con il suo recentissimo romanzo Il giullare del vescovo ha fatto rivivere il mondo della società parmense dal 1260 al 1300.

Personalmente, debbo infine confessare il mio debito nei confronti di Gherardo e Dolcino.

Non avevo avuto interessi "religiosi", finché grazie a questi due "eretici" ho scoperto la differenza tra "religione" (che lega) e "fede" (il vangelo, che libera). Dietrich Bonhoeffer, teologo protestante impiccato a Buchenwald due giorni prima della Liberazione, lasciò scritto che il cristiano è al massimo grado libero, laico. quel "laico" che per fra Salimbene era un attributo da affiancare a "illetterato, idiota e stolto".

Se le vie del Signore sono infinite, il mio sentiero, che mi ha condotto alla chiesa valdese, passa dal Monte Massaro e dalla Segalara di Ozzano Taro.

martedì 1 aprile 2008

Calendario culti a Biella


Testamento biologico

A cura del dott. Libero Ciuffreda.
Direttore di oncologia medica del Coes
(Centro Oncologico ed Ematologico Subalpino).
Fa parte della Chiesa valdese di Chivasso.

Il tema della morte è molto impopolare per chiunque lo tratti. Ogni volta che mi trovo ad affrontarlo, come medico,oltre che come uomo, mi rendo conto delle difficoltà, talora laceranti che si scatenano. E’ altrettanto vero che è un tema che non si può nascondere o ignorare. Di fronte alla medicina tecnologica…( rianimazione, terapie intensive, trapianti...) le scelte si fanno sempre più difficili. Scelte che appaiono dedicate a pochi casi estremi, in realtà riguardano il destino di migliaia di persone sane che improvvisamente si ammalano (esiti di incidenti stradali…) o malate, affette da malattie oncologiche o croniche – degenerative. Nei Paesi sviluppati economicamente, la situazione socio assistenziale ha portato: progresso biomedico e biotecnologico; migliorate condizioni igienico sanitarie; invecchiamento della popolazione; cronicizzazione delle malattie, che sempre più curiamo ma non siamo in grado di guarire (tumori, Aids ecc.) In quasi tutte le persone alla fine della vita si pongono interrogativi: sospendere o meno itrattamenti? Che cosa avrebbe voluto quella persona se avesse potuto scegliere? E’ lecito interrompere la vita sia pure per porre fine a sofferenze intollerabili? Interrogativi etici quotidiani per coloro che svolgono la mia professione che hanno dei risvolti e delle dimensioni giuridico-deontologico, antropologiche e scientifiche, ai quali non ci si può sottrarre: fino a che punto può spingersi la libertà di decidere per sé? Qual è il limite, e prima ancora c’è un limite, oltre il quale l’”oggettività” di un valore ( come la vita, la salute) reagisce sulla “soggettività” delle interpretazioni e delle rivendicazioni dei titolari? Negli ultimi mesi le questioni di fine vita (accanimento terapeutico, eutanasia, “testamento biologico”) hanno mobilitato l’interesse dei media, sollevato conflitti etici e suscitato dibattiti nell’opinione pubblica. Da alcuni mesi la XII Commissione Igiene e Sanità del Senato, preseduta da Ignazio Marino, sta discutendo le numerose proposte di legge sul testamento Bio-logico depositate al Senato e dopo un certo ottimismo iniziale, in cui sembrava che un testo unificato potesse essere approvato, i lavori stanno registrando una fase di impasse. L’obiettivo non è di fare una legge per staccare la spina, al contrario dovrà essere una legge per dare a ciascuno la libertà di scegliere fino a che punto ci si vuole spingere con la tecnologia moderna. Numerose indagini fatte da Istituti demoscopici e giornali dimostrano che la maggior parte dei malati e una percentuale sempre più alta di popolazione sana è favorevole al principio dell’autodeterminazione ed è contrario all’accanimento terapeutico (distanasia). Da giugno 2006 per gli italiani è possibile redigere il proprio Testamento Biologico e la Fondazione Umberto Veronesi, ha creato un Movimento per il Testa-mento Biologico appunto formato da giuristi, notai, bioeticisti, clinici…. Il Comitato Nazionale Forense, nella seduta del 28/4/06 ha espresso parere favorevole: redazione del Testamento Biologico in forma di scrittura privata. Ribadiamo cos’è il T.B.: un documento con il quale ognuno esprime le proprie indicazioni circa le cure che vuole o non vuole ricevere, nel caso in cui perdesse la propria capacità di decidere in autonomia. Secondo molti il T.B. è una svolta a favore dei diritti del malato e ritengono che debba essere attuato al di là degli scontri politici e ideologici., superando i tempi e i
vuoti legislativi. I malati ed in particolare chi sta morendo ha dei diritti: a essere considerato come persona fino alla morte; a essere informato; a non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere; a partecipare alle decisioni che lo riguardano ed al rispetto della sua volontà; al sollievo del dolore e della sofferenza; a cure ed assistenza continue nell’ambiente desiderato; a non subire interventi che prolunghino il morire; a esprimere le sue emozioni; all’aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede; a non morire in isolamento e solitudine; a morire in pace e con dignità. Una legge sul Testamento Biologico rappresenta - ha detto il presidente onorario della commissione nazionale di bioetica D’Agostino - “un momento decisivo per la politica, ma non risolutivo per il dibattito etico”. Il giudizio negativo si fonda da un lato sull’affermazione che Dio solo è colui che dà la vita e la può togliere, da cui l’affermazione dell’intangibilità o della sacralità della vita. Dall’altro, si fonda su una concezione della vita che non ha una visione chiara né del rapporto, né della differenza tra vita biologica e vita biografica. Nel primo caso, nella Bibbia non vi è nulla di sacro, ma se Dio ha stabilito con noi una relazione, allora questa relazione è sacra, perché non noi, ma Dio è sacro…. E il nostro rapporto con Lui non finisce neppure con la morte.
(Romani 14). Se la vita biologica è separata da quella biografica e stabilire relazioni con la comunità umana non è più possibile……….sopravvivere come vegetale, come grumo di sofferenza e di dolore, non ha più nulla a che fare con una vita sensibile alla gioia per la bellezza del Creato, al dolore per l’assenza di chi si dona al servizio nei confronti della comunità…… Seneca diceva già nei primi anni dopo Cristo “il bene non sta nel vivere, ma nel vivere bene”. L’uomo saggio vive finchè deve, non finchè può… Egli pensa sempre la vita in termini di qualità, non in quantità.