lunedì 28 novembre 2016

Predicazione di domenica 27 novembre (prima domenica di Avvento) su Matteo 21,1-9 a cura di Massimiliano Zegna

Matteo 21, 1-9

Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero a Betfage, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: “Andate nella borgata che è di fronte a voi; troverete un'asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e conduceteli da me. Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li mandera”.
Questo avvenne affinchè si adempisse la parola del profeta:
Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mansueto e montato sopra un'asina, e un asinello, puledro d'asina”
I discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato; condussero l'asina e il puledro, vi misero sopra i loro mantelli e Gesù vi si pose a sedere. La maggior parte della folla stese i mantelli sulla via; altri tagliavano dei rami dagli alberi e la stendevano sulla via.Le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!”


Prima di iniziare questa predicazione nella Prima domenica di Avvento vorrei spiegare il perché della scelta di questo brano tratto dall'Evangelo di Matteo. In realtà seguendo Un giorno, una Parola” le famose letture bibliche giornaliere preparate ogni anno, a partire dal 1731, dalla chiesa evangelica dei Fratelli Moravi prevedeva come testo di predicazione il capitolo 23 versetti 5 – 8 del profeta Geremia. In questo brano che abbiamo letto anche stamane si legge “Ecco, i giorni vengono” dice il Signore, “in cui io farò sorgere a Davide un germoglio giusto, il quale regnerà da re e prospererà, eserciterà il diritto e la giustizia nel paese”.
Avevo cominciato a fare alcune letture di commento a questo brano ma mi sembrava che l'interpretazione in chiave neotestamentaria fosse troppo tirata per i capelli rispetto alla drammatica e complessa vicenda di Geremia. C'era qualcosa che non mi convinceva in questo accostamento tra Vecchio e Nuovo Testamento pur ritenendolo un libro profetico e quindi che avrebbe predetto in qualche modo che cosa sarebbe avvenuto con la nascita di Gesù Cristo.
Ho preferito allora abbandonare la ricerca e dedicarmi ad un libro che, secondo me, in modo più diretto aveva stabilito un trait d'union tra la parola antica del Vecchio testamento e la Buona Novella che caratterizza il Nuovo.
E questo brano l'ho trovato in un'altra lettura per questa prima Domenica d'Avvento proposta da “Un giorno, una parola” e che riguarda l'inizio del capitolo 21 dell'Evangelo di Matteo in cui si parla dell'entrata di Gesù a Gerusalemme a cavallo di un'asina e affiancato ad un puledro. Questo brano mi è sembrato il più adatto per celebrare questa prima domenica di avvento anche se normalmente viene letto durante la domenica delle Palme.
Tale brano viene spesso considerato un brano minore dell'Evangelo mentre secondo me è uno dei più significativi e belli contenuto in tutti e quattro Evangeli seppur con qualche lieve differenza.
La prima considerazione che vorrei fare è il richiamo forte all'Antico Testamento con la lettura di un brano del profeta Zaccaria al capitolo 9 versetto 9. Matteo richiama questi versetti: “Esulta grandemente o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e vittorioso, umile in groppa a un asino, sopra un puledro, il piccolo dell'asina”.
Questo il brano di Zaccaria riportato da Matteo. Ma Zaccaria prosegue al versetto 10: “ Io farò sparire i carri da Efraim, i cavalli da Gerusalemme e gli archi di guerra saranno distrutti. Egli parlerà di pace alle Nazioni, il suo dominio si estenderà da un mare all'altro, e dal fiume sino alle estremità della terra”.
Gesù allora vuole rendere reale la profezia di Zaccaria e arriva a Gerusalemme in groppa ad un'asina.
Sicuramente questa immagine è ben lontana da quella di chi vorrebbe considerare Gesù un re come quelli che abbiamo conosciuto nella storia oppure un capo rivoluzionario come forse volevano gli zeloti ossia i nazionalisti di Israele.
I re della storia arrivano in groppa di cavalli belli, bianchi, neri o color marrone. Sono preceduti da armate che preparano il suo cammino e sterminano chi gli si oppone.
L'umiltà invece è la caratteristica di Gesù che pur sapendo di essere figlio di Dio vuole dimostrare che la sua non è una missione espansionistica basata sullo sterminio dei nemici ma una missione di pace basata sulla fratellanza degli uomini.
Per questo motivo arriva in groppa ad un'asina che è un animale mite, mansueto, l'animale del contadino. Un animale però fortemente intelligente in contrapposizione al luogo comune del significato che si dà al somaro.
Proprio sul giornale “Il Biellese”di martedì scorso dal titolo: “Ardito, salvato l'asino della valle Cervo” ho letto un articolo che mi ha commosso in quanto avevano segnalato la situazione drammatica di un asino chiuso dentro una stalla da molto tempo al buio in mezzo ai suoi escrementi. Il proprietario era un anziano signore che non riusciva più a seguirlo e ad accudirlo. Sono arrivati dei volontari del “Rifugio degli asinelli” di Sala biellese per portarlo nel grande terreno dove vivono numerosi asini in gran parte provenienti da zone in cui venivano maltrattati o abbandonati. La mansuetudine degli asini serve anche per l'onoterapia che è appunto una cura attraverso il contatto con gli asini. Leggo su “La Stampa” in un articolo di Daniela Raspa di qualche anno fa che “Nel Rifugio degli asinelli Onlus di Sala Biellese ci si prende cura degli asini maltrattati, provvedendo alla loro protezione e sicurezza permanente. Fra queste docili bestiole si scelgono poi quelli più adatti all'onoterapia per bambini diversamente abili, procedendo all' addestramento. Si può anche adottare un asinello a distanza o richiederne l'affidamento, per dare il proprio contributo a questo nobile progetto”. La onoterapia (che è appunto la terapia che viene fatta con gli asini; onos in greco vuol dire appunto asino) coinvolge sia bambini che adulti: gli adulti imparano a prendersi cura degli asini portandoli in giro e spazzolandoli. Questo contatto vuol dire tantissimo per le persone diversamente abili perché l’asino - dicono gli addetti del rifugio -non ti giudicherà mai per come sei e le persone che hanno delle difficoltà psicologiche si sentono rassicurati da questa presenza che non ti mette mai alla prova. È un’iniezione di fiducia!

Ritornando all'Evangelo di Matteo mi ha colpito un brano della predicazione di Franco d'Amico. Ecco alcune sue frasi

Gesú entra a Gerusalemme dimostrando la sua regalità, e vuole spronare discepoli e non-discepoli a prendere posizione sulla sua persona. Matteo ci dice che la folla lo acclama come figlio di Davide, ma molto probabilmente questa folla è la folla dei pellegrini che si recano a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua, non la folla degli abitanti di Gerusalemme, che invece vorranno il suo sangue e la sua morte. A Gerusalemme si preferisce la liberazione di Barabba, che non teme di affrontare in armi gli occupanti stranieri.
Gesú arriva a Gerusalemme, scaccia i mercanti dal Tempio, quasi a prenderne possesso, ma la notte si ritira a Betania, non mostra alcuna mira politica, non si scaglia contro i Romani, non promette liberazione dagli occupanti stranieri.
Penso che anche noi saremmo caduti nell’equivoco di scambiare Gesù per un liberatore politico, e avremmo condannato come ambiguo il suo ingresso a Gerusalemme. Proiettare su Gesú la soddisfazione dei propri bisogni è uno sbaglio che facciamo di continuo anche noi.
C'è da chiedersi perché mai Gesù sia in possesso di una forza di attrazione e di coesione tali da attirare l’osanna della folla che cammina con lui.
Come si spiega il suo forte magnetismo che faceva accorrere la gente come se in città stesse per entrare un comandante reduce da una spedizione vittoriosa? Apparentemente non c'è spiegazione. Gesù manca di quei requisiti che sono segni di potere e di autorità. Non ha né il piglio del tribuno né lo sguardo del dominatore. E non dispone di una guardia del corpo. Anche come inviato da Dio, non ha nulla che possa evocare l'immagine tradizionale di Dio.
Come mai questo è un testo per il nostro avvento, tempo di preparazione al Natale?
Gesù entra in città disarmato, inerme, fragile della stessa fragilità che aveva rivelato nascendo a Betlemme.
Tra Betlemme e Gerusalemme corre una linea di fedeltà e di coerenza.
Paradossalmente proprio la mitezza, la fragilità, la povertà di Gesù esercitano un fascino straordinario in grado di accendere nei cuori semplici un fervore di gioiosa adesione perché propongono un altro volto di Dio.
Avvento significa venuta, arrivo. E l’arrivo di Gesú è sempre un avvento. L’arrivo di Gesú a Gerusalemme è un avvento vero, anzi l’unico avvento a Gerusalemme secondo l’evangelista Matteo”

Capiamo quello che sta succedendo a Natale? - si chiede e ci chiede Franco D'Amico -
Dio irrompe nella storia e nella vita di ciascuno di noi.
E nella vita di ognuno Dio viene entro le pieghe della vita quotidiana, nei modi meno vistosi, con discrezione: richiede di essere riconosciuto e accolto.
"Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).
E‘ nell‘attenzione interiore, cioè nella preghiera, che si percepisce l‘arrivo di Dio, si colgono le ispirazioni dello Spirito, e i criteri coi quali discernere il disegno di Dio sulla propria vita”.


Un'altra predicazione di cui mi piace riportare qualche brano è quella di David Buttita avvenuta nella chiesa valdese di Firenze.
Anche in questo caso riporto alcune frasi significative;

Il simbolo dell’asino, come ha detto il professor Cardini in uno dei suoi libri, negativo per il nostro mondo, positivo per il mondo semitico, configura due modi diversi di intendere la vita. Il re di Israele è l’uomo di pace che ascolta il suo Dio e si preoccupa del suo popolo e per queste cose è considerato un buon re, come si può leggere nei giudizi di merito presenti nella bibbia ebraica sui re di Israele e di Giuda che si basano su questi parametri principali.
Gesù non a caso quindi sceglie l’asinello, la soma dal verso stonato, la soma del contadino che sale e scende fra le colline riarse della terra di Israele, la soma del profeta. Non a caso Gesù si rifà a questa tradizione.
Lo vedremo poi nei giorni che seguiranno quanto egli rifiuti a costo della sua vita di essere il re che brandisce la spada, che vuole imporre con la forza la sua regalità. Eppure gli zeloti e i partigiani nazionalisti del suo popolo, oppresso dall’invasore romano, lo vorrebbero, come ogni altro re, armato e pronto ad uccidere per ristabilire il regno di Israele.
Lo vorrebbero così anche i Romani perché con la loro mentalità, dove solo il potere delle armi conta, risulta incomprensibile quest’uomo che li spiazza, che non li vuole morti, che non li caccia da Gerusalemme, che si fa arrestare urlando di non usare la forza per salvarlo ai suoi discepoli e in particolare a Pietro nel Getzemani.

Anche per noi quindi questo asinello può e deve diventare un simbolo positivo, nel mondo cristiano d’occidente per quanto vi è stata una forte commistione far archetipi culturali indoeuropei e semiti, l’asinello è diventato anche un simbolo positivo. Così lo ritroviamo dipinto da Giotto nella fuga in Egitto, lo ritroviamo nell’invenzione del presepio di Francesco d’Assisi...
Gesù lo ha scelto, questo ci deve bastare, egli ha dichiarato pubblicamente ai due discepoli di aver bisogno di un asinello. L’umile bestia da soma è nei piani della salvezza che Gesù ha voluto donare, il testo da questo punto di vista è molto chiaro. Anche gli animali, e anche i meno belli, più famosi per i loro calci ben assestati che per le loro prestazioni atletiche, stanno nei piani della salvezza di Dio...

Non montiamoci la testa, il Signore solo lui, può usarci perché possiamo essergli utili, egli solo lui può usarci e addomesticarci per annunciare al mondo il regno della pace e della felicità. Egli, solo lui, sa servirsi di noi, qualunque sia la cosa che sappiamo fare, come ha saputo servirsi dell’asino affinché egli, il nostro salvatore, possa entrare nelle città del mondo e nel cuore della gente con la cavalcatura del profeta della pace.
E’ per grazia che siamo salvati, non per le nostre doti, non per i nostri meriti, ma perché ubbidienti portiamo sulle nostre spalle il messaggio di Gesù in ogni luogo”.
Mi piace questo finale di David Buttita e vorrei solo aggiungere quanto ho già detto in precedenza. L'asino è simbolo di mitezza e di mansuetudine ma anche di intelligenza e di aiuto per gli altri. Anche noi dobbiamo essere così: pacifici ma intelligenti, mansueti ma decisi a difendere quello in cui crediamo, buoni ma sicuri delle nostre capacità, grazie all'aiuto di Dio, di cambiare in meglio la realtà in cui viviamo.

domenica 20 novembre 2016

Predicazione di domenica 20 novembre 2016 a cura di Marco Gisola

Apocalisse 21,1-7

  Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».
 
E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «Ogni cosa è compiuta. Io sono l'alfa e l'omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell'acqua della vita.  Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio.

Nel nostro calendario liturgico questa domenica è l’ultima domenica dell’anno ec­clesiastico, perché domenica prossima sarà la prima domenica di Avvento, che segna per noi l’inizio dell’anno liturgico che segue le tappe della vita di Gesù e quindi comincia con l’attesa della sua nascita. Oggi dunque si conclude un cammino che abbiamo iniziato un anno fa e che ci ha accompagnato dall’avvento verso il Natale, poi attraverso i vari momenti del ministero di Gesù, verso la passione e la Pasqua, poi fino a Pentecoste e poi fino a oggi; e dato che questa storia non ha una fine, la domenica di oggi si chiama anche “domenica dell’eternità”. L’anno liturgico si conclude dando uno sguardo a quello che ancora deve venire, al Regno di Dio, che è la nostra meta ultima, la cui caratteristica è appunto l’eternità.
Per questo il testo che è indicato per la predicazione di oggi è questa bellissima visione tratta dal libro dell’Apocalisse. È appunto una visione; nell’apocalisse l’autore racconta proprio le visioni che egli ha avuto, racconta lo sguardo che lui ha potuto gettare nel regno e racconta gli accadimenti che preparano la sua venuta. E racconta queste visioni a dei cristiani che hanno bisogno di consolazione e incoraggiamento perché minacciati dalle persecuzioni. Non sono dunque visioni in cui rifugiarsi per smettere di pensare ai problemi presenti, ma sono visioni che devono infondere coraggio e speranza per affrontare e superare i problemi, le difficoltà, le sofferenze. Il regno di Dio non è una bella favola da ascoltare quando si vuole uscire dalla realtà, ma al contrario, è la realtà futura che ci attende e che ci è promessa, che dà senso a questa nostra realtà presente e ci aiuta a viverla, a viverne anche gli aspetti meno gioiosi e più dolorosi.
Che cosa ci viene detto di questo regno? La prima cosa che ci viene detta è che è una novità, completamente nuova e diversa dalla realtà che stiamo vivendo ora. Il regno di Dio che attendiamo sarà una cosa totalmente nuova, che non possiamo immaginarci. L’apocalisse ci dice che in questo regno nuovo non ci sarà più dolore e non ci sarà più ciò che nella vita dà forse il dolore più grande, ovvero la morte dei nostri cari. Questa promessa è dunque una grande consolazione per chi vive situazioni di dolore estremo e di lutto. Non è un caso che questo testo venga letto spesso ai funerali, perché è un testo che parla esplicitamente della morte e del dolore e dice chiaramente che nel regno di Dio morte e dolore non ci saranno più. Chi vive veramente nella disperazione, può ascoltare e ricevere questo brano biblico come una promessa molto concreta di un futuro veramente diverso.
Questo testo biblico, come molti altri, ma forse in modo più chiaro di altri, ci dice che è il futuro che dà senso al nostro presente, è il futuro di Dio, cioè che Dio ci ha promesso, che da senso al nostro presente – proprio al nostro, al mio e al tuo presente. C’è, ovviamente, un futuro prossimo, che ci costruiamo noi e per cui vale la pena lavorare e lottare, per esempio per lasciare un mondo meno sporco e meno ingiusto ai nostri figli. Ma poi c’è un futuro che non ci costruiamo noi e che dà senso alla nostra vita, il futuro che Dio costruisce per noi, che è quello di cui parla l’Apocalisse. E se il regno di Dio è prima di tutto novità, ciò significa che noi ora apparteniamo ancora al vecchio mondo, alla vecchia terra, alle cose che passano, che sono provvisorie; e che anche la chiesa, che pure è radunata e voluta Dio, appartiene al vecchio, è provvisoria, destinata a passare insieme a tutte le altre cose vecchie.
Anche noi siamo provvisori. È provvisorio tutto ciò che facciamo, è provvisorio il bene che facciamo, per il quale dunque non dovremmo inorgoglirci; è provvisorio il male che facciamo, che è rimesso al giudizio e soprattutto al perdono di Dio. È provvisoria la nostra felicità, è provvisoria la nostra infelicità; la felicità è superata da una felicità nuova e l’infelicità è sconfitta da una felicità nuova.
Il motivo dell’assenza di dolore e la novità più grossa di questa visione, di questo annuncio del regno, è che Dio stesso sarà presente in esso insieme agli esseri umani. E sarà lui ad asciugare le loro lacrime: «egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».
I cristiani della fine del primo secolo erano incoraggiati e ricevevano speranza da questa fiducia nella nuova creazione, nel regno di Dio, perché ciò annunciava loro che anche le per­secuzioni che stavano subendo, per quanto fossero brutali, erano provvisorie e giustizia sarebbe stata fatta nel regno di Dio, dove tutto sarà nuovo. E lo stesso vale per noi perché non solo le persecuzioni, ma anche tutte le altre sofferenze scompariranno nella nuova creazione, alla presenza di Dio.
Scompariranno anche le incomprensioni, le inimicizie, i rancori, le gelosie; scompari­ranno i tanti dubbi che per forza di cose circondano la nostra stessa fede, scompariranno le mille domande che ci facciamo su tutte le ingiustizie che accadono intorno a noi, perché per tutti giustizia sarà fatta. Il nuovo di Dio, il futuro di Dio dà dunque senso al vecchio e al presente che viviamo ogni giorno. Ma sbaglieremmo se noi pensassimo a questo nuovo come a qualcosa di esclusivamente futuro. È vero che l’apocalisse descrive un regno totalmente futuro. Ma nel Nuovo Testamento c’è un altro brano che parla del “nuovo” di Dio e che non riguarda il futuro ma il presente: è il brano di 2 Corinzi 5,17: “Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove”.
Chi “è in Cristo” è una nuova creatura. Essere in Cristo è un tipico modo di dire di Paolo, vuol dire essere nella fede, vivere una vita nella fiducia e nella certezza dell’amore di Dio, dell’amore che Dio ha rivelato in Cristo. Il futuro è già arrivato in Cristo. Non è arrivato in modo definitivo, non ha trionfato in modo definitivo, e infatti il dolore e il lutto ci sono ancora, perché il nuovo è entrato nel vecchio nella persona di Gesù, che si è fatto uomo e quindi debole come noi. Il nuovo non è arrivato nella potenza trionfante di cui ci parla l'apocalisse, che parla del compimento del regno, ma nella debolezza di Gesù, che è l’inizio del regno.
C’è l’inizio del nuovo e l’inizio del regno, c’è quindi ancora contemporaneamente anche ancora il vecchio, con il suo dolore. Ma c’è già anche l’inizio del nuovo, l’inizio che conosciamo solo nella fede e che sperimentiamo – in mezzo a tutta la nostra debolezza – quando la speranza ha la meglio sulla disperazione, quando la giustizia ha la meglio sull’ingiustizia, quando la riconciliazione ha la meglio sul conflitto.
Il nuovo e il vecchio si intrecciano nella nostra esistenza di tutti i giorni, ma il nuovo del futuro di Dio è promesso ed è una certezza.
In questo brano dell'Apocalisse prende parola anche Dio: E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «Ogni cosa è compiuta. Io sono l'alfa e l'omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell'acqua della vita. Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio.
Io faccio nuove tutte le cose”, dice Dio; io faccio, non voi; Dio fa, non noi. E lo ribadisce dicendo: «Ogni cosa è compiuta. Io sono l'alfa e l'omega, il principio e la fine. Tutto è compiuto e Dio sta all’inizio e alla fine di tutto, della storia del mondo e anche all’inizio e alla fine della storia di ciascuno e ciascuna di noi.
Tutto è compiuto, ma dove e quando? In Cristo tutto è compiuto, nella morte e resurrezione di Gesù tutto è compiuto. Il nostro futuro è già stato scritto nel passato, in quel momento preciso della storia in cui Dio ha rivelato la sua grazia nella croce e nella resurrezione di Gesù. Per questo la promessa del futuro di Dio è certa e possiamo confidare in essa. Per questo il nuovo è già iniziato ed è in mezzo a noi.
Infine Dio dice al “veggente” dell’Apocalisse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere». Ciò che è vero, il vero e bello evangelo di Gesù Cristo va scritto, la vera e bella notizia del trionfo della vita sulla morte, la vera e bella novità che le nostre lacrime saranno asciugate da Dio in persona va messa nero su bianco e va annunciata e comunicata.
Che il Signore ci aiuti a credere nel nuovo del suo regno, a viverlo nella nostra vita di ogni giorno e a scriverlo per il nostro prossimo con le nostre parole e le nostre azioni.

lunedì 31 ottobre 2016

Predicazione della Domenica della Riforma su Romani 3,21-28 (preparata da Marco Gisola e letta da Massimiliano Zegna)

Romani 3, 21-28
Ora però, indipendentemente dalla legge, è stata manifestata la giustizia di Dio, della quale danno testimonianza la legge e i profeti: vale a dire la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono - infatti non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio - ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede nel suo sangue, per dimostrare la sua giustizia, avendo usato tolleranza verso i peccati commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza; e per dimostrare la sua giustizia nel tempo presente affinché egli sia giusto e giustifichi colui che ha fede in Gesù. Dov'è dunque il vanto? Esso è escluso. Per quale legge? Delle opere? No, ma per la legge della fede; poiché riteniamo che l'uomo è giustificato mediante la fede senza le opere della legge.

Questo brano, proposto per la domenica della Riforma, è un testo chiave del discorso di Paolo ai Romani ed è stato definito da Lutero il “punto capitale e centrale della lettera ai Romani e dell’intera Scrittura”.
Qui è infatti riassunto in poche e chiare parole il rapporto che c’è tra esseri umani e Dio, e il ruolo che essi hanno in questo rapporto che possono essere riassunti dal peccato radicale dell’essere umano e dalla grazia altrettanto radicale di Dio.
Infatti non esiste grazia di Dio senza peccato umano. Se si accetta l’idea della grazia di Dio non si può non accettare anche l’idea del peccato radicale dell’essere umano, perché rifiutare una delle due cose equivale a rifiutarle tutte e due.
Abbiamo ascoltato il racconto evangelico del fariseo e del pubblicano (Luca 18,9-14) che salgono entrambi al tempio a pregare, e il fariseo ringrazia di essere quello che è, e di non essere un peccatore come il pubblicano, mentre quest’ultimo chiede semplicemente perdono per le proprie colpe.
Il fariseo di questo racconto è un uomo che crede fermamente alla grazia di Dio, che crede fermamente in un Dio misericordioso; il suo errore non è quello di non credere alla grazia di Dio; il suo errore è quello di non credere al proprio peccato!
E proprio questo è il suo peccato principale: credere alla grazia senza credere al peccato. Ma non ha senso credere alla grazia, se non si crede al proprio peccato.
Non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio dice Paolo; tutti, non vi sono persone più vicine a Dio di altre: e questa è per noi la cosa più difficile da accettare, anche dopo duemila anni di cristianesimo e quasi cinquecento di Riforma.
È difficile accettare che davanti a Dio non c’è distinzione e che tutti sono peccatori, e quindi che ciascuno di noi è peccatore e lo è fino in fondo.
Come accettare che non ci sia distinzione davanti a Dio e alla sua grazia tra chi va ogni domenica al culto e chi non ci va mai? Come accettare che non ci sia distinzione davanti a Dio tra chi prega tutti i giorni e chi non prega mai?
Come accettare che non ci sia distinzione davanti a Dio tra noi, che ci riteniamo buoni cittadini, e qualcuno che è detenuto in carcere per aver commesso qualche reato? E in fondo: come accettare che non vi sia distinzione davanti a Dio e alla sua grazia tra il fariseo e il pubblicano?
Queste parole: “non c’è distinzione, tutti hanno peccato” sono il vero scandalo del cristianesimo, scandalo che rimarrà sempre uno scandalo, perché non potrà mai essere accettato pienamente. Forse a parole diciamo “è vero è proprio così, tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, ma in fondo in fondo ognuno pensa di essere un po’ meglio di altri.
Molto spesso diciamo: “eh sì, siamo tutti peccatori”. Ma quante volte dicendo questo pensiamo dentro di noi: “eh sì, io sono peccatore, proprio come tutti gli altri”? e quante volte la frase “siamo tutti peccatori” non ha piuttosto lo scopo di autogiustificarci nel senso del proverbiale mal comune mezzo gaudio?
Finché non verrà pienamente accettato lo scandalo del “non c’è distinzione” (cioè forse mai!) ci saranno sempre disuguaglianze tra gli esseri umani.
Perché è questo scandalo che elimina le disuguaglianze tra gli esseri umani, sono le parole “non c’è distinzione” che eliminano le disuguaglianze tra gli esseri umani. Solo se tutti siamo egualmente peccatori e egualmente privi della gloria di Dio, siamo tutti uguali.
Ma finché qualcuno pensa di essere un po’ meglio, un po’ meno peccatore, ci saranno sempre disuguaglianze e discriminazioni. È quando i farisei si ritengono migliori dei pubblicani che esistono le discriminazioni; è quando i bianchi si ritengono migliori dei neri, quando gli uomini si ritengono migliori delle donne, quando i laureati si ritengono migliori di quelli che hanno la seconda elementare, quando i “furbi” si ritengono migliori degli onesti, che esistono le discriminazioni …
Nel nostro orgoglio non sappiamo accettare di essere tutti uguali, ognuno vuole essere meglio e qualcosa di più di qualcun altro. Vogliamo essere diversi da quel che siamo, cioè tutti peccatori, senza distinzione.
La Parola di Dio ci dice e ci ripete che invece è proprio così, che “non c’è distinzione”.
Questo significa che davanti a Dio abbiamo tutti le stesse possibilità, perché l’unica possibilità per tutti è di ricevere da lui la sua grazia.
Di ricevere, non di offrire, non abbiamo nulla da offrirgli. l’unica possibilità che abbiamo davanti a Dio è quella che ci dà lui, è quella che lui, Dio, dona a chi vuole. Nella parabola questa possibilità la dà al pubblicano, sebbene il fariseo avesse – umanamente e religiosamente parlando - molto di più da offrirgli.
Questa possibilità è la grazia: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia mediante la redenzione che è in Cristo Gesù”.
Questa possibilità è un dono, ed è certa. È certa a meno che, come il fariseo, pensiamo di non averne bisogno, di non avere bisogno del dono della grazia, ma di avere noi qualcosa da offrire a Dio.
È certa, ma questa certezza non dipende da noi, dalle nostre opere, da ciò che facciamo. Anzi: è certa, proprio perché non dipende da noi, ma dipende esclusivamente da Dio, da ciò che lui ha fatto in Cristo per noi (mica per lui, per noi!): “la redenzione che è in Cristo Gesù.
Perché ottenessimo questo dono “Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede nel suo sangue”. Paolo usa il linguaggio sacrificale per dire che non è stato un regalino quello che Dio ci ha fatto, ma un enorme dono, un sacrificio, perché è costato la vita del suo figlio Gesù.
È perché è costato la vita di Gesù che quel dono è certo, che il perdono di Dio è una certezza, che la possibilità che Dio ci dona di ricominciare è certa.
La nostra fede riconosce e crede semplicemente tutto ciò. Non è un merito nemmeno la nostra fede. La fede non è un punto di arrivo. Il teologo svizzero Karl Barth commentando questi versetti scriveva: “Non c’è ... nessun itinerario di salvezza, nessuna scala graduata verso la fede... la fede è sempre l’inizio”.
La fede, la chiesa, il culto, la preghiera, la spiritualità personale non sono mai il punto di arrivo, bensì sempre quello di partenza. Punto di partenza per tentare ogni giorno di vivere una vita nella gratitudine e nel discepolato.
Per tentare ogni giorno di vivere riconoscenti per l'enorme dono che il Signore ci ha fatto e quindi di restituire al nostro prossimo, di condividere con il nostro prossimo un po’ di quel dono e di quell’amore che abbiamo ricevuti.
La grazia di Dio, che è dono, rivoluziona la nostra vita perché ci inserisce nella logica del dono e vuole che la logica del dono diventi la nostra vita quotidiana, che la logica del dono diventi il modo in cui guardiamo negli occhi il nostro prossimo.
È grazie a questo dono di Dio che viviamo, è grazie a questo dono di Dio che speriamo, è grazie a questo dono di Dio che amiamo. Perché non avendo nulla da offrire a Dio, se non confessargli il nostro peccato, riceviamo tutto da lui, per grazia, in dono.
La Riforma, iniziata 499 anni fa, in fondo ha voluto far riscoprire ai cristiani che il centro dell’evangelo è questo dono, questo “tutto” che Dio ci ha donato in Cristo, in cambio del “nulla” che possiamo offrirgli. E che su questo “tutto” che Dio ci ha donato abbiamo la possibilità di costruire una vita piena di amore, piena di speranza, piena di gioia.
Piena di tutto ciò, perché lui l’ha riempita, nella sua grazia, del suo dono di cui possiamo solo essere riconoscenti ogni giorno della nostra vita.

martedì 25 ottobre 2016

Culto di domenica 23 ottobre 2016 con la scuola domenicale su 1 Samuele 3 e 8

Biella, 23 ottobre 2016 - culto con scuola domenicale

Lettura: Isaia 55,6-11
preghiera
cercate Dio, trovatelo e fate di lui una forza nella vostra vita
senza di lui tutti i nostri sforzi si riducono in cenere
e le nostre aurore diventano più oscure delle notti
senza di lui, la vita è un dramma senza senso a cui mancano le scene decisive.
Ma con lui possiamo passare dalla fatica della disperazione, alla serenità della speranza.
Con lui possiamo passare dalla notte della disperazione all’alba della gioia. Amen (Martin Luther King)

Canto
La chiamata di Samuele
due settimane fa abbiamo avuto il primo incontro di scuola domenicale; in questi primi incontri leggiamo dei racconto dalla Bibbia – ovviamente – e in particolare dall’Antico Testamento, in cui si racconta…. La storia del popolo di Israele, cioè del popolo di Gesù, prima che nascesse Gesù, molto tempo prima. Abbiamo iniziato a leggere la storia di una persona che è stata importante per questo popolo: il suo nome è … Samuele.
In realtà abbiamo raccontato anche un po’ che cosa è successo prima che Samuele nascesse, e cioè che sua mamma – che si chiamava Anna - desiderava tanto un figlio ma non riusciva ad averne. Una volta all’anno lei e suo marito andavano a una festa in un santuario (un posto dove si andava per pregare) e lì c'era un sacerdote di nome Eli.
Eli vede che Anna era molto triste e Anna le dice che è triste perché vorrebbe avere un figlio ma non ci riesce. Eli le fa coraggio, le dice vedrai che prima o poi un figlio arriverà. Anna dice a Eli che se avesse avuto un bambino, lo avrebbe portato da lui al santuario perché vivesse con Eli e lo aiutasse. E grazie a Dio le cose vanno bene, perché Anna ha un bambino – il nostro Samuele. Appena Samuele è cresciuto un po’ Anna lo porta a Eli e lo lascia con lui.
Anna aveva anche fatto la promessa che non avrebbe tagliato i capelli di Samuele, come segno che Samuele era un servo di Dio. Così Samuele è un ragazzino con lunghi capelli e aiuta Eli in tutto il lavoro che c’è in quel santuario. Una sera, Eli era già a letto e anche Samuele va a dormire, si addormenta ma dopo un po’ succede una cosa strana...

Animazione Cestino con biglietti con i nomi dei bambini. Ogni bambino prende un bigliettino e chiama ad alta voce il nome che c’è scritto

Lettura: 1 Samuele 3,4-10.19-21
Questo racconto ci dice due cose:
La prima è che Samuele è un profeta: che cos’è un profeta nella Bibbia? Profeta significa che Dio gli parla e Samuele deve riferire ciò che Dio gli dice al popolo d’Israele. Da ora in poi Samuele avrà questo compito: riferire al popolo quello che Dio gli dice. Attraverso Samuele Dio parla a Israele proprio come aveva fatto con Mosè.
E noi? Probabilmente Dio non ha parlato direttamente a nessuno di noi e nessuno di noi è un profeta. Quindi questo che cosa vuol dire? Che Dio non ci parla? In qualche modo, Dio ci parla. E che modo ha scelto Dio per parlarci? Ha scelto delle persone che poi hanno scritto delle cose, e queste cose che hanno scritto sono raccolte … nella Bibbia! Dio parla anche a noi attraverso la Bibbia. È per questo che a scuola domenicale leggiamo la Bibbia e che al culto leggiamo la Bibbia, perché crediamo che attraverso questi antichi racconti Dio ci voglia parlare, Dio ci voglia dire qualcosa.
Anzi, leggendo la storia di Dio che chiama Samuele possiamo dire che Dio non solo ci parla attraverso la Bibbia, ma che Dio ci chiama attraverso la Bibbia. Come ha chiamato Samuele, Dio chiama anche noi. Samuele ha sentito la sua voce, noi no, noi sentiamo le parole che ci vengono dalla Bibbia, dalla Bibbia Dio ci chiama e vuole dare anche noi un compito come ha dato a Samuele.
Ogni racconto biblico ci dice qualcosa su che cosa Dio vuole da noi. Per questo noi leggiamo la Bibbia. È per questo che ora leggiamo ancora un racconto dalla storia di Samuele, una storia che succede un po’ di anni dopo, quando Samuele è già grande ed è un grande profeta conosciuto in tutto il suo popolo.
Canto
Lettura 1 Samuele 8,10-20
Il popolo d’Israele ai tempi di Samuele non aveva un re. Dio sceglieva degli uomini che metteva a capo del popolo quando ce n’era bisogno o quando c’era un problema da risolvere. Si chiamavano “giudici” ma erano anche capi militari.
E quindi non c’era un re, non c’era una monarchia, non c’era una dinastia. Perché il re era Dio, non ce n’era bisogno di un altro. E invece ora Israele vuole un re e quindi Dio ci rimane male, perché si sente rifiutato. Ci aspetteremmo che Dio si arrabbiasse con Israele e dicesse “assolutamente no, un re non ve lo darò mai”. E invece… Dio dice a Samuele: il popolo vuole un re? Tu dagli pure un re. Ma Israele deve sapere che vuol dire avere un re.
Abbiamo letto un brano di questo racconto. Che cosa dice Dio a Israele? Dice che il re che tanto desiderano…
«Questo sarà il modo di agire del re che regnerà su di voi. Egli prenderà i vostri figli e li metterà sui carri e fra i suoi cavalieri … li metterà ad arare le sue terre e a mietere i suoi campi...Prenderà le vostre figlie per farsene delle profumiere, delle cuoche, delle fornaie. Prenderà i vostri campi, le vostre vigne, i vostri migliori uliveti per darli ai suoi servitori. Prenderà la decima delle vostre sementi e delle vostre vigne … Prenderà i vostri servi, le vostre serve, il fiore della vostra gioventù … Prenderà la decima delle vostre greggi e voi sarete suoi schiavi.
Qual è la parola (il verbo) che incontriamo tante volte in questo racconto? Prenderà. Il re prenderà i vostri figli, le vostre figlie, i vostri campi, le vostre vigne, i vostri uliveti… Il re che Israele vuole avere prenderà. Israele deve saperlo, deve sapere a che cosa va incontro. Dio era il vero re d’Israele, ed era un re che dava. Il re che Israele vuole avere sarà un re che prende.
Dio ha dato a Israele la libertà, la terra, la legge… Il re che Israele vuole avere prenderà dal popolo tutte le cose che abbiamo sentito. Eppure Dio lascia che Israele abbia un re. Il primo re d'Israele si chiamerà Saul. Potremmo dire che Dio lascia libero Israele ma gli dice quali sono le conseguenze delle sue scelte.
Dio fa così anche con noi: ci lascia liberi di prendere le nostre decisioni, ma ci avverte delle conseguenze delle nostre scelte o ci chiede almeno di pensare a quali sono le conseguenze delle nostre scelte. Essere liberi, vuol dire essere responsabili di ciò che si decide.
Essere liberi è una cosa bellissima, ma qualche volta vuol dire anche essere liberi di sbagliare. Israele sbaglia, ma Dio lo lascia libero di sbagliare. Infatti Israele insiste e non ascolta quello che Dio gli ha detto attraverso Samuele.
Insiste perché? Perché vuole essere come gli altri popoli. Quando Samuele dice al popolo tutto quello che il re farà, tutto quello che prenderà, Israele risponde: «No! Ci sarà un re su di noi; anche noi saremo come tutte le nazioni». Israele vuole essere come gli altri popoli. Tutti hanno un re, perché non devo avere anch’io un re? Voglio essere come gli altri.
Anche a noi capita a volte di voler essere come gli altri. Ma non sempre voler essere come gli altri è una cosa buona. A volte è meglio essere diversi. Non è detto che la maggioranza abbia ragione. A volte la maggioranza sbaglia.
Dio vuole che decidiamo in base a quello che lui ci insegna, non in base alla maggioranza. Non è sempre giusto uniformarsi alla maggioranza, anche se a volte è più comodo. A volte è necessario far parte della minoranza, a volte è necessario avere il coraggio di andare controcorrente.
Vedete che questa antica storia – vecchia forse di 2.500 anni! - ha qualcosa da insegnarci? dall’errore di Israele che vuole avere un re per essere come gli altri popoli, impariamo qualcosa. Impariamo che non è sempre giusto fare quello che fanno tutti, quello che fa la maggioranza. Dobbiamo pensare con la nostra testa, scegliere liberamente che cosa è più giusto. In che senso Dio ci aiuta a scegliere? Non dicendoci esattamente che cosa dobbiamo fare, ma per esempio dicendoci che è meglio scegliere quello che è più giusto, piuttosto che quello che è più comodo.
Scegliere quello che non fa male agli altri, piuttosto quello che potrebbe far male a qualcuno. Oppure meglio ancora, scegliere di fare quello che fa del bene agli altri, piuttosto di scegliere di rimanere indifferenti. Ecco quello che ci insegna questo racconto. Israele avrà un re, come voleva avere, ma vedremo che Dio non rinuncerà a continuare a occuparsi del suo popolo e continuerà a parlargli e a provare ad aiutarlo, anche dopo che ha preso decisioni sbagliate.
Canto
Animazione: Dio chiama anche noi
prima di concludere il nostro culto, vogliamo tornare al tema che abbiamo toccato all’inizio: Dio parla anche a noi, Dio chiama anche noi. A scuola domenicale abbiamo fatto questo cartellone con i nomi dei bambini, per simboleggiare Dio che ci chiama e pronuncia i nostri nomi. Ma oggi che siamo tutti insieme, vogliamo aggiungere tutti i nostri nomi a questo cartellone, perché Dio chiama anche tutti e tutte noi.
(Si distribuiscono cartoncini colorati e pennarelli e ognuno/a scrive il proprio nome – i bambini li incollano sul cartellone che si unisce a quello già fatto a scuola domenicale)
Raccolta offerte e avvisi
Preghiera finale
Che Dio ti dia
per ogni tempesta un arcobaleno,
per ogni lacrima, un sorriso
per ogni affanno, una promessa
e una benedizione per ogni prova.
Per ogni problema che la vita ti mette davanti,
che Dio ti dia un fedele amico col quale condividerlo.
Per ogni sospiro, una dolce musica
e una risposta a ogni preghiera.
Che Dio ti dia il dono della sua pace e della sua gioia. Amen


Padre Nostro
canto
Benedizione

domenica 2 ottobre 2016

Predicazione di domenica 2 ottobre su 2 Corinzi 9,6-15 a cura di Marco Gisola


2 Corinzi 9,6-15 (lettura di appoggio: 2 Corinzi 8,7-15)
Ora dico questo: chi semina scarsamente mieterà altresì scarsamente; e chi semina abbondantemente mieterà altresì abbondantemente. Dia ciascuno come ha deliberato in cuor suo; non di mala voglia, né per forza, perché Dio ama un donatore gioioso. Dio è potente da far abbondare su di voi ogni grazia, affinché, avendo sempre in ogni cosa tutto quel che vi è necessario, abbondiate per ogni opera buona; come sta scritto: «Egli ha profuso, egli ha dato ai poveri,la sua giustizia dura in eterno».Colui che fornisce al seminatore la semenza e il pane da mangiare, fornirà e moltiplicherà la semenza vostra e accrescerà i frutti della vostra giustizia. Così, arricchiti in ogni cosa, potrete esercitare una larga generosità, la quale produrrà rendimento di grazie a Dio per mezzo di noi. Perché l'adempimento di questo servizio sacro non solo supplisce ai bisogni dei santi ma più ancora produce abbondanza di ringraziamenti a Dio; perché la prova pratica fornita da questa sovvenzione li porta a glorificare Dio per l'ubbidienza con cui professate il vangelo di Cristo e per la generosità della vostra comunione con loro e con tutti. Essi pregano per voi, perché vi amano a causa della grazia sovrabbondante che Dio vi ha concessa. Ringraziato sia Dio per il suo dono ineffabile!

Oggi la Parola di Dio ci parla di soldi. Nella seconda lettera ai Corinzi, infatti, Paolo dedica ben due capitoli – l’8 e il 9 – alla questione di una colletta che le altre chiese fanno per i cristiani di Gerusalemme. Gli esperti ci dicono che questa lettera forse raccoglie frammenti di diverse lettere indirizzate alla chiesa di Corinto, che poi qualcuno ha trovato e messo insieme. In effetti sarebbe un po’ strano che Paolo affrontasse questo argomento al capitolo 8 e poi ricominciasse a parlarne al cap. 9, come se non ne avesse ancora parlato. Comunque, che si tratti di una lettera o di più lettere poi messe insieme, è chiaro per Paolo si tratta di una questione molto importante.
Non sappiamo esattamente che cosa fosse successo a Gerusalemme, ma evidentemente i cristiani di quella chiesa passano un brutto momento dal punto di vista del loro sostentamento. E si trattava della chiesa-madre, la chiesa dei primi apostoli, quindi una chiesa che ha un valore simbolico molto alto. Paolo infatti parla dei cristiani di Gerusalemme definendoli “santi”. Paolo, all’inizio del capitolo 9 parla della “sovvenzione destinata ai santi”.
Che cosa ci dice questo brano di Paolo, che qui esorta i cristiani di Corinto a raccogliere denaro da mandare in aiuto ai cristiani di Gerusalemme? Ci dice alcune cose:

1. La prima è che la nostra vita materiale è una questione di fede. O se preferite, che la nostra fede riguarda anche la sfera materiale, economica della nostra vita. La fede tocca il nostro portafoglio. Perché c’è qualcuno che ha meno di te, che ha più bisogno di te. Il donare fa parte della vita di fede, è una conseguenza della fede.
E come? Alcune indicazioni ce le dà il capitolo 8, in cui Paolo tratta lo stesso tema, da cui abbiamo ascoltato alcuni versetti. Paolo lì invita i Corinzi a dare “secondo le vostre possibilità” (8,11). Non c’è legge, non c’è tassa, Paolo non prescrive quanto i Corinzi debbano dare per le necessità dei cristiani di Gerusalemme. Dice loro: date secondo le vostre possibilità. In questo, come in molte scelte che i cristiani sono chiamati a fare, c’è libertà. E quindi c’è responsabilità, sei libero di donare quello che ritieni giusto sia secondo le tue possibilità, sei quindi anche responsabile di donare secondo le tue possibilità.
Qui nel cap. 9 Paolo dice che bisogna donare con generosità e non di malavoglia o per forza.
Se è per forza non è più un dono; per forza si paga una multa: a me è successo: sono passato col rosso, ed era giusto che pagassi, ma non l’ho fatto volentieri…! Un dono invece non si fa per forza, ma con gioia. E Dio ama un donatore gioioso. Il tuo dono deve renderti gioioso; lo avrete sperimentato tutti: fare un regalo gradito, che suscita gioia in chi lo riceve, rende gioioso anche chi dona.
Dunque donare liberamente, responsabilmente, generosamente (non le briciole del nostro superfluo) e con gioia. Questo è gradito a Dio. 
 
2. Che cos’è questo donare? Paolo non usa il termine colletta, ma usa altre parole: parla di “opera di grazia” e arriva a dire che si tratta di un “servizio sacro”, quindi un atto di culto (9,12). E sapete qual’è la parola che la nostra Bibbia traduce con “sovvenzione”? È diaconia, cioè servizio. Donare è culto, è servizio. E qual è il criterio con cui si rende questo servizio? Nel cap. 8 - scusate se salto un po’ di qua e un po’ di là – è quello che Dio stesso ha applicato quando ha donato la manna al suo popolo nel deserto: «Chi aveva raccolto molto non ne ebbe di troppo, e chi aveva raccolto poco, non ne ebbe troppo poco». Nè troppo, né troppo poco: questo è ciò che Dio vuole. A differenza degli esseri umani: qualcuno vuole molto e ha troppo, cosicché la conseguenza è che per forza qualcun altro ha troppo poco.
E Paolo spiega, dicendo: “la vostra abbondanza serve a supplire al loro bisogno, perché la loro abbondanza supplisca altresì al vostro bisogno, affinché ci sia uguaglianza, secondo quel che è scritto: «Chi aveva raccolto molto non ne ebbe di troppo, e chi aveva raccolto poco, non ne ebbe troppo poco».
Uguaglianza è ciò che Dio vuole. E l'uguaglianza – visto che non c’è – si raggiunge con la condivisione, con il dono di chi ha di più a chi ha dimeno: “la vostra abbondanza serve a supplire al loro bisogno” : condivisione, per raggiungere l’obiettivo dell'uguaglianza. Dunque “diaconia”, “servizio sacro”… Paolo usa termini cultuali per parlare del dono. Il dono fa parte del culto quotidiano che rendiamo a Dio, condividendo con chi ha meno di noi e più bisogno di noi. Il dono è diaconia ed è culto.

3. Inserisco qui il tema di cui di solito non si parla volentieri: le contribuzioni alla nostra cassa culto. anch’io non ne parlo volentieri, perché mi sembra sempre di chiedere soldi per me, per il mio stipendio.
Paolo parla di una colletta per i cristiani di Gerusalemme che sono in difficoltà economiche, non parla degli “stipendi” o del mantenimento degli apostoli. Tanto più che lui si manteneva lavorando… Si tratta però sempre di un “dare”, si tratta sempre di un “dono” e di condivisione. La nostra chiesa ha sempre fatto la scelta precisa che siano i membri di chiesa a mantenere i loro pastori e pastore. Non direttamente, ma attraverso la Tavola che garantisce quella uguaglianza di cui parlavano prima, perché tutti i pastori e le pastore ricevono lo stesso stipendio (a parte una piccola anzianità di servizio).
Per questo non si usa l’otto per mille per pagare i pastori. Innanzitutto perché l'otto per mille è denaro dello Stato mentre la predicazione, la cura pastorale, la catechesi è una cosa della chiesa, anzi è la vocazione della chiesa che con lo Stato non c’entra. E poi per mantenere quel legame di condivisione tra pastori e membri di chiesa: i pastori mettono il loro tempo, la loro formazione, le loro capacità, il loro impegno – sta a voi valutare se ciò sia sufficiente o no, se risponde ai vostri bisogni oppure no – e i membri di chiesa ci mettono il denaro perché i pastori possano vivere senza fare un altro lavoro.
Forse questo non c’entra direttamente con la colletta di cui parla Paolo, ma mi sembra che con le contribuzioni che siamo chiamati a dare, c’entrino i criteri che Paolo scrive qui: libertà, responsabilità, generosità, gioia. Io non vorrei che nemmeno un centesimo del mio stipendio sia dato di malavoglia o senza gioia.
Dovrebbe essere, secondo me – e forse Paolo sarebbe d’accordo – un circolo virtuoso di condivisione: io mi impegno a cercare – poi se ci riesco è un altro discorso… - di fare predicazioni più o meno decenti, di preparare studi biblici attraverso cui si possa crescere insieme, a stare accanto alle persone che lo desiderano nella cura pastorale... E voi vi impegnate con il vostro denaro affinché io possa fare tutto questo senza dover fare l’operaio o l’infermiere per mantenermi.

4. Chiudo la parentesi “contribuzioni” e torno al testo per dire un’ultima cosa: che cosa produce questo donare e ricevere, questo scambio virtuoso di doni? Paolo scrive: l'adempimento di questo servizio sacro non solo supplisce ai bisogni dei santi ma più ancora produce abbondanza di ringraziamenti a Dio […] Essi pregano per voi, perché vi amano a causa della grazia sovrabbondante che Dio vi ha concessa.
Questo scambio di donare e ricevere produce innanzitutto abbondanza di ringraziamenti a Dio e poi la preghiera di chi riceve per chi dona. Produce insomma lode a Dio e comunione tra le chiese e tra i cristiani.
Il dono, la condivisione hanno un grande effetto, secondo Paolo. La fede tocca la nostra vita materiale, dicevamo all’inizio, ma il materiale diventa spirituale. La condivisione materiale produce frutti spirituali: lode a Dio e preghiera gli uni per gli altri. Il materiale è spirituale.
Questo vale per la sottoscrizione per i terremotati come per le contribuzione per la vita della nostra chiesa, come per qualunque altra condivisione materiale.
Tutto ciò è fondato nell’opera di “ Gesù Cristo il quale – scrive Paolo al cap. 8 - , essendo ricco, si è fatto povero per voi, affinché, mediante la sua povertà, voi poteste diventare ricchi”. Per condividere ciò che si ha non è necessario essere ricchi di beni o di proprietà. È sufficiente essere ricchi della grazia di Dio, che è il donatore per definizione.
Per questo Paolo conclude la sua esortazione a dare con una lode a colui che ha dato per primo: “Ringraziato sia Dio per il suo dono ineffabile! Che è Gesù Cristo, che ha dato se stesso per noi, affinché anche noi imparassimo a donare e condividere con gioia, per far crescere la comunione nella chiesa e per dare gloria a Dio.

martedì 27 settembre 2016

Predicazione di domenica 25 settembre su Romani 14,7-9 a cura di Massimiliano Zegna

Romani 14,17-19

perché il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo. Poiché chi serve Cristo in questo, è gradito a Dio e approvato dagli uomini. Cerchiamo dunque di conseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione.


Vorrei cominciare questa mia predicazione con la lettura di alcuni brani della prefazione che ha fatto Martin Lutero all'Epistola ai Romani veramente molto interessante e importante.

In questa epistola cogliamo il pensiero centrale del Nuovo Testamento, il Vangelo nella sua espressione più pura. Sarebbe bene che un cristiano non imparasse soltanto l’epistola a memoria, parola per parola, ma che la meditasse continuamente come pane quotidiano dell’anima. L’epistola non può mai venire letta e meditata con sufficiente attenzione. Più la si legge, più la riteniamo preziosa e più la si gusta. Perciò anch’io voglio renderle un servizio, per quanto Dio mi concede, e con questa prefazione introdurne la lettura, sì che ognuno la possa intendere bene. Fino ad oggi questa lettera è stata molto oscura con commenti e ogni genere di chiacchiere, mentre essa stessa è una luce capace di illuminare tutta la Sacra Scrittura.
Anzitutto dobbiamo conoscere la lingua usata nell’epistola, dobbiamo sapere che cosa san Paolo intenda con parole come legge, peccato, grazia, fede, giustizia, carne, spirito e simili, altrimenti si legge l’epistola senza trame vantaggio. La parola legge non va intesa qui in senso umano, quasi che nell’epistola venisse insegnato quali opere si debbano o non si debbano fare, come avviene nelle leggi umane, secondo le quali si cerca di adempiere la legge con opere, senza parteciparvi col cuore. Dio giudica secondo i sentimenti del cuore. Perciò la sua legge esige la dedizione del cuore e non si appaga delle opere, e condanna le opere compiute senza dedizione del cuore, come ipocrisia e menzogna.

Anche quando osservi esteriormente la legge con opere per paura di punizione o per desiderio di ricompensa, fai ogni cosa senza vero piacere e senza amore per la legge, ma piuttosto di malavoglia e per costrizione, e preferiresti agire diversamente, se non vi fosse la legge. Ciò significa che tu sei in fondo al cuore nemico della legge. Che cosa importa che insegni agli altri a non rubare, se poi nel cuore sei un ladro, e lo saresti volentieri apertamente, se tu lo potessi? Sebbene poi anche l’opera esterna non si farà attendere a lungo in simili ipocriti. Così dunque ammaestri gli altri, ma tu stesso non sai quello che insegni e neppure hai rettamente inteso la legge, perché essa accresce il peccato, come dice san Paolo al capitolo 5 (v. 20). Esigendo essa ciò che l’uomo non è in grado di compiere, lo rende maggiormente nemico della legge”

Fede – scrive ancora Martin Lutero - è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio, tanto certa di questa che morrebbe mille volte piuttosto che dubitarne. E una tale fiducia e conoscenza della grazia divina rende lieti, baldanzosi, e giocondi dinanzi a Dio e a tutte le creature per l’opera dello Spirito Santo nella fede. Perciò l’uomo diviene volonteroso, senza costrizione, e lieto nel fare del bene a ognuno, nel servire ognuno, nel sopportare ogni cosa, nell’amore e nella lode di Dio che ha manifestato in lui tale grazia. È quindi impossibile separare le opere dalla fede, come è impossibile separare dal fuoco calore e splendore. Perciò guardati dai tuoi falsi pensieri e dalle chiacchiere vane, che vogliono essere intelligenti, dare giudizi sulla fede e le opere buone mentre sono sommamente stolti. Chiedi a Dio che operi la fede in te, altrimenti qualunque cosa tu voglia o possa immaginare e fare, rimarrai eternamente senza fede”


Dopo aver letto alcuni commenti riguardanti questo brano dell'epistola di Paolo ai Romani mi sono reso conto della grande attualità di questo scritto che segna il passaggio in contesti religiosi e multiculturali diversi.

Scrive don Sergio Carrarini, parroco di Verona, in un interessante commento ecumenico all'epistola che “per compiere questo passaggio (simile a quello che hanno dovuto fare gli ebrei diventati cristiani) anche noi dobbiamo superare la vecchia mentalità, legata alla legge e alle pratiche religiose, per cogliere l’essenziale della fede (ciò che è irrinunciabile) e metterlo come punto di partenza di una nuova sintesi teologica, di una nuova prassi religiosa più in sintonia con la cultura moderna.
Per dialogare in verità con altre culture e religioni bisogna sfrondare ciò che non è importante, ciò che è incrostazione del passato, e mantenere saldo ciò che è fondamentale. Ci faremo aiutare da Paolo in questa “potatura” radicale della nostra tradizione religiosa, per rinvigorire la pianta della Chiesa e farla rifiorire nell’annuncio del vangelo agli uomini d’oggi”.

Nei versetti 17-19 del capitolo 14 che abbiamo letto vi sono frasi significative che vanno al di là del problema su cosa mangiare o non mangiare.
Per restare sul tema del mangiare oggi vi è più consapevolezza grazie alla medicina e all'educazione alimentare di ciò che fa meglio alla nostra salute e al nostro corpo ed alle differenze fra ciascuno di noi: c'è chi è diabetico, chi intollerante al glutine, chi non tollera il lattosio.
Su questo sarà il nostro medico o le nostre letture consapevoli, che servono a capire quali sono gli alimenti più consoni al nostro corpo. E questo riguarda la tolleranza o l'intolleranza alimentare
Però poi Paolo pone un problema riguardante il rapporto fra diverse concezioni religiose e modi di porsi rispetto al cibo.
Io so e sono persuaso nel Signore Gesù che nulla è impuro a se stesso, però se pensa che una cosa è impura, per lui è impura”
La mia riflessione riguarda questo aspetto innanzitutto: vi sono tradizioni alimentari varie fra popoli diversi per motivi religiosi o culturali. Ad esempio per gli ebrei e gli islamici è considerato impuro il consumo di carne di maiale, per gli induisti è vietato cibarsi di carne bovina.
Quindi per questi popoli se una cosa di questo tipo è impura va bene così. Però la comprensione e la tolleranza significano che per altre sensibilità umane o religiose è invece possibile cibarsi di qualunque tipo di carne ovina, bovina, equina. L'importante è che non vi siano veti incrociati o regole assolute o peggio ancora imposizioni. Sarebbe infatti grave se i cristiani imponessero ai musulmani o agli ebrei di mangiare carne di maiale o vice versa se i musulmani vietassero ai cristiani di mangiare quello che a loro aggrada. Poi è chiaro che quando si ospita a casa propria una persona, si fa in modo di chiedere che cosa preferisca mangiare unitamente alla disponibilità che vi è nella propria cucina.
Simile discorso vale per ogni tipo di integralismo alimentare. Se uno è vegetariano o vegano fa bene a seguire la propria dieta ma sarebbe inopportuno che imponesse a tutti di seguire il suo stesso comportamento alimentare. Viceversa se uno è carnivoro non deve imporre ad un altro le proprie abitudini alimentari. Io uso come metro di misura quello che mi insegnava mia nonna secondo cui la cosa importante è mangiare un po' di tutto quel che piace senza esagerare nelle quantità.
Una cosa importante è invece valorizzare come proprio in questi giorni sta facendo il Salone del Gusto e Terra Madre a Torino quello di scegliere gli alimenti più genuini di tutto il mondo per una conoscenza reciproca di sapori nuovi a beneficio dei produttori e dei consumatori e soprattutto per la salute.
Anche se contemporaneamente bisogna aiutare i bambini che muoiono di fame e di sete e accanto alla nostra giusta ricerca dell'alimentazione migliore dobbiamo aiutare chi è privo di qualunque tipo di alimentazione.
Ben vengano le campagne contro gli sprechi alimentari e gli aiuti verso chi ha poco da mangiare. Positive sono le campagne di sostegno per chi ha perso casa e lavoro a causa del terremoto anche attraverso raccolte fondi a questo scopo.

La questione cibo diventa per l'apostolo Paolo anche l'occasione per questa importante riflessione: “il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo. Poiché chi serve Cristo in questo, è gradito a Dio e approvato dagli uomini. Cerchiamo dunque di conseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione”.

La parola pace è dunque scritta due volte in queste tre brevi frasi e diventa essenziale per la tolleranza reciproca.
Del resto guardate oggi cosa conduce la guerra. Oltre al terrorismo e agli attentati non vi neppure più la consapevolezza di che cosa si vuole ottenere da parte delle grandi o piccole potenze. E' indicativa una delle ultime stragi di civili in Medio Oriente. Si è tentato di compiere una tregua fra i bombardamenti per permettere gli aiuti umanitari. Poi durante la tregua si sono fatte piovere bombe su chi era già colpito dalla guerra. “E' stato un tragico errore” hanno detto ma nessuno si è presa la responsabilità di quanto accaduto. E probabilmente anche i grandi della terra non riescono neppure più a fermare e capire chi sta da una parte e chi dall'altra del conflitto per contrastare il terrorismo e la guerra. Confusione produce confusione. Guerra produce altre guerre. Violenza produce altra violenza.
A questo punto ci chiediamo noi, poveri puntini nell'universo, che cosa possiamo fare per interrompere queste stragi continue che ormai non ci procurano neppure sgomento perché siamo abituati a leggere parecchi numeri di morte che non ci fanno neppure impressione.
Io penso che possiamo fare anche noi qualcosa, come si dice, “nel nostro piccolo, della nostra piccola chiesa”.
Anche il solo fatto di essere convinti della giustezza della nostra vita alla ricerca della pace può essere di stimolo l'uno verso l'altro a credere nel cambiamento.
Poi sarà difficile vedere noi la fine delle guerre ed il trionfo della pace però potremo dire di aver portato il nostro granellino di speranza.
Qualcuno di voi sa che io sto aiutando gli studenti della terza media di Mosso nella loro impresa di salvaguardia dell'Isola di Budelli in Sardegna. Queste ragazze e ragazzi continuano a commuovermi per la loro caparbietà dimostrando che anche un pugno di piccole donne e uomini di una classe di una scuola media in uno sperduto paesino di montagna può avere qualche ruolo nel mondo.
E così la scorsa settimana questi ragazzi sono andati in Sardegna, hanno visitato Budelli, hanno riportato sulla spiaggia rosa una sacchetto di sabbia che qualche turista pentito ha deciso di restituire dopo averla trafugata. Inoltre hanno portato a casa un sacchetto di rifiuti per capire come mai erano stati buttati in quel posto meraviglioso.
Qualcuno dirà che sono solo gesti simbolici e che non cambieranno le cose. Io credo però che questi ragazzi stanno comprendendo come si può contribuire alla edificazione di una società nuova. E tutti noi abbiamo la possibilità di portare un nostro sacchetto di sabbia nel terreno che riusciamo a coltivare con l'aiuto di Dio.