Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo invano; perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano
Dio ha un nome. È un fatto su cui forse non ci fermiamo molto spesso a riflettere, perché nella nostra preghiera e nel nostro culto non usiamo il nome di Dio, e anche nella traduzione della Bibbia in italiano non è così evidente che Dio abbia un nome e quale esso sia. Per questo è bene che ci fermiamo un momento sul racconto del terzo capitolo dell’Esodo, in cui Dio rivela il suo nome a Mosè.
Dio ha un nome. È un fatto su cui forse non ci fermiamo molto spesso a riflettere, perché nella nostra preghiera e nel nostro culto non usiamo il nome di Dio, e anche nella traduzione della Bibbia in italiano non è così evidente che Dio abbia un nome e quale esso sia. Per questo è bene che ci fermiamo un momento sul racconto del terzo capitolo dell’Esodo, in cui Dio rivela il suo nome a Mosè.
Mosè
si trova nel paese di Madian, dove era fuggito dopo aver ucciso un
egiziano per timore di essere a sua volta ucciso. Qui si era sposato
e lavorava con il suocero come pastore di pecore. Mentre andava in
cerca di buoni pascoli per le sue pecore, aveva visto un pruno che
bruciava ma non si consumava mai. In quel momento Dio inizia a
parlargli.
Dio
vuole rimandarlo in Egitto allo scopo di liberare Israele dalla
schiavitù e condurlo nella terra promessa. Mosè a un certo punto
chiede a Dio quale sia il suo nome. Se infatti gli israeliti gli
chiederanno chi è che lo ha mandato, Mosè dovrà saper dire loro il
nome di Dio.
E
Dio rivela a Mosè il suo nome. Un nome, a dire il vero, piuttosto
enigmatico. Il nome di Dio in ebraico è composto da quattro lettere,
quattro consonanti, perché nell’ebraico si scrivono soltanto le
consonanti, mentre le vocali vengono solamente pronunciate, ma non
scritte. Questo nome ha un significato un po’ enigmatico e vuol
dire all’incirca “colui che è”.
Gli
ebrei hanno preso molto sul serio questo comandamento e, per evitare
di nominare il nome di Dio invano, hanno deciso di non nominarlo mai,
cioè di non chiamarlo mai per nome, proprio per evitare ogni
possibilità di abusare del nome di Dio.
Questo
è il motivo per cui oggi non si conosce più come venisse
pronunciato il nome di Dio. Di questo nome sappiamo solo le
consonanti, che trasportate nel nostro alfabeto sono
j h w h, ma non
siamo più in grado di pronunciarlo e nemmeno di tradurlo.
Per
tradurlo, si segue l’uso degli ebrei: ogni volta che nella Bibbia
incontrano il nome di Dio, essi leggono Adonai,
che vuole dire “Signore”. Allo stesso modo la nostra traduzione
della Bibbia, traduce il nome di Dio con Signore,
scrivendolo in maiuscoletto.
Che
cosa significa questo enigmatico nome di Dio? O che cosa significa
l’altra altrettanto enigmatica risposta di Dio a Mosè quando Dio
dice: “io sono colui che sono”? Queste affermazioni di Dio hanno
fanno diventare matti gli studiosi della Bibbia.
Un
po’ di aiuto ce lo dà la grammatica. In ebraico il verbo essere
significa soprattutto esserci,
essere presente.
Il nome di Dio esprime il fatto che Dio è presente, è lì per
Israele, è vicino a Israele.
E
l’affermazione “io sono colui che sono” significa che Dio è
sempre uguale nel tempo, cioè che è sempre fedele a se stesso e
alle sue promesse. In questo senso il nome di Dio è già una
promessa: Dio dice a Israele che è al suo fianco e sarà sempre
al suo fianco, che agisce in suo favore e agirà sempre
in suo favore.
Il
nome nella Bibbia ha una grande importanza. I nomi esprimono sempre
qualcosa di chi li porta, e nei momenti cruciali della loro vita Dio
cambia il nome delle persone, per esempio Giacobbe diventa Israele,
diventa cioè il progenitore di un popolo. Nel racconto della
creazione, l’essere umano è incaricato di dare il nome agli
animali, e questo esprime il fatto che essi gli saranno sottomessi.
Dio invece non riceve il suo nome da nessuno. È l’unico, nella
Bibbia, che si dà il proprio nome, poiché Dio non è sottoposto a
nessuno.
Dopo
questa lunga ma necessaria premessa, possiamo ora ritornare da dove
eravamo partiti: Dio ha un nome.
Avere
un nome significa potere essere chiamati; potere essere trovati,
potere essere invocati. Il nome di Dio si può usare; è vietato
l’abuso del nome di Dio, ma non il suo uso.
Avere
un nome vuol dire essere un soggetto, una persona.
Quando il nome ti viene tolto, ti viene tolta anche la tua
personalità, e diventi un oggetto, come per esempio i prigionieri
nei lager nazisti, che non avevano più il loro nome, ma erano
ridotti a essere un numero. Dio dunque è una persona, una persona
con la quale si può dialogare e discutere; di questo vi sono nella
Bibbia molti esempi.
La
conoscenza del nome stabilisce una relazione, un rapporto, un
dialogo. Dio è un “Tu” e in un certo senso possiamo dire che
Dio, rivelandoci il suo nome, ci autorizza a dargli del tu. Così
come il nostro nome non serve tanto a noi, quanto agli altri,
affinché gli altri
ci possano
chiamare, allo stesso modo, il nome di Dio non serve a Dio, ma a noi,
che così lo possiamo chiamare per nome.
Dio
vuole dunque dialogare con noi, intende ascoltarci. Un Dio che ci
dona il suo nome affinché lo chiamiamo, è un Dio che è disposto ad
ascoltare quello che abbiamo da dire. Non è un Dio autoritario, ma
un Dio che interpella gli esseri umani e che si lascia interpellare
dagli esseri umani. Dio ci dà il suo nome, affinché noi lo usiamo
per chiamarlo, invocarlo, e stabilisce così una relazione con noi.
Non
è quindi vietato l’uso
del nome di Dio, come è vietato per esempio l’uso delle immagini
di Dio. È però vietato l’abuso
del nome di Dio.
E
l’abuso non consiste tanto nel pronunciare il nome di Dio in modo
inopportuno, come per esempio nel caso della bestemmia. Il
significato del comandamento è molto più profondo e non si limita
al nostro parlare.
“Non
pronunciare il nome del Signore, Dio tuo invano” significa non
coinvolgere Dio in parole, pensieri, azioni e avvenimenti che sono
contrari alla sua volontà. Si potrebbe anche dire: non usare
Dio, non tirarlo in ballo per giustificare o per coprire ingiustizie,
inganni, violenze, oppressioni.
Uno
degli esempi di abuso del nome di Dio che fa la Bibbia – e di cui
parla anche un altro comandamento – è il giurare il falso in un
processo. Falsare la verità e la giustizia in nome di Dio è molto
grave ed è un abuso del suo nome.
Ma
la storia è piena di abusi del nome di Dio: la prima cosa che ci
viene oggi in mente è l'abuso del nome di Dio che fanno i terroristi
quando gridano “Dio è grande” mentre uccidono le loro vittime.
È
così, ogni volta che si è condotta una guerra o si è usata
violenza nel nome di Dio, si è abusato del suo nome. Pensiamo alle
crociate o a un certo tipo di evangelizzazione dei paesi del sud del
mondo, fatta di conversioni forzate e battesimi di massa.
Abbiamo
detto parlando del prologo al decalogo che i dieci comandamenti sono
le istruzioni per l’uso della libertà che Dio ha donato a Israele
facendolo uscire dall’Egitto, le regole che servono a Israele per
vivere nella pace, nella libertà e nella giustizia.
Dunque
ogni volta che nel nome di Dio la libertà è offesa, la giustizia
non è praticata, la pace è messa in pericolo, questi sono usi vani
del nome di Dio.
Ma
forse, più che si un elenco di abusi del nome di Dio, a noi servono
dei criteri per distinguere l’uso dall’abuso. Paolo Ricca ha
scritto che si abusa del nome di Dio ogni volta che lo si usa senza
fede o senza amore. Senza la fede in lui e senza l’amore che Gesù
ha vissuto e predicato, Dio è chiamato in causa invano.
Un
altro criterio può essere il seguente: si abusa del nome di Dio ogni
volta che lo si chiama in causa per riempire un vuoto. Quando si usa
Dio come tappabuchi.
Quando non si sa più a chi o che cosa rivolgersi, quando la nostra
fiducia in noi stessi, nelle nostre capacità, nella fortuna, nella
scienza, ecc. viene meno, allora può capitare di ricordarsi di Dio.
Quando
nient’altro può riempire il nostro vuoto, e solo allora, Dio viene
invocato. Questo è un abuso del nome di Dio. Dio non è una ruota di
scorta che si tira fuori solo quando le cose non vanno più avanti da
sole. Dio non vuole essere l’ultima spiaggia. Dio vuole essere
invocato nel bisogno, ma non solo nel bisogno.
E
infine c’è ancora una cosa da ricordare. Noi che ci diciamo
cristiani, portiamo cucito addosso il nome di Gesù Cristo, “il
nome che è al di sopra di ogni nome” come abbiamo letto nella
lettera ai Filippesi. Questo nome noi ce lo portiamo addosso, questo
vuol dire che con il nostro comportamento noi rendiamo testimonianza
al nome di Cristo.
Possiamo
rendergli una buona o una cattiva testimonianza, e chi vede noi
cristiani, attraverso di noi vede Cristo. Il nome di Dio, dunque non
è solo qualcosa che si dice, che si pronuncia con la bocca, ma lo si
pronuncia anche con la propria vita.
Non
è questione di perfezione, di essere moralmente ineccepibili, quanto
piuttosto di mostrare chi è Dio attraverso la nostra vita. Di
mostrare l’amore di Dio attraverso il nostro amore, il suo perdono
attraverso il nostro perdono, i suoi doni attraverso la nostra
gratitudine, le sue promesse attraverso la nostra speranza.
Gesù
ha detto queste parole che sono un ottimo commento a questo
comandamento: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel
regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei
cieli”.
Nel
nome di Dio e di Gesù Cristo siamo chiamati a ringraziare, a lodare,
a sperare, a gioire, anche a chiedere e a supplicare. Con la certezza
che ogni volta che facciamo tutto questo con piena fiducia e con
profondo amore non avremo pronunciato il nome di Dio invano.
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