1
Pietro 2,(19)21-25
19
[…]
è una grazia se qualcuno sopporta, per motivo
di coscienza dinanzi a Dio, sofferenze che si subiscono
ingiustamente. 20
Infatti, che vanto c'è se voi sopportate pazientemente quando siete
malmenati per le vostre mancanze? Ma se soffrite perché avete agito
bene, e lo sopportate pazientemente, questa è una grazia davanti a
Dio. 21
Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha
sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue
orme.
22 Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno.
23 Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente; 24 egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati guariti. 25 Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.
22 Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno.
23 Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente; 24 egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati guariti. 25 Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.
Il
brano di oggi è un invito a sopportare le sofferenze che si
subiscono ingiustamente e questo invito viene rivolto sulla base del
comportamento che Gesù stesso ha tenuto nella sua passione e davanti
alla croce. Cristo ci ha lasciato un esempio, dice il testo, di come
comportarci davanti alla sofferenza ingiusta, lui che «soffrendo,
non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente»,
cioè Dio, che è
accanto a
chi soffre ingiustamente.
Per
capire perché Pietro, o chi per esso (è infatti molto discusso che
le lettere che vanno sotto il nome di Pietro siano veramente
dell’apostolo Pietro) dice queste cose a coloro cui scrive,
dobbiamo capire chi sono i destinatari delle sue lettere. I lettori
di questa lettera, come è indicato all’inizio della lettera, sono
“gli eletti [cioè i cristiani] che vivono come forestieri dispersi
nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella
Bitinia” (1,1). Sono dunque cristiani che vivono in mezzo ai pagani
e che per questo motivo hanno a volte la vita difficile. Alcuni di
loro, è detto nei versetti precedenti, lavorano come servi per
padroni “difficili”, probabilmente pagani, e tutti loro hanno a
che fare con un’autorità politica pagana. Da diversi accenni che
troviamo nella lettera, comprendiamo che essi sperimentano la
difficoltà di essere diversi dagli altri.
Questa
diversità è fonte probabilmente, se non ancora di vere e proprie
persecuzioni, comunque di difficoltà, di critiche, forse di
diffidenza e di calunnia. Come fare a vivere la propria fede quando
intorno c’è ostilità, o perlomeno la sfiducia di chi ci circonda?
Come fare a conciliare la vita comunitaria e la spiritualità e tutto
ciò che caratterizza una chiesa cristiana con una vita pubblica in
cui ci si trova in mezzo a non credenti che sono a volte anche
ostili? Problemi molto distanti dai nostri, che viviamo in una
società (almeno teoricamente) a maggioranza cristiana.
Dunque,
i credenti della fine del primo secolo a cui si rivolgono queste
parole soffrivano a causa della loro fede. Soffrivano ingiustamente.
E cosa dice la Parola di Dio a quei cristiani che soffrono
ingiustamente a causa della loro fede? E dunque ai cristiani che
anche oggi soffrono ingiustamente a causa della loro fede?
Dice: Cristo è con voi, Cristo ha patito come voi, lui, il vostro
pastore e guardiano delle vostre anime è come voi e con voi. Non
siete soli, non siete pecore erranti, abbandonate, ma siete tornati
al vostro pastore che ha conosciuto la sofferenza come voi e che vi
accompagna nella vostra. La parola tradotta con “guardiano” in
greco è episcopo (che in
italiano è diventato vescovo) e significa
letteralmente “sor-vegliante” cioè colui o colei che osserva e
veglia da sopra, dall’alto. Cristo, dall’alto, guarda con amore e
veglia su coloro che soffrono ingiustamente a causa sua.
Non
fraintendiamo queste parole come se fossero un generale invito a
sopportare la sofferenza o a
sopportare tutte le sofferenze.
No, queste parole non sono rivolte a chi in
queste settimane ha perso un
parente a causa del coronavirus, non sono rivolte a chi sta lottando
contro un tumore. Sono rivolte a chi soffre ingiustamente
a causa della propria
fede.
Quando
l’apostolo dice che «questa
è una grazia davanti a Dio»
e che «a
questo siete stati chiamati»
non vuol dire “siete stati chiamati a soffrire” o
che la sofferenza
in sé sia una grazia,
ma vuol
dire che la sofferenza
ingiusta che si subisce è segno e parte del discepolato. È
conseguenza dell’essere discepoli e discepole di Cristo. Niente
“dolorismo” quindi, nessuna ricerca della sofferenza
e nessun merito nella sofferenza.
La
sofferenza è dolore, e
il dolore è contrario
alla
volontà di Dio; Gesù ha sempre liberato
le persone che incontrava dalla sofferenza che procurava loro dolore
e
causava emarginazione.
Come
è
chiaro che
l’ingiustizia,
che provoca queste
sofferenze,
è assolutamente contraria alla volontà
di Dio e Gesù stesso
si
è sempre
opposto all’ingiustizia.
Ma
capita che dei cristiani soffrano a causa della loro fede, capita in
molti
paesi del mondo, e capita che dei cristiani soffrano
a causa del loro tentativo
di essere coerenti con l’evangelo.
A loro la Parola di Dio dice: Cristo che ha sofferto come voi e prima
di voi, è con voi, è dalla vostra parte,
veglia sulle vostre
anime e vi dà forza di sopportare quello che non potete evitare.
Noi
oggi riflettiamo su questi pochi versetti, ma non dobbiamo
dimenticare che essi si trovano in un contesto più ampio e i
versetti che precedono dicono un’altra cosa importante che ci aiuta
anche a capire queste parole. Poco prima del nostro
brano l’autore di questa lettera dà diverse istruzioni a questi
cristiani che vivono immersi nella società dell’impero, che a è
volte ostile. Il problema che si pone è come rapportarsi a questi
pagani, che magari sono compagni o datori di lavoro, familiari,
amici… sono le persone che hanno l’autorità politica e governano
una città.
L’autore
dice chiaramente: i pagani devono potere osservare «le
vostre opere buone»
e quindi dare «gloria
a Dio» (v.
12). E la volontà di Dio è espressa in questo modo: la
volontà di Dio è «che,
facendo il bene, turiate la bocca all'ignoranza degli uomini stolti»
(v. 15). Prima di
esortare i cristiani dell’Asia minore a sopportare le sofferenze
ingiuste, l’autore di questa lettera li esorta a tentare di
“prevenire” (diciamo così … ) le ingiustizie. E come? Facendo
il bene!
Qual’è
l’unica arma che ha una piccola comunità cristiana che vive in
mezzo all’ostilità dei pagani? l’unica arma che ha – anzi:
l’unica arma che è consentito ai cristiani di usare! – è Il
bene, è il fare il bene. Un’arma – beninteso – nonviolenta,
che è quel modo di essere e di rapportarsi agli altri che Gesù
stesso ci ha insegnato quando ha detto «se
uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra»
(Matteo 5,39), che non significa subire per il gusto di
subire, ma significa non rispondere a violenza con violenza, come ha
anche detto l’apostolo Paolo quando ha scritto «non
rendete male per male»
(Romani
12,7).
Opporsi
al male facendo il bene, questo è il modo di stare nel mondo e
di rapportarsi agli
altri dei
discepoli e delle discepole
di Cristo. Di questo
modo di stare nel mondo e di rapportarsi agli altri – anche e
sopratutto quelli che non la pensano come noi e ci vogliono male –
fa parte anche il sopportare le sofferenze ingiuste, NON
allo scopo –
ribadiamolo ancora
– di soffrire per soffrire, ma allo
scopo di non rispondere
all’ingiustizia con altra ingiustizia.
I
cristiani venivano guardati di malocchio perché erano diversi dagli
altri, non praticavano il culto degli dèi, non veneravano
l’imperatore… L’autore di questa lettera, in fondo, chiede loro
proprio di essere diversi, di essere diversi nel senso
di essere discepoli e discepole di Cristo nella loro vita quotidiana,
nel loro rapporto con le altre persone, a partire da quelle ostili.
Questa diversità è la loro prima testimonianza, questa diversità è
il loro essere discepoli e discepole di Cristo nel fare come Cristo
ha fatto davanti alla sofferenza ingiusta che lui ha subito. E
l’evangelo che oggi riceviamo è che Cristo – pastore e
guardiano/sorvegliante delle nostre anime – è dalla parte di chi
fa il bene e sopporta le sofferenze ingiuste, che quindi non è da
solo, come una pecora errante, ma è vegliato e sostenuto dal suo
pastore.
Un’ultima
cosa va detta, visto il periodo in cui leggiamo questo brano: fa
sicuramente un certo effetto leggere queste parole intorno al 25
aprile, festa della liberazione; liberazione che è avvenuta perché
molti giovani l’8 settembre 1943 hanno deciso di non sopportare
più la tirannia fascista e nazista ma di iniziare una guerra di
liberazione.
Non
hanno voluto sopportare la sofferenza ingiusta che avrebbero dovuto
subire e hanno fatto una scelta di campo. Tra loro molto cristiani,
molti credenti che lo hanno fatto anche per ragioni di fede, che
hanno forse dato maggior peso a quell’altra parola biblica
(pronunciata, anche questa, dall’apostolo Pietro), che dice che
«bisogna obbedire a Dio
anziché agli uomini»
(Atti 5,29).
Hanno
fatto la scelta che in tutt’altro contesto ha fatto Bonhoeffer
quando, davanti alla domanda come poteva un cristiano partecipare al
complotto per uccidere un uomo (Bonhoeffer collaborò indirettamente
al tentativo di uccidere Hitler in un attentato che fallì nel luglio
1944), rispose che se un cristiano vede un pazzo che, alla guida di
un’auto, sta facendo una strage, il suo compito non è soltanto
quello di curare i feriti e di seppellire i morti, ma anche quello di
fermare il pazzo alla guida.
Noi
speriamo che la storia non ci metta più davanti a scelte del genere,
ma forse “resistenza” è la parola giusta per definire anche
l’atteggiamento che suggerisce il Pietro della lettera: una
resistenza nonviolenta, portata avanti facendo il bene per dare una
buona testimonianza del proprio Signore che è venuto a portare
perdono, gioia e pace, ovvero il “bene” per eccellenza e, se
necessario, nel sopportare le sofferenze ingiuste che questa
testimonianza comporta, come ha fatto Cristo stesso. Che
il Signore, che ci ha promesso di vegliare su di noi, ci aiuti e
accompagni
in questa resistenza quotidiana nonviolenta.