domenica 29 novembre 2020

Predicazione di domenica 29 novembre 2020 (1 di avvento ) su Matteo 21,1-11 a cura di Marco Gisola

 1 Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero a Betfage, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, 2 dicendo loro: «Andate nella borgata che è di fronte a voi; troverete un’asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e conduceteli da me. 3 Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà». 4 Questo avvenne affinché si adempisse la parola del profeta: 5 «Dite alla figlia di Sion: "Ecco il tuo re viene a te, mansueto e montato sopra un’asina, e un asinello, puledro d’asina"». 6 I discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato; 7 condussero l’asina e il puledro, vi misero sopra i loro mantelli e Gesù vi si pose a sedere. 8 La maggior parte della folla stese i mantelli sulla via; altri tagliavano dei rami dagli alberi e li stendevano sulla via. 9 Le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: «Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!». 10 Quando Gesù fu entrato in Gerusalemme, tutta la città fu scossa, e si diceva: «Chi è costui?» 11 E le folle dicevano: «Questi è Gesù, il profeta che viene da Nazaret di Galilea».



«Chi è costui?» questa è la domanda che il testo di oggi ci pone. «Chi è costui?» chi è Gesù? Il testo che ci è proposto per questa prima domenica di avvento è un testo che non ci parla della venuta di Gesù nel mondo, ma della venuta di Gesù a Gerusalemme, dell’avvicinarsi di Gesù alla sua passione. L’ingresso a Gerusalemme è l’inizio della fine, è l’ultima tappa, la più dura del cammino di Gesù verso la croce.

Il nostro lezionario mette insieme, potremmo dire incrocia, l’inizio e la fine. Incrocia la nascita di Gesù con la sua morte, o almeno con quello che prelude, che prepara la sua morte sulla croce.

Perché questa scelta? Forse perché si vuole mostrare la coerenza dell’inizio della storia di Gesù con la sua fine. La coerenza e la continuità che legano la mangiatoia di Betlemme alla croce di Gerusalemme. Questa coerenza è la coerenza della rivelazione di Dio in Cristo, è la coerenza del “come” Dio ha voluto rivelarsi nella persona di Gesù di Nazaret.

E questa coerenza sta in due affermazioni che accompagnano Gesù dall’inizio alla fine: la prima è che Gesù è il re, ovvero il messia: lo dice in questo racconto la folla, citando il profeta Zaccaria: «Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te». E lo dicono i magi quando cercano Gesù e dicono «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo» (Matteo 2,2).

All’inizio e alla fine Gesù è proclamato re, all’inizio dai magi d’oriente, alla fine dalla folla dei pellegrini che sale a Gerusalemme.

E la seconda affermazione è che questo re è mansueto ed umile: dalle condizioni in cui nasce – la stalla o grotta di Betlemme a, di nuovo, la profezia di Zaccaria: «Ecco il tuo re viene a te, mansueto e montato sopra un’asina».

L’asino è la cavalcatura scelta da Gesù, è l’animale che veniva usato per viaggiare e per lavorare, dalla gente comune, era una risorsa preziosa dunque per viaggiatori e per contadini. Era l’animale del tempo di pace, mentre il cavallo è l’animale che si usa per fare la guerra.

Un re nell’antichità – ma pensate ancora a Napoleone due secoli fa – era non solo colui che comandava su un popolo, ma colui che guidava il suo popolo in guerra, era il capo dell’esercito. Inoltre, un re ha un palazzo e una corte.

Gesù è un re che cavalca un asino (che non è nemmeno suo, lo ha preso in prestito...), che non ha un palazzo e nemmeno una casa, ma è perennemente viandante, che non ha un esercito e come “corte” ha i suoi sgangherati dodici discepoli, e come unica arma la sua Parola.

Un re è colui che dispone della vita e della morte dei suoi nemici e persino dei suoi sudditi. Gesù è il re che dà la sua vita non solo per i suoi “sudditi”, che non ha – ma diciamo per i suoi amici – ma darà la sua vita persino per i suoi nemici.

La tentazione è quindi di dire: allora Gesù è un finto re. I veri re sono qualcos’altro, quelli che appunto comandano e guidano il popolo in guerra, uno che non comanda, non ha un palazzo e una corte, che non guida il popolo in guerra non è re.

E invece no: Gesù non è un finto re, è un vero re. È anzi il vero re. È un re umile e mansueto, così umile che – come dice la lettera ai Filippesi – non ha considerato disdicevole prendere su di sé l’umanità ed abbassarsi così tanto fino alla morte sulla croce. Così umile che è nato in una stalla. È così umile e mansueto ma è re.

Dobbiamo tenere insieme queste due cose, altrimenti perdiamo un pezzo di Gesù, o meglio perdiamo un pezzo costitutivo della nostra fede.

Se Gesù fosse solo mansueto e non è re, sarebbe un bellissimo esempio di un’umanità mite e generosa, pacifica e nonviolenta – e ce ne vorrebbero tanti di esseri umani così! - ma non sarebbe il nostro Signore. Sarebbe uno di noi, un po’ meglio o molto meglio di noi, ma uno di noi. Non sarebbe il figlio di Dio che il Padre ha mandato nel mondo.

E se Gesù fosse solo re e non mansueto, di nuovo non sarebbe il figlio di Dio che il Padre ha mandato nel mondo, perché Dio ha scelto di rivelarsi proprio così, proprio come re mansueto, ha deciso proprio di regnare attraverso la mansuetudine di Gesù, che si è fatto così umile fino a donarsi per noi, e d’altro canto ha proprio scelto di regnare davvero attraverso la mansuetudine di Gesù.

Perché la mansuetudine di Gesù, ovvero la grazia di Dio, l’amore che Dio ci ha manifestato in Gesù, ha il potere di trasformare i cuori e le coscienze, ha il potere di indicare nuove strade all’umanità, strade su cui si può scegliere la riconciliazione anziché il rancore, il servizio anziché il dominio, il dono anziché il possesso.

Ha questo potere questo re mansueto, potere che non si impone ma si propone, che non costringe ma vuole convincere, cioè convertire. E che può essere respinto, come è avvenuto pochi giorni dopo, quando la stessa folla che qui grida “osanna!” griderà “Crocifiggilo!”. Quindi è mansueto ed è re. È re ed è mansueto.

Forse la parola “re” non ci piace, non piace nemmeno a me, non la usiamo quasi mai nella nostra liturgia, preferiamo invocarlo come “Signore”, ma in fondo è la stessa cosa.

E sappiamo che di Dio si può parlare solo per immagini e per metafore e questa immagine del re esprime bene la relazione che può esserci tra noi e Dio, ci dice che lui è lassù e noi quaggiù (anche lassù e quaggiù sono metafore, ovviamente), e che noi da quaggiù non possiamo salire lassù, e dunque, in Cristo, lui è sceso in mezzo a noi, per regnare.

Per regnare senza palazzo, senza trono, senza corte, senza esercito, ma a regnare, su di noi che siamo i suoi sgangherati e contraddittori discepoli e discepole di oggi. A regnare con l’unica arma che continua ad avere: la sua parola.

C’è ancora una cosa che possiamo aggiungere a proposito della folla: la folla fa proprio quell’errore che dicevamo prima: vuole un re, un re tradizionale, non il re mansueto che è Gesù. Lo acclama, sì, con le parole di Zaccaria, che parla del re mansueto, ma poi vuole un re vero secondo i criteri umani, non un re vero secondo Dio.

Vuole un re che instauri un regno, che cacci i romani, vuole un re che trionfi. Gesù non instaurerà un regno, non caccerà i romani, non trionferà ma – ad occhi umani – soccomberà. Il suo trono sarà la croce. Il suo “potere” sarà manifesto solo a Pasqua, ma anche lì solo a coloro a cui il risorto vorrà rivelarsi. Non sarà evidente a tutti.

Ma anziché criticare la folla, dobbiamo imparare a non fare lo stesso errore. La folla riconosce in Gesù il messia, il re e il profeta, ma non il messia e il re che Dio ha mandato in Gesù. Cioè si può dire la cosa giusta e pensare e credere quella sbagliata.

Si può acclamare la mansuetudine di Gesù ma desiderare il trionfo di Gesù; e chi desidera il trionfo di Gesù, desidera in fondo il proprio trionfo.

Si può dire la cosa giusta e pensare e credere quella sbagliata. E dunque non riconoscere chi è veramente Gesù.

Chi è costui? Questa è la domanda che ci pongono i vangeli e tutto il Nuovo Testamento dalla prima all’ultima pagina.

Anche il neonato Gesù di cui attendiamo la venuta in questo tempo di avvento è il re. Re mansueto, debole, in pericolo appena nato, a causa della gelosia del “vero” re secondo gli esseri umani, Erode.

Questo re mansueto desidera regnare su di noi e per farlo ha percorso la strada fino alla croce. Lo ha fatto per noi, per la folla che lo acclamava, l’ha fatto anche per la folla che gridava “Crocifiggilo!”, ed anche per chi lo ha crocifisso.

Il re mansueto è il re crocifisso, è il re nato non nel palazzo di Gerusalemme ma nella stalla di Betlemme. Questo re desidera regnare su di noi; e poiché non è il re che la folla voleva ma è il re che Dio vuole non ci chiama sudditi, ma ci chiama amici e ci chiama fratelli e sorelle.

Vuole regnare su di noi con la sua parola e ci chiede di seguirlo per fede sulla strada della mansuetudine, non ci dona potere e non ci dona trionfi, ma ci dona amore e ci dona speranza. Ecco chi è costui.





domenica 22 novembre 2020

Predicazione di domenica 22 novembre 2020 su Apocalisse 21,1-7 a cura di Marco Gisola

 Apocalisse 21,1-7

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».
E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «Ogni cosa è compiuta. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita. Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio.


La Parola di Dio oggi ci prende per mano e ci conduce a vedere cose che non si vedono e a sentire cose che non si sentono, cose che nel nostro mondo - complicato e pieno di sofferenze e malvagità, ma anche solo di errori e di incomprensioni - non vediamo, perché queste cose non appartengono a questo mondo. Ma appartengono al Regno di Dio; qui la Parola di Dio ci apre la porta del regno e ce lo fa intravvedere.

Lo hanno “visto” (tra virgolette), cioè lo hanno sperimentato più da vicino coloro ai quali Gesù ha portato proprio dentro la loro vita la novità del Regno di Dio: coloro a cui Gesù ha restituito la vista o la vita stessa, o l’uso delle gambe, rimettendoli in piedi, o a cui ha perdonato i peccati.

Per tutti loro Gesù ha aperto quella porta e ha fatto entrare non loro nel regno, ma il regno nelle loro vite, la novità del regno nelle loro esistenze, grazie a cui hanno potuto cominciare una nuova vita.

Ora l’autore dell’apocalisse, diciamo “butta l’occhio” al di là di quella porta e ci racconta quello che vede del Regno di Dio che ci è promesso.

L’apocalisse, come sapete, è un libro molto particolare, che utilizza il linguaggio dell’apocalittica giudaica per raccontare la vittoria di Cristo sul male.

Non dobbiamo cercare nell’apocalisse riferimenti all’oggi o al domani; al massimo essa contiene riferimenti alla situazione delle prime generazioni cristiane perseguitate dall’impero romano.

L’apocalisse racconta in fondo quello che è già successo, ma è ancora nascosto: appunto la vittoria di Cristo sul male e sulla morte, vittoria che è già avvenuta, perché è avvenuta tra il cosiddetto venerdì santo e Pasqua, quando Gesù è morto e risorto.

L'apocalisse è l’evangelo raccontato in un modo e con un linguaggio che oggi a noi sembra strano ma che è – insieme alle parabole – uno dei modi in cui la Bibbia ci racconta il Regno di Dio. Potremmo dire che se le parabole ci raccontano il Regno di Dio con le parole, l’apocalisse ce lo racconta per immagini.

Vorrei fermarmi sulle tre cose che l’autore dell’apocalisse, Giovanni, fa in questi versetti, tre cose che ci sono descritte da tre verbi.

Il primo verbo è quello che abbiamo già citato più volte: vidi. Giovanni vede, guarda, osserva. Non fa altro, perché non può fare altro. Può solo guardare e gioire di quello che vede.

Vedere o guardare certe cose – cose belle, ovviamente, anzi straordinarie - è allo stesso tempo un’azione in cui si è totalmente passivi eppure totalmente coinvolti. Lo abbiamo provato tutti e tutte noi per molto meno del Regno di Dio: un film appassionante, uno spettacolo teatrale, ma anche solo un panorama o un tramonto.

Non fai assolutamente nulla, ma sei totalmente assorbito da ciò che vedi, da ciò che accade intorno a te, al punto che ti sembra di entrarci dentro.

Ecco l’effetto del Regno di Dio: noi non facciamo nulla per esso, non possiamo fare nulla perché esso accada o perché esso venga, ma ne siamo totalmente coinvolti. Passivi e al tempo stesso totalmente coinvolti: così siamo noi davanti al Regno di Dio. È per noi, ma non l’abbiamo fatto noi.

E che cosa vede Giovanni? Vede cose nuove, o meglio vede cose che conosce ma totalmente rinnovate, anzi: ricreate da Dio: nuovo cielo e nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra sono scomparsi e il mare non c’è più;

il mare è ciò che divide, che separa gli esseri umani tra loro, che aveva separato il popolo dalla libertà (il mar rosso), è l’abisso che fa paura. La nuova terra è tutta unita, non più separata dal mare.

Gerusalemme è nuova o è una nuova Gerusalemme; pensate che ai tempi in cui l’apocalisse viene composta, l’esercito imperiale romano ha già marciato su Gerusalemme e distrutto il tempio… Questa Gerusalemme è nuova, scende dal cielo, perché è creata da Dio e non costruita dagli esseri umani. È come una sposa e questa immagine fa pensare ad amore, a festa e a gioia.

E in questa nuova Gerusalemme – dirà il capitolo seguente – il tempio non c’è più perché non serve più, perché Dio e l’agnello, cioè Gesù, sono il suo tempio.

Il secondo verbo è udii: Giovanni sente ed ascolta la voce che viene dal trono e che parla di Dio in terza persona; questa voce dice che Dio abiterà con loro: non ci sarà più distanza tra esseri umani e Dio, ma vicinanza; non ci capiterà più che ci sembri che Dio sia assente o lontano, perché sarà presente e vicino, perché Dio abiterà con chi è nel suo regno.

Ma questa voce racconta anche alcuni dettagli della realtà del regno: non vi sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore. Tutto ciò che fa soffrire, violenza e ingiustizia, che segnano così profondamente il nostro mondo, non ci sarà più.

Ma ancora prima di dire questo, dice che cosa Dio stesso farà: Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi». In questa visione che l’autore dell’apocalisse ci racconta, questa è l’unica cosa che viene detta che Dio faccia personalmente: asciugare le lacrime dagli occhi di chi egli accoglie nel suo regno.

È questa un’immagine molto bella, tanto più che Dio ci viene qui presentato sopra un trono, in una figura regale, solenne. E questa figura regale e solenne cosa fa? Asciuga le lacrime dai nostri occhi, lo fa proprio lui secondo questa visione, non lo fa fare a qualcun altro. Mi piacerebbe immaginare che Dio scende dal trono per fare questo, ma non c’è scritto …! in ogni caso, ciò che conta è che lo fa, ci accoglie nel suo regno pronto, come prima cosa, ad asciugare tutte le lacrime che abbiamo versato nella nostra vita.

E infine il terzo verbo: scrivi! E qui è Dio stesso a parlare, a rivolgersi a Giovanni: «Scrivi, perché tutte queste cose sono fedeli e veritiere, scrivi che ogni cosa è compiuta, scrivi che io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine».

Scrivi! Dice a Giovanni. Scrivi perché queste cose non basta che siano raccontate, devono essere scritte, messe nero su bianco, perché devono rimanere, non devono essere dimenticate, non devono perdersi. Perché sono Parola di Dio, sono parole fedeli e veritiere. Perché potrebbero anche non essere credute, perché in effetti, a pensarci bene, umanamente parlando, sono incredibili…!

Solo se vengono dalla bocca di Dio possono diventare credibili. «Scrivi che ogni cosa è compiuta»: il Regno di Dio è “pronto”, è una realtà, di fede, certo, ma una realtà che ci è promessa. Non devi costruirlo tu, non devi farlo tu, lo ha fatto Dio per te.

Tu devi scriverlo, devi dirlo che Dio ha fatto questo per te e per tutta l’umanità, che Dio lo ha fatto mandando suo figlio Gesù nel mondo a soffrire e morire per noi e lo ha risuscitato.

«Scrivi che io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine», che appunto Dio sta all’inizio e alla fine del mondo, del tempo e della tua esistenza, e non solo all’inizio e alla fine, ma sta con te dall’inizio alla fine.

Tutto questo vede e sente Giovanni. E noi? Noi non abbiamo visto ciò che ha visto Giovanni, non abbiamo udito le parole che lui ha udito. Ma lui ha visto, udito e scritto per noi. E noi possiamo leggere e possiamo - con gli occhi della fede e con le orecchie della fede - vedere e sentire quello che lui ha visto e sentito.

Oggi la Parola di Dio ci chiede “solo” questo: di vedere e sentire – grazie a ciò che Giovanni ha scritto – ciò che lui ha visto e udito per noi. Ci chiede solo di godere di questo spettacolo di amore e di gioia.

E ci chiede di credere che quel cielo nuovo e quella terra nuova, quella nuova città che scende dal cielo, dove non c’è più né morte, né grido, né dolore sono lì per noi. Che Dio è lì ad attenderci per abitare con noi.

Non sto dimenticando che il regno ci interpella qui ed ora, che Gesù ha detto di cercare il regno e la giustizia di Dio, che ha proclamato beati i mansueti, i misericordiosi, gli affamati e assettati di giustizia, gli operatori di pace… che siamo chiamati a vivere ogni giorno frammenti del suo regno; tutto ciò è verissimo e sacrosanto… ma oggi questo testo va alla fonte, a ciò che sta alla base di ogni nostro pensare e fare. Questo testo di oggi è solo visione, è pura promessa.

La Parola di Dio oggi ci invita a credere a questa promessa. Ci chiede di crederci in ogni momento bello e brutto della nostra vita, anche e persino quando va tutto male e abbiamo voglia di piangere, perché quando ci accoglierà nel suo regno, la prima cosa che Dio stesso farà sarà di asciugare ogni singola lacrima che in tutta la nostra vita è scesa dai nostri occhi.

Questa visione che parla della fine è in realtà l’inizio. Proprio perché è pura promessa è l’inizio della nostra fede, l’inizio della nostra vita, l’inizio del nostro discepolato, che nascono dalla promessa del regno. E Dio è lì con noi, nella sua parola, dall’inizio alla fine.

lunedì 16 novembre 2020

Predicazione di domenica 15 novembre 2020 su Luca 16,1-13 a cura di Marco Gisola

Luca 16,1-13

1 Gesù diceva ancora ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un fattore, il quale fu accusato davanti a lui di sperperare i suoi beni. 2 Egli lo chiamò e gli disse: "Che cos’è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché tu non puoi più essere mio fattore". 3 Il fattore disse fra sé: "Che farò, ora che il padrone mi toglie l’amministrazione? Di zappare non sono capace; di mendicare mi vergogno. 4 So quello che farò, perché qualcuno mi riceva in casa sua quando dovrò lasciare l’amministrazione". 5 Fece venire uno per uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: "Quanto devi al mio padrone?" 6 Quello rispose: "Cento bati d’olio". Egli disse: "Prendi la tua scritta, siedi, e scrivi presto: cinquanta". 7 Poi disse a un altro: "E tu, quanto devi?" Quello rispose: "Cento cori di grano". Egli disse: "Prendi la tua scritta, e scrivi: ottanta". 8 E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza; poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce.

9 E io vi dico: fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne. 10 Chi è fedele nelle cose minime, è fedele anche nelle grandi; e chi è ingiusto nelle cose minime, è ingiusto anche nelle grandi. 11 Se dunque non siete stati fedeli nelle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere? 12 E, se non siete stati fedeli nei beni altrui, chi vi darà i vostri? 13 Nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona».



Il personaggio che Gesù ci fa incontrare nella parabola di oggi ci riesce piuttosto antipatico. E tutta la parabola ci suona un po’ strana, inconsueta rispetto alle altre parabole di Gesù. Diciamo pure che non dice quello che vorremmo sentirci dire.

Qui non si parla di amore, di perdono, di grazia, di condivisione… si parla di avvedutezza, ma potremmo anche dire di astuzia. Gesù ci invita oggi ad essere astuti.

Rivediamo un attimo la storia: un padrone – che è padrone di quella che oggi chiameremmo una grossa azienda, con un fatturato molto alto ha un fattore, che potrebbe essere quello che oggi si chiama amministratore delegato.

Il padrone scopre che questo amministratore sperpera i suoi beni – non è detto che ruba, è detto che sperpera – e decide di licenziarlo. Glielo comunica e gli chiede di rendere conto della sua amministrazione, ovvero quest’uomo deve portargli le carte con la situazione di bilancio.

Quell’uomo si sente perso: sta per perdere il lavoro, non può o non vuole andare a zappare la terra e si vergogna di chiedere l’elemosina.

Allora escogita uno stratagemma: convoca i debitori del suo padrone e fa loro uno sconto sul debito, modifica le cifre che costoro devono al suo padrone. Così facendo spera che queste persone lo aiutino quando sarà senza lavoro, che lo ospitino nelle loro case.

Venuto a sapere questo il padrone lo loda, perché ha agito «con avvedutezza». A prima vista, non si capisce bene perché il padrone lo lodi, visto che in teoria gli ha fatto perdere dei soldi.

Potrebbe anche darsi invece che quei debitori non potessero pagare il loro debito e ricevendo uno sconto, riescono invece a pagarlo. In questo senso il padrone incassa almeno qualcosa e questa sarebbe una ragione per lodare l’astuzia dell’amministratore.

Ma, sia come sia, in ogni caso la parabola pone l’avvedutezza di quest’uomo ad esempio. E conclude dicendo che «i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce». È insomma una critica ai credenti che non sono abbastanza avveduti, mentre gli altri lo sono di più.

Ora, non capiremmo questa strana parabola se non tenessimo conto di un fattore importante nel racconto: il tempo. L’amministratore ha poco tempo, pochissimo tempo. Deve salvare il suo futuro e ha pochissimo tempo per trovare il modo per farlo.

E lo trova questo modo, è sufficientemente avveduto da trovarlo. Lo trova rimanendo nella logica di un amministratore, abituato a maneggiare molto denaro, che deve evitare di diventare un mendicante. E che quindi usa la sua capacità e la sua avvedutezza o astuzia, continuando a maneggiare il denaro del suo padrone – finché può, perché poi sarà licenziato.

I biblisti ci dicono che la parola tradotta con “avvedutezza” implica la lucidità di avvertire la gravità della situazione in cui ci si trova e la prontezza nel cercare una soluzione e anche il coraggio di prendere decisioni. Questo fa l’amministratore avveduto o astuto: capisce che gli resta poco tempo e che l’unica cosa che può utilizzare sono i debiti del suo padrone a cui deve rendere conto.

Questa parabola ci proietta quindi in quelli che si chiamano gli ultimi tempi, che a noi dopo duemila anni non sembrano ultimi, ma lo sono, perché come diceva il testo di domenica scorsa il giorno del Signore viene come un ladro nella notte.

E che cosa fa l’amministratore astuto quando capisce che ha poco tempo? E qui siamo al culmine della parabola: Cerca di farsi degli amici. A noi sembra strano questo modo di farsi degli amici, ma dobbiamo appunto rimanere dentro la logica della parabola e non uscirne per dare i nostri giudizi.

Quest’uomo, che magari continua a rimanerci antipatico, coglie che sta vivendo un momento unico e ultimo e lo usa per farsi degli amici. Momento unico perché c’è pochissimo tempo, ultimo perché quel momento non torna.

Dunque cerca di farsi degli amici. E come fa? Dà! Dona, dona denaro – voi direte: bella roba: dona denaro non suo…! - Sì è vero, ma quel denaro che ha nelle mani (ancora per poco) non lo prende per sé, bensì lo dona. Potremmo dire: investe in amicizia.

Ecco che cosa siamo chiamati a fare negli ultimi tempi, anche se durano ancora a lungo: investire in amicizia, in relazioni. Dare per farci degli amici. Questa è l’astuzia dell’amministratore e il culmine della parabola.

E poi c’è il commento di Gesù. Qual è il commento che Gesù fa dopo aver raccontato la parabola? «E io vi dico: fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne».

Perché definisce ingiuste le ricchezze? Per rispondere, vediamo cosa dice ancora dopo: «Se dunque non siete stati fedeli nelle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere?» e poi aggiunge la famosa frase «non potete servire Dio e Mammona».

Le ricchezze ingiuste non sono contrapposte a quelle giuste, ma a quelle «vere». In qualche modo, sembra dire Gesù, tutte le ricchezze sono ingiuste, forse perché dietro la ricchezza di qualcuno c’è sempre la povertà di qualcun altro.

E soprattutto sono finte, finte perché non durano e finte perché falsificano la realtà, ce la fanno vedere in modo diverso da come essa è agli occhi di Dio. È dunque delle ricchezze vere che ci dobbiamo occupare, è nelle ricchezze vere che dobbiamo investire.

Queste frasi sono chiavi di lettura che Gesù stesso ci dà per capire la parabola. L’amministratore ha sempre lavorato con e per delle ricchezze ingiuste, materiali, per Mammona. Solo in quel tempo unico e ultimo che gli viene dato prima del licenziamento capisce che le ricchezze «vere» sono altre, gli amici. Le persone. Gli esseri umani. In una parola: le relazioni.

Gesù sembra dirci: siate astuti come l’amministratore della parabola, non nel senso di maneggiare denari altrui in modo scaltro… non è in questo l’esempio di quell’uomo. L’esempio è nel capire il tempo in cui viviamo e in questo tempo usare le ricchezze materiali (poche o tante non importa) per farci degli amici, ovvero per curare e investire nelle relazioni.

E per fare questo bisogna imparare a dare, a non tenere – l’amministratore astuto lo ha capito, all’ultimo ma lo ha capito. Lui lo ha fatto per opportunismo, noi ovviamente siamo chiamati a farlo per altre, ben più profonde ragioni. Per servire Dio anziché mammona; e usare quel poco di Mammona che abbiamo per servire Dio nel prossimo, che non è più solo prossimo, ma diventa amico.

Finché quell’uomo serviva Mammona, investiva in Mammona per guadagnare altra Mammona, usava le ricchezze per guadagnare altra ricchezza. In quel tempo unico e ultimo che gli è dato impara a dare via Mammona per guadagnare amici.

Impara a servire il prossimo per farsi amico questo prossimo. Dà via la ricchezza ingiusta per avere quella vera.

Ci dia il Signore di saper servire lui e non Mammona, di saperlo servire nel prossimo, di imparare a dare il poco o tanto che abbiamo.

Egli ci promette che questo servizio è un investimento che dà la vera ricchezza, ed è quella vera ricchezza che Dio stesso ci dona che fa sì che il prossimo diventi amico.


sabato 7 novembre 2020

Predicazione di domenica 8 novembre 2020 su 1 Tessalonicesi 5,1-11 a cura di Marco Gisola

 8 Novembre 2020

1 Tessalonicesi 5,1-11

Quanto poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte. Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno.

Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno abbia a sorprendervi come un ladro; perché voi tutti siete figli di luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. 6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri; poiché quelli che dormono, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, lo fanno di notte. Ma noi, che siamo del giorno, siamo sobri, avendo rivestito la corazza della fede e dell՚amore e preso per elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò, consolatevi a vicenda ed edificatevi gli uni gli altri, come d՚altronde già fate.


Dove siamo? Probabilmente ognuno di noi è a casa propria, perché siamo di nuovo in pieno lockdown (parola che ormai conosciamo bene e che vuol dire isolamento, confinamento)...

Ma la domanda non è questa. La domanda è: dove siamo spiritualmente, dove siamo esistenzialmente; «non siete nelle tenebre», dice Paolo. Non siamo nelle tenebre, perché siamo laddove ci ha messi la grazia di Dio; dunque siamo nella luce. Anzi siamo «figli della luce e figli del giorno». Figli (e figlie, ovviamente), perché come la nostra nascita non dipende da noi ma dai nostri genitori che ci generano, così la grazia di Dio ci “genera” nella luce, ci chiama «dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1 Pietro 2,9).

L՚immagine di luce e tenebre è un’immagine antica, primordiale, comune a molte credenze e religioni. Nella Bibbia la troviamo fin dall’inizio, dal racconto della creazione, quando Dio separa la luce dalle tenebre, creando la luce.

Le tenebre infatti esprimono ciò che è sconosciuto e quindi fa paura. Noi che viviamo nella società dove la luce c’è sempre, anche di notte e basta un dito per accenderla, non ci rendiamo conto di quanto siano terribili le tenebre, soprattutto per chi, nell’antichità, viaggiava e veniva colto dal buio. Nel buio non ci si può addentrare, perché non si sa che cosa c’è, che cosa ci attende, e per questo sono spesso associate all’immagine del male. Ecco, Paolo dice: non siete lì, non siete nelle tenebre, ma nella luce, siete figli del giorno.



Ma in realtà in questo brano prima della domanda “dove siamo?”, Paolo risponde alla domanda “quando siamo?”, “in che tempo viviamo?”. O meglio non risponde, perché a quei cristiani di Tessalonica che si chiedevano quando sarebbe venuto il giorno del Signore, cioè quando sarebbe tornato Gesù, dice «non avete bisogno che ve ne scriva; perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte». Cioè non si sa quando verrà.

E non c’è bisogno di saperlo – dice Paolo – anzi forse è meglio non saperlo. Ciò che è importante sapere è che quel giorno verrà e che quindi noi viviamo in attesa di quel giorno. In attesa di un futuro che Dio ci ha preparato e che sarà anch’esso un dono di grazia. Tra i primi cristiani c’erano persone che erano così sicure che il regno di Dio sarebbe arrivato di lì a breve che avevano persino smesso di lavorare, perché l՚importante per loro era prepararsi al giorno del Signore.

A queste idee, Paolo contrappone un’altra idea: ci si prepara alla venuta del giorno del Signore non pensando ossessivamente ad esso, non attendendo il futuro in modo quasi fanatico, ma vivendo pienamente la propria fede e il proprio discepolato nel presente.



«Vegliamo e siamo sobri»: il quando e il dove si incontrano in questa frase. Siamo nella luce e siamo in attesa del giorno del Signore e in questo luogo – la luce – e in questo tempo – l’attesa del ritorno di Gesù -siamo chiamati a vegliare.

Nel tempo e nel luogo in cui la grazia di Dio ci ha messi, siamo chiamati a vegliare e a stare sobri, a vivere nella gratitudine e nell՚amore il presente che Dio ci dona, nella certezza che il nostro futuro è nelle sue mani misericordiose, perché «Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo».

Con questa promessa che riguarda il nostro futuro, individuale e collettivo, possiamo vivere sereni questa attesa del giorno del Signore e dedicarci pienamente al presente, che è tempo di luce e non di tenebre, pieno giorno e non notte buia.

Di notte, dice Paolo, molti dormono e alcuni si ubriacano. Ma non è notte, è giorno, e dunque ecco le due cose da evitare in questo “giorno” che Dio ci dona di vivere: il dormire e l’ubriacarsi. Il sonno rappresenta l’assenza, l’estraneità alla vita di questo mondo. Quando si dorme è come se non si fosse presenti; ci siamo, siamo fisicamente lì, ma non possiamo agire perché dormiamo. Un discepolo che dorme è un non-discepolo. Dio invece ci vuole svegli, vuole che vegliamo, che ci occupiamo e preoccupiamo del nostro prossimo e del mondo in cui viviamo. Svegli e attenti, e dunque responsabili.

L’ubriacarsi può invece rappresentare la fuga dalla realtà, la fuga dalla realtà vera per rifugiarsi in una finta, effimera, che dura soltanto il tempo che dura l’ubriacatura. E non solo effimera, ma anche falsata, dove le tenebre possono sembrare luce e la luce tenebre. Chi fa uso di sostanze, lo fa per uscire dalla realtà, per cercare serenità in un altrove che non esiste, in una “notte luminosa”, dove però la luce è finta e quando si spegne torna il buio più buio di prima.

Dio invece ci vuole qui, nella luce del giorno, svegli e attenti, a vivere e a camminare in questa realtà. Ci vuole nella luce perché possiamo vedere il nostro prossimo nel volto (quando uno è ubriaco, invece, vede solo più se stesso…!) e ci mettiamo al suo servizio.

La realtà – lo sappiamo bene – è spesso dura e piena di tenebre. Per questo Paolo usa un’immagine militare: «noi, che siamo del giorno, siamo sobri, avendo rivestito la corazza della fede e dell՚amore e preso per elmo la speranza della salvezza». Con quali armi siamo chiamati ad andare incontro alla realtà tenebrosa? Con la fede, l’amore e la speranza. Quelle che nella prima lettera ai Corinzi definisce le tre cose che durano. I tre “fari” che illuminano la nostra vita e spezzano le tenebre.

La corazza e l’elmo, menzionate da Paolo, in realtà non sono armi, ma sono ciò che il guerriero indossa per difendersi dai colpi dei nemici. Fede, amore e speranza sono dunque la corazza e l’elmo di cui Dio stesso ci riveste per difenderci dagli attacchi del nemico, ovvero dagli attacchi delle tenebre, che sono tutto ciò che ci separa da Dio e dal prossimo.

Fede, amore e speranza sono la nostra difesa, che però non sta nelle nostre forze o nelle nostre abilità, ma sono doni di Dio. Lui stesso ci difende, perché «non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui».

In questa ultima frase di Paolo il dormire non ha lo stesso significato (negativo) che aveva nella frase precedente; qui il dormire e il vegliare sono immagini dell’essere morti o viventi. Quelli che dormono, ovvero i defunti, vivono «insieme con lui», per sempre nel suo regno.

Noi invece, viviamo con lui qui ed ora, nella sua Parola e nel suo Spirito, in attesa del suo ritorno e nella luce in cui la sua grazia ci ha posti. E nella certezza che la corazza e l’elmo di cui Dio ci riveste – la fede, l’amore e la speranza che Egli ci dona - impediranno alle tenebre di vincere la luce della grazia di Dio.



domenica 1 novembre 2020

Predicazione di domenica 1 novembre 2020 (Domenica della Riforma) su Matteo 10,26-33 a cura di Marco Gisola

 Matteo 10,26-33

26 Non li temete dunque; perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto. 27 Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e quello che udite dettovi all’orecchio, predicatelo sui tetti. 28 E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna. 29 Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. 30 Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31 Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.
32 Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. 33 Ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io rinnegherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli.



Gesù ha appena inviato i suoi discepoli in missione e, mentre dà loro il compito che devono svolgere, li avverte anche delle difficoltà a cui andranno incontro. Questa parte del vangelo di Matteo inizia infatti al principio del capitolo con l’invio dei discepoli a predicare il regno di Dio accompagnato dalle famose parole di Gesù: «vi mando come pecore in mezzo ai lupi».

Quando ho riletto per la prima volta il testo di oggi, alcuni giorni fa, ho pensato che per fortuna oggi qui in Europa come cristiani non abbiamo nulla da temere. Noi evangelici in Italia abbiamo alcune difficoltà sul piano della laicità dello Stato, ma non incontriamo ostilità, casomai la difficoltà più grossa che incontriamo è il fatto che molti non sanno nemmeno che esistiamo…

Poi giovedì è accaduto l’attentato di Nizza, e ho visto che invece ci sono dei cristiani che, anche qui in Europa, hanno motivo di avere paura, anche se non si tratta di persecuzioni ma di fanatismo, e anche se l’attentatore ha scelto le sue vittime a caso tra coloro che erano in chiesa in quel momento e ce l’aveva più con la cultura occidentale che con la religione cristiana.

Mi sembrava giusto iniziare con un pensiero per le vittime di questo e di altri attentati simili e una preghiera per tutti i loro cari che sono nel lutto. E un pensiero anche a quei cristiani che invece sono davvero perseguitati in diversi paesi del mondo.

Per queste persone che soffrono e per quelle che sono state uccise vale la promessa che qui fa Gesù ai suoi discepoli: «Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli».



A noi discepoli e discepole di Gesù mi sembra che queste sue parole dicano tre cose:

1. La prima è appunto «non temete». Nelle parole di Gesù questa esortazione «non temete» torna tre volte, quasi fosse un ritornello. La paura è un sentimento molto umano, ed è anche uno dei sentimenti più comuni, tutti hanno paura di qualcosa.

Oggi abbiamo tutti paura del coronavirus, e per alcune persone questa paura è diventata un tormento che ha tolto ogni serenità.

La paura di cui parla Gesù è paura della persecuzione e della morte a causa della persecuzione. Gesù non dice loro “non vi preoccupate, non vi succederà nulla”. Anzi, la morte è una possibilità che qui è esplicitamente considerata. Gesù dice loro di non avere paura di chi può uccidere il corpo ma non può uccidere l’anima.

La parola tradotta con “anima” (in greco Psyché) significa in primo luogo respiro e quindi ha il significato di vita. Parla cioè di una vita che è qualcosa di più e di diverso del corpo. La mentalità ebraica non separa corpo e anima – questa è la cultura greca – ma pensa piuttosto che vi sia un corpo che ha respiro e quindi che ha vita.

Del resto ricordate il racconto della creazione, in cui Dio plasma l’essere umano con la terra e poi soffia il suo spirito dentro di lui, gli dà respiro e quindi gli dà vita.

Potremmo quindi parafrasare dicendo che Gesù dice: non abbiate paura di chi può togliervi la vita biologica, ma non può togliervi la vita con Dio. E mentre dunque è un invito a non avere paura, è anche una promessa, la promessa che quella vita con Dio nessuno ce la toglie, perché Dio ce la conserva.

C’è poi, invece, l’invito a temere Dio. Qui temere non vuol dire avere paura, il timor di Dio che ricorre tante volte nella Bibbia non è paura: temere Dio significa riconoscere la sua grandezza e la sua autorità, riconoscere che Dio è Dio e noi siamo le sue creature, riconoscere la nostra piccolezza e la sua misericordia.

Quando, per paura, ci arrendiamo davanti a chi è più forte di noi e usa la sua forza contro di noi, indirettamente, anche solo per paura, riconosciamo la sua autorità. Temere Dio significa invece riconoscere che l’autorità di Dio è maggiore dell’autorità di chi ci vuole fare paura e che quindi possiamo non avere paura.

2. La seconda cosa che dice Gesù in queste parole è «predicate!»: ditelo nella luce, predicatelo sui tetti. Che poi in realtà per importanza è la prima cosa, è la ragione per cui i discepoli rischiano la vita.

Lo aveva detto subito ai discepoli quando li aveva inviati in missione: «andate […], predicate e dite: il regno dei cieli è vicino» (10,7). Rischi o non rischi, persecuzioni o non persecuzioni questa è comunque la ragione per cui i discepoli vengono inviati, la ragion d’essere della chiesa: la predicazione dell’evangelo del regno.

Perché Gesù dice: «Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e quello che udite dettovi all’orecchio, predicatelo sui tetti»? A che cosa si riferisce?

Qui c’è da dire che i racconti dell’invio in missione dei discepoli sono una anticipazione della missione degli apostoli che avrà luogo dopo Pasqua, dopo la resurrezione di Gesù. È molto improbabile che Gesù abbia davvero inviato i suoi discepoli in missione mentre era ancora vivo.

Dobbiamo quindi chiederci che cosa è che è nascosto durante il ministero di Gesù e che andrà invece annunciato a tutti dopo Pasqua? Per ora è nascosto il fatto che Gesù è il figlio di Dio; viene detto qua e là, ma non è ancora di dominio pubblico, perché quando sarà detto pubblicamente, Gesù sarà preso e crocifisso, perché molti penseranno che Gesù sia un impostore e penseranno solo a metterlo a tacere.

E quindi anche la croce a questo momento del ministero di Gesù è ancora nascosta. Gesù annuncerà ai suoi discepoli che deve morire solo più tardi, e la croce sarà, più di ogni altro, il momento in cui il fatto che Gesù è figlio di Dio è nascosto. La croce è il momento in cui è meno evidente che Gesù è il figlio di Dio.

Potremmo dire che ciò che è nascosto è Dio! È Dio che si è “nascosto” in Gesù, nella sua umanità, nella sua debolezza, nel suo lasciarsi consegnare a chi lo crocifiggerà, nel suo non opporsi a Giuda che lo tradirà e a quelli che verranno per arrestarlo, insomma: nella croce.

Dopo la sua resurrezione invece, quando i discepoli saranno davvero inviati a predicare in tutto il mondo, allora dovranno dirlo a tutti, gridarlo sui tetti, dirlo alla luce del sole e nelle piazze, che Gesù è il figlio di Dio, a partire da Gerusalemme e poi in tutto il mondo.

«Predicate!», ditelo che nascosto in Gesù c’era e c’è proprio Dio, il creatore del cielo e della terra, ditelo che in lui è Dio che viene a guarire e a perdonare, a liberare e a riconciliare. Dirlo, dire questo, è il primo compito della chiesa e la sua ragion d’essere.

3. E infine la terza cosa che Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi è «valete»: «voi valete più di molti passeri». La frase che dice Gesù, che non cade un passero senza il volere del Padre, non vuol dire che Dio si diverte a far cadere i passeri, ma al contrario è un modo per dire che Dio si occupa persino dei passeri, che al mercato costavano due soldi, che erano il cibo dei poveri, che li compravano al mercato per nutrirsene spendendo poco.

Ciò che vuole dirci Gesù è che se Dio si occupa persino dei passeri, che valgono due soldi, a maggior ragione si occupa di noi che valiamo molto di più di un passero.

Per Dio noi valiamo, siamo preziosi, perché Dio ci ama. Anche questo va detto, anche questo fa parte dell’evangelo, della buona notizia che Gesù ci porta: siamo preziosi agli occhi di Dio, così preziosi che ha dato il suo figlio Gesù per noi.

E ai suoi discepoli e alle sue discepole ha lasciato l’incarico di dirlo, di gridarlo sui tetti, di non tenerlo nascosto che siamo preziosi agli occhi di Dio, che Egli ci ama e che per lui non c’è nessuno che non vale niente.

E che se ci sono degli esseri umani che pensano che qualcuno non valga niente o valga meno, che non abbia gli stessi diritti degli altri, noi siamo inviati a dire che invece per Dio non è così, che per Dio tutti e tutte noi valiamo, «valete più di molti passeri», siamo preziosi ai suoi occhi.

Oggi è la domenica della Riforma, e vogliamo quindi ricordare che, grazie ai Riformatori, oggi e ogni domenica possiamo e dobbiamo dire e ripetere ciò che dice la Bibbia, ciò che annuncia l’evangelo: predicate, non temete, perché valete.

Ringraziamo il Signore che 500 anni fa ha mandato i Riformatori a dire e a fare queste cose. Loro hanno predicato, non hanno temuto e non hanno ceduto a chi chiedeva loro di ritrattare, hanno annunciato l’evangelo della grazia che ci dice che valiamo, che siamo preziosi agli occhi di Dio che ci ama così tanto che per la nostra salvezza ha mandato suo figlio in mezzo a noi.

E chiediamo al Signore di aiutarci a predicare lo stesso evangelo, senza cedere alla stanchezza o all’indifferenza, e di continuare a dire ad alta voce a tutti gli esseri umani ciò che forse per alcuni è ancora nascosto o dimenticato, è cioè che siamo preziosi agli occhi di Dio, che ci ama e ci offre una vita nuova nel segno della sua grazia.