domenica 24 aprile 2016

Predicazione di Domenica 24 aprile 2016 su Genesi 4,1-15 a cura di Marco Gisola e dei ragazzi/e della scuola domenicale

Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: «Ho acquistato un uomo con l'aiuto del SIGNORE». Poi partorì ancora Abele, fratello di lui. Abele fu pastore di pecore; Caino lavoratore della terra. Avvenne, dopo qualche tempo, che Caino fece un'offerta di frutti della terra al SIGNORE. Abele offrì anch'egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il SIGNORE guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto. Il SIGNORE disse a Caino: «Perché sei irritato? e perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene, non rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!»
 
Un giorno Caino parlava con suo fratello Abele e, trovandosi nei campi, Caino si avventò contro Abele, suo fratello, e l'uccise.
 
Il SIGNORE disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello?» Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» Il SIGNORE disse: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra. Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra». Caino disse al SIGNORE: «Il mio castigo è troppo grande perché io possa sopportarlo. Tu oggi mi scacci da questo suolo e io sarò nascosto lontano dalla tua presenza, sarò vagabondo e fuggiasco per la terra, così chiunque mi troverà, mi ucciderà». Ma il SIGNORE gli disse: «Ebbene, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui». Il SIGNORE mise un segno su Caino, perché nessuno, trovandolo, lo uccidesse.


Tra poco ascolteremo un commento a questo brano biblico molto famoso, su cui abbiamo lavorato con i ragazzi/e cercando di capire che cosa può questo racconto dirci oggi.
Questo racconto ci lascia però una domanda a cui non risponderemo perché nel racconto biblico una risposta non c’è: perché Dio gradisce l’offerta di Abele e non gradisce quella di Caino? Se noi rimaniamo al testo di Genesi 4 non possiamo che constatare che il racconto non ci dice perché. Ci dice che Dio guarda con favore l’offerta di Abele e non quella di Caino, ma non ci dice il perché.
Forse questo ci vuole dire che ci sono delle cose che semplicemente non possiamo capire, che non sono alla nostra portata; anche questo fa parte del nostro limite di creature. Nei fatti della nostra esistenza rimangono dei misteri che non possiamo spiegare. Il male ha degli aspetti misteriosi che non riusciamo a comprendere fino in fondo. Questo racconto non dà risposte sull’origine del male, ma piuttosto ci vuole istruire su che cosa dobbiamo fare noi davanti al male che c’è e che a volte è anche dentro di noi.
Oggi vogliamo provare a farci ri-raccontare questa storia dai due protagonisti, Caino e Abele.


Abele
Io sono Abele e tutti conoscete la mia storia. A dire il vero io non ho molto da dire. Anzi, se guardassimo soltanto a quello che ci dice la Bibbia, dovrei tacere, perché nel racconto biblico io non dico una sola parola. Perché chi ha scritto questo racconto non mi ha fatto dire nemmeno una parola? Eppure qualcosa da dire ce l’avrei avuta anch’io…
Forse chi ha scritto il libro della Genesi con il mio silenzio ha voluto dire che la caratteristica delle vittime è sempre quella di essere condannate a stare zitte. Anche quando non muoiono, le vittime devono subire e stare zitte.
A me è toccata questa parte, a qualcuno deve toccare, anzi purtroppo tocca a molte, troppe persone. Tocca a intere popolazioni, tocca a miliardi di esseri umani, vittime della povertà e dello sfruttamento, tocca a molti migranti che lasciano tutto per attraversare il deserto e poi salire su un barcone. Tocca a molti bambini e bambine che sono costretti a lavorare anziché andare a scuola, tocca a molte donne che dentro le case delle nostre città e paesi subiscono violenza, …. e così via, tocca a molte persone.
Tutte queste vittime in fondo si chiamano Abele, ci sono milioni e milioni di Abele nel nostro mondo e a miliardi ci sono stati nella storia, vittime di guerre, oppressioni, conquiste, genocidi, tratte degli schiavi.... Io sono tutti loro. Forse chi ha scritto il libro della Genesi ha scritto questo racconto per loro, perché tutte le vittime del mondo fossero qui nella Bibbia, anche se in silenzio… ma avessero almeno un nome, il mio nome.


Caino
Io sono Caino. Lo so che voi vorreste che io mi gettassi a terra e chiedessi perdono, prima di tutto a Abele e poi a tutti voi. Non lo farò, questa è una questione tra me e Dio. E soprattutto non lo farò, perché nel racconto della Bibbia un Caino pentito non c’è, e quindi non posso inventarmelo io adesso.
Io voglio raccontarvi che cosa è successo allora, anche se lo sapete già, perché avete ascoltato il racconto del libro della Genesi. È successo che io ho ucciso Abele, mio fratello. Perché? Rabbia? Gelosia, perché Dio aveva gradito la sua offerta e non la mia? Tutto ciò mi ha portato a desiderare che egli sparisse dalla mia vita. E l’unico modo perché questo accadesse era ucciderlo.
Ma il racconto della Bibbia racconta l’uccisione di Abele in poche parole, senza dettagli: “Caino si avventò contro Abele, suo fratello, e l'uccise”. Si ferma molto di più, invece, sui dialoghi tra me e Dio. Dialoghi, al plurale perché Dio è venuto due volte a cercarmi per parlare con me. Una volta prima che io uccidessi Abele e una volta dopo che l’avevo già ucciso.
Dio aveva capito che io ero molto arrabbiato e ha cercato di farmi capire che questa mia rabbia poteva portarmi a fare cose molto brutte, come poi infatti è successo. Dio ha cercato di farmi capire che dovevo dominare questa mia rabbia: “il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!” Il peccato è quello che ti spinge a fare il male, perché il male nasce da dentro di noi, non viene da fuori. Dio mi ha messo davanti a un bivio: “se agisci bene…” “se agisci male...”. mi ha messo davanti a un bivio e mi ha lasciato libero di scegliere. E io, come sapete, ho scelto il male. Pensavo forse che Dio non se ne accorgesse? Che lasciasse correre? In realtà non ho pensato nulla, come spesso accade quando si sceglie il male. l’ho fatto e basta.
E dopo, Dio è tornato da me e mi ha chiesto: «Dov'è Abele, tuo fratello?». Lo sapevo bene, dove era mio fratello: sotto terra, laddove lo avevo seppellito, forse per nascondere le tracce anche a me stesso. Ma non volevo ammetterlo, e allora ho risposto: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». E lì Dio ha alzato la voce. Era ovvio: sapeva tutto, non potevo nascondermi, ero stato stato stupido a fingere. Mi ha accusato: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra”.
Come finisce la storia lo sapete: Dio mi ha cacciato lontano da sé, mi ha condannato a essere vagabondo e fuggiasco. Ma quella domanda mi risuona ancora nelle orecchie: “Dov’è tuo fratello?”. Di certo Dio sapeva dove era, quella domanda voleva dirmi qualcos’altro: voleva dirmi quello che io avevo negato: mentre pronunciavo la mia risposta - “Sono forse il guardiano di mio fratello?” - ho capito che mi stavo fregando con le mie mani, perché era proprio lì che Dio voleva arrivare: voleva dirmi che io ero il guardiano di mio fratello, ero quello che non volevo essere, ma non potevo non essere… Perché era mio fratello, e non si può non essere guardiani dei propri fratelli e delle proprie sorelle, o se volete usare un’altra parola non si può non essere custodi, o responsabili, dei propri fratelli e sorelle.
Se lo fossi stato, Abele non sarebbe morto. L'irresponsabilità uccide: questo dice la mia storia.
Un ultima cosa: quando Dio mi ha cacciato, ho avuto paura, paura di essere ucciso anch’io. Dio allora mi ha fatto grazia: ha messo su di me un segno, in modo che gli altri vedendomi non mi uccidessero. Mi ha protetto. Dio non voleva altre vittime, c’era già stato Abele ed era già troppo. Dio non mi ha tolto la vita, ma anzi ha protetto la mia vita.
Ecco la mia storia, che tutti conoscono. Non è una bella storia, anzi è una storia tragica. Ma dalle storie, anche da quelle tragiche, c’è sempre qualcosa da imparare. In questa storia la lezione da imparare è tutta in quella domanda: “dov’è tuo fratello?” È vicino o è lontano? Sta bene o sta male?
Dov’è tuo fratello? Dov’è tua sorella?


Abele
Io sono Abele, e ho ancora una cosa da dirvi. Ripensandoci bene, non è proprio vero che nel racconto della Genesi io non dico nemmeno una parola. È strano questo racconto, perché da vivo effettivamente io non dico una parola, ma da morto invece parlo.
Infatti Dio dice a Caino, mio fratello e mio assassino: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra”. Dio ha sentito il mio grido, quindi ho gridato, ho parlato. Ho gridato in silenzio, ma quel grido silenzioso è arrivato alle orecchie di Dio. Quello che per noi esseri umani è solo silenzio – tanto più il silenzio della morte - per Dio è parola, anzi grido. E Dio ascolta quel grido. E allora come ha ascoltato il mio grido, ascolta e ha ascoltato anche il grido di tutte le vittime di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
Chi ha scritto questo racconto non ha voluto soltanto che tutte le vittime avessero un nome, il mio nome, ma ha anche voluto che tutte le vittime sappiano che Dio ascolta il loro grido, che Dio è dalla loro parte. Per molte vittime, se sanno che Dio è dalla loro parte, può rinascere la speranza, la speranza che non sia troppo tardi per smettere di essere vittime e ritornare a vivere una vita degna di questo nome.


giovedì 14 aprile 2016

Predicazione di domenica 10 aprile 2016 su 1 Pietro 2,21-25 a cura di Massimiliano Zegna

Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme. Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno.
Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente; egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati guariti. Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.

Seguire le orme di Gesù. Nell'importante frase che si legge nella prima lettera di Pietro vi è un'interpretazione che spesso ha diviso i protestanti dai cattolici.
Infatti fra le differenze ancora profonde che esistono tra le due confessioni cristiane non vi sono solo il ruolo del papa, la venerazione dei santi e della madonna, il numero dei sacramenti ma, secondo me, è la stessa concezione di come seguire le orme di Gesù. L'interpretazione che ne hanno dato i protestanti non è quella di vivere una vita di sacrificio quasi a credere che solo l'autoflagellazione possa distinguere la vita del vero cristiano da quella di altri uomini od altre donne di questa terra.
Assolutamente no! La nostra deve essere una continua ricerca della felicità perché a cominciare dal significato etimologico dell' evangelo è quanto Gesù Cristo ci chiede. Evangelo significa appunto in greco buona novella, buona notizia ed è un peccato che normalmente nei paesi cattolici questa e che precede la parola Vangelo sia stata tagliata. La e sta per eu, che in greco significa bene, buono, buona e quindi Evangelo significa appunto buona novella.
Giustamente quindi i protestanti mettono l'accento sulla Resurrezione di Gesù, sul fatto che anche oggi, in questo momento, Gesù è vivo ed è in mezzo a noi e ci ascolta per darci la forza di superare i nostri problemi, le nostre malattie, i nostri turbamenti, i nostri dubbi.
Quindi seguire le orme di Gesù non significa che per essere veri cristiani dobbiamo soffrire come ha sofferto Gesù. Noi dobbiamo invece credere che Gesù ha sofferto ed è morto per la nostra salvezza e adesso noi dobbiamo essere riconoscenti e vivere per glorificare il Signore. Purtroppo la chiesa cattolica a cominciare dall'immagine di Gesù crocifisso ha trasmesso un'immagine dolorifica che lascia un'impronta negativa sulla missione cristiana che è una missione positiva soprattutto nei confronti dei giovani. La stessa parola Messa in cui i cattolici contraddistinguono la loro cerimonia religiosa domenicale ha un significato sempre di sacrificio, mentre i protestanti vogliono porre l'accento sulla parola culto, culto di adorazione che nuovamente pone in positivo il rapporto con Dio.
Una cosa straordinaria che mi ha particolarmente colpito è il riferimento di questo brano che ho letto della prima lettera di Pietro rispett al capitolo 53 del profeta Isaia.Rileggo Pietro: Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno.

Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente; egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinchè, morti al peccato, vivessimo per la giustizia e mediante le sue lividure siete stati guariti. Poichè eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.

Ed ecco il brano del profeta Isaia ( capitolo 53 dai versetti 5 a 9) con gli stessi riferimenti ed in alcuni casi le stesse parole della Prima lettera a Pietro.
Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità; il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui e mediante le sue lividure noi siamo stati guariti (ecco le stesse parole di Pietro; cambia solo il pronome: in Isaia mediante le sue lividure siamo stati guariti, in Pietro mediante le sue lividure siete stati guariti.
Più avanti In Isaia si legge: “ Noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via; ma il Signore ha fatto ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì bocca.
Come l'agnello condotto al mattatoio come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca.
Dopo l'arresto e la condanna fu tolto di mezzo e tra quelli della sua generazione che rifletté che egli era strappato dalla terra dei viventi e colpito a causa dei peccati del mio popolo? Gli avevano assegnato la sepoltura fra gli empi, ma nella sua morte, egli è stato con il ricco, perché non aveva commesso violenze né c'era stato inganno nella sua bocca!” Ecco un'altra frase identica a quella pronunciata nella lettera di Pietro: non c'era stato inganno nella sua bocca!
La similitudine delle persone con le pecore e di Gesù con il pastore si trova spesso nella Bibbia. Fa parte sicuramente di un linguaggio agreste però c'è una grande differenza fra il prima e il dopo.
In Pietro : “poichè eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”. In Isaia: noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via; ma il Signore ha fatto ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti”.
Adesso ho trascritto qualche frase del sermone interessante che la pastora Janique Perrin ha svolto proprio su questi versetti della lettera di Pietro

L’immagine delle pecore non è molto positiva. Essere paragonati a pecore significa essere considerati stupidi, senza iniziativa, senza autonomia. Eppure è un’immagine che ritorna nella Bibbia. Innanzitutto perché le pecore, nel Medio Oriente come pure in Sardegna o in Nuova Zelanda, sono animali comuni e conosciuti.
Inoltre l’immagine serve anche a esprimere una tendenza umana: quella di conformarsi al gruppo, di fare come fanno gli altri, di seguire l’opinione generale.
Se le pecore non hanno un pastore, una guida, un guardiano, esse si smarriscono, errano, vagano senza meta. Nei due testi biblici di oggi vige la metafora delle pecore per parlare delle creature umane. E nei due testi le pecore vengono guidate da un pastore, Gesù Cristo. Ma c’è una differenza tra l’Evangelo di Giovanni e la lettera di Pietro.
Nell'Evangelo, Gesù è il pastore e le pecore sono pecore oggi. Nella sua lettera Pietro dice: “Eravate come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime” (v. 25).
Il buon pastore, il guardiano delle nostre anime è venuto, ha toccato e trasformato le nostre vite e ora viviamo di questa trasformazione, di questo radicale cambiamento. In altre parole la lettera di Pietro prende atto delle conseguenze inevitabili della venuta di Cristo sulla nostra esistenza personale e comunitaria. C’era un prima, e c’è un adesso. Ed è proprio ai beneficiari della venuta di Cristo che Pietro si rivolge. Stamattina mi soffermo sull’inizio del nostro testo perché questo esordio ne determina il significato. “Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme” (v. 21).
Mentre prima erravamo, vagavamo, adesso siamo chiamati a seguire le orme di Cristo. Mentre prima la nostra vita non aveva nessuna meta, adesso siamo sulla via, adesso abbiamo una traccia, un esempio da seguire”.

Ancora la pastora Perrin aggiunge qualche considerazione che mi ha fatto riflettere

Ma come ogni viaggio, il viaggio sulle orme di Cristo potrebbe nascondere trappole. Allora, per non tornare a essere erranti sulla terra, cerchiamo di capire in che cosa consiste questo camminare sulle orme di Cristo.

1. La via unica della liberazione. C’è una trappola nell’immagine del seguire le orme di Gesù. Ed è, in un certo senso, la stessa trappola di quella del conformarsi alla maggioranza. La trappola, la tentazione consiste nel copiare, cioè nel pensare che un cristiano, una cristiana possa imitare Cristo. Non possiamo imitare Cristo perché Cristo ha sofferto per noi, è morto e risorto per la nostra salvezza. La sua via è unica, la sua via non si può copiare. Chi tra noi, chi tra gli esseri umani, sarebbe capace di soffrire in silenzio fino alla morte senza neanche essere sfiorato da un pensiero di vendetta? Chi darebbe davvero la sua vita per gli altri? Nessuno, la via di Cristo è unica ed è una via di liberazione. La sua morte ha portato il perdono dei peccati, la guarigione dal male e la libertà illimitata. In parole moderne possiamo dire che la via unica di Cristo ha trasformato e migliorato la nostra esistenza, nel senso di un cambiamento che ci ha resi più liberi, più autonomi, più responsabili perché, con Cristo, ci siamo lasciati alle spalle i dominatori, i colonizzatori, imonarchi assoluti. In senso stretto e in senso metaforico.
2. La nostra via: seguire non è imitare La via unica di Cristo ha aperto la nostra strada sulle sue orme. Ma seguire non è imitare perché voler imitare Cristo vuol dire rimettersi agli idoli. Infatti, essendo unica la via di Cristo, chi siamo noi, anche solo per immaginare che lo possiamo copiare?
La nostra via è comune, è la via umana dei credenti che cercano di vivere fedelmente la loro appartenenza a Cristo. Questa nostra via, la definirei con due parole: felicità e libertà”.
La riflessione che desidero condividere con voi è quella che dicevo all'inizio e che ho trovato conferma nella lettura del sermone che vi ho citato.
Seguire le orme di Gesù Cristo non significa imitare quanto lui ha fatto e sofferto ma seguire quanto lui ci ha insegnato. Nelle pagine che precedono i testi biblici vi è n paragrafo intitolato “Alcune promesse della Bibbia”. Mi ha colpito in particolare il riferimento a Giovanni capitolo 3 versetto 16 che viene intitolato “Tutto il messaggio della Bibbia riassunto in un solo versetto”. Ma come mi sono chiesto è possibile condensare un libro di oltre mille pagine in una sola frase? Eppure dopo averla letta mi sono convinto che è proprio così. Adesso la leggo:

Perché Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”
Fra le letture proposte da “Un giorno, una parola” vi è quella riguardante il buon pastore che è significativa della positività di Gesù Cristo: “Io sono il buon pastore.– si legge al capitolo 10 versetti 27-28 – le mie pecore ascoltano la mia voce ed io le conosco ed esse mi seguono e io do loro la vita eterna”.
E' nuovamente un versetto in cui le pecore sono paragonate a tutti noi però la cosa importante è che Gesù ci conosce uno ad uno, una ad una se si ascolta la sua voce. Ascoltare la sua voce può essere difficile perché non avviene come nel vecchio testamento che Dio esprimeva con parole comprensibili e altisonanti il suo pensiero. Adesso le parole di Dio bisogna ascoltarle attraverso la voce del nostro cuore e della nostra mente.
Adesso vi è apparentemente molta confusione perché il Signore ci ha dotato di strumenti che solo Lui poteva avere. Di Dio si dice infatti che può conoscere tutto e può conoscere tutti. Oggi grazie ai nuovi strumenti di comunicazione possiamo conoscere meglio le sue possibilità perché adesso in tempo reale possiamo conoscere tutto quanto avviene nel mondo e conoscere meglio anche le persone che sono molto lontane da noi. Chi utilizza i social network, ad esempio, sa che che è possibile trasmettere un proprio pensiero a persone che vivono in Australia, in Belgio, in Brasile oppure conoscere quanto viene detto da tutte le parti del mondo. Certo non sono sempre parole edificanti e positive ma Dio affida a noi la capacità di scegliere. Ho detto quindi che apparentemente vi è molta confusione perché non vediamo solo ciò che ci circonda nella nostra città, nel nostro quartiere, nella nostra casa e possiamo ormai essere a contatto con persone di razze diverse, di lingue diverse. Sta o noi decidere se tentare un approccio come Gesù ci ha insegnato a fare o respingerle. Poi certo sta a noi capire con l'aiuto di Dio chi è buono e chi è cattivo. Ma questo accade anche nella ristretta cerchia di chi parla la stessa lingua, ha lo stesso colore della pelle, professa la stessa confessione religiosa.
Gesù ci ha insegnato in varie parabole che ha volte chi è più lontano da noi come lingua, abitudini, colore della pelle può essere più vicino nell'amare il prossimo.
Solo quando sapremo tutti vivere in pace il disegno di Dio sarà compiuto e tutti noi possiamo essere protagonisti di questo disegno, e tutti noi possiamo aiutare a compiere questa missione.




Giornata della legalità - Predicazione di domenica 3 aprile 2016 su Romani 13,1-7 a cura di Marco Gisola

Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono, sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all'autorità si oppone all'ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna; infatti i magistrati non sono da temere per le
opere buone, ma per le cattive. Tu, non vuoi temere l'autorità? Fa' il bene e avrai la sua approvazione,
perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per motivo di coscienza.
È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio. Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l'imposta a chi è dovuta l'imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore; l'onore a chi l'onore.

Oggi è la domenica della legalità, domenica che il nostro sinodo ha istituito su proposta delle chiese valdesi del Sud Italia. In questa domenica tutte le nostre chiese sono invitate a riflettere su questo tema e a commentare questa parola che l'apostolo Paolo scrive al cap. 13 della sua lettera ai cristiani di Roma, in cui li invita a sottomettersi all’autorità.
Come protestanti abbiano qualche difficoltà davanti a questo testo perché la storia del protestantesimo è spesso stata storia di disobbedienze all’autorità da un lato e storia di persecuzioni da parte dell’autorità dall’altro. Come coniugare questa storia con le affermazioni dell’apostolo Paolo che dice che bisogna “stare sottomessi” all’autorità? E per quale ragione Paolo arriva a dire questo, quando l’autorità del suo tempo era l’impero romano, un funzionario del quale – Pilato – aveva fatto crocifiggere Gesù?
Proviamo a superare il primo imbarazzo e vediamo il testo un po’ più da vicino.
1. la prima cosa che possiamo vedere in questo testo è che per Paolo è chiaro che l’autorità civile – chiamiamola così – è al di fuori della chiesa, per certi versi al di sopra della chiesa, nel senso che non è la chiesa a fare le leggi per la società.
Per le prime generazioni cristiane questo era evidente ed era scontato, perché il cristianesimo era una piccola minoranza, la maggior parte delle persone che vivevano nell’impero erano pagane. Per tutti c'era un’autorità civile che era l’imperatore, anch’egli pagano.
Oggi grazie a Dio non c’è più un impero e non c’è più un imperatore, non siamo più sudditi ma cittadini. Ma quello che Paolo registra nel suo tempo vale ancora oggi: per tutti i cittadini - non importa a quale religione appartengano o se non appartengano a nessuna comunità religiosa – c’è un’unica legge, che è quella dello stato, che può piacere o meno, può essere più o meno giusta, ma è la stessa per tutti.
Non è una comunità religiosa che fa le leggi che regolano la convivenza civile, ma è un’autorità superiore alle comunità religiose, ed è un’autorità uguale per tutti. Paolo non avrebbe usato questa parola, ma a pensarci bene questo è un aspetto del principio della laicità dello stato.
Questa situazione in cui si trova Paolo e le prime generazioni cristiane finirà nel quarto secolo quando l’impero diventerà cristiano e tutti i sudditi dell’impero dovranno essere cristiani.
Ci sarà una sola comunità religiosa, legata a doppio filo con lo Stato, cioè l’impero; tra chiesa e impero ci sarà un’alleanza che durerà secoli, un’alleanza piena però di conflitti e lotte (ad es. la famosa lotta per le investiture) per decidere chi sta sopra e chi sta sotto.
Per Paolo è chiaro che le due autorità sono distinte. Questo è un principio che è ritornato preziosissimo in questi ultimi secoli in cui viviamo di nuovo in una società plurale, sia all’interno del cristianesimo (le diverse chiese cristiane), sia per la presenza di persone di altre religioni o atee in mezzo a noi.
Esiste un’autorità che sta sopra le comunità religiose e che fa le leggi per tutti, che dovrebbe fare le leggi per il bene comune, garantendo uguali diritti per tutti, senza guardare le appartenenze religiose.
In Italia la laicità è un po’ monca, perché la chiesa cattolico-romana ha una posizione privilegiata attraverso il concordato che dà certi privilegi solo alla chiesa cattolica come l’insegnamento della religione cattolica fatto da insegnanti scelti dalla chiesa e pagati dallo Stato, ecc.
Però il recente dibattito sulla proposta di legge sulle unioni civili ha mostrato che il dibattito c’è, che le varie opinioni si confrontano (possiamo ovviamente discutere sui toni) e che, nonostante tutto sarà il parlamento a decidere. Il principio della laicità dice che non sono le comunità religiose a decidere per tutti, ma sono gli organi rappresentativi dei cittadini, in questo caso il parlamento.
L’autorità civile è fuori dalla chiesa, non sono le chiese cristiane a decidere per tutti. Questo è presupposto dalle parole di Paolo in Romani 13. La chiesa non ha il compito di governare il mondo, la società, ma quello di annunciare al mondo l’evangelo di Gesù Cristo.
E poiché l’evangelo è l’evangelo di Gesù Cristo, che dall’autorità è stato crocifisso senza opporre resistenza, la chiesa annuncia l'evangelo senza avere potere, senza alcuna autorità se non quella dell’evangelo stesso.

2. Fermiamoci un momento su questa affermazione di Paolo: “Non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono, sono stabilite da Dio”. Questa affermazione a prima vista è sconcertante, però non va fraintesa: Paolo non vuol dire che l’autorità è divina, e non dice che tutto quello che l’autorità fa e decide è automaticamente voluto da Dio. Dice che il fatto che vi sia un’autorità è voluto da Dio.
Questo non dà all’autorità un potere assoluto, come se appunto l'autorità fosse divina, ma anzi, al contrario: intanto chiarisce che, se l’autorità viene da Dio essa è sotto Dio; e dire questo all’interno dell’impero romano, nel quale si praticava il culto dell’imperatore era già un’affermazione decisamente controcorrente.
Se viene da Dio è sotto Dio e Dio è anche il limite di quell’autorità, che quindi non è assoluta, ma relativa, perché solo Dio è assoluto.
Paolo spiega che cosa vuol dire che l’autorità viene da Dio quando scrive: “Il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene”. Come possiamo interpretare questa frase?
La parola ministro in greco è diacono, cioè servitore. Ministro dunque non indica un potere ma un servizio. Il politico, secondo questa ottica di Paolo, è un servo non un padrone. E chi serve? Secondo Paolo serve Dio, ma non esercitando un compito religioso, bensì un compito civile.
È “un ministro di Dio per il tuo bene”. Il modo laico di servire Dio da politico è quello di cercare il bene, oggi diremo il bene comune, il bene di tutti, i diritti di tutti.
Se l'autorità si mette al servizio del bene comune, allora adempie il suo compito, la sua vocazione, potremmo dire utilizzando un termine religioso. L’autorità è ministro di Dio anche se non ne è consapevole, anche se non crede in Dio (come era del resto la situazione al tempo di Paolo, con l’autorità che era quella imperiale romana e pagana).
Per il cristiano chi esercita un autorità è un servitore di Dio. E anche se Paolo non lo dice, è ovvio che Dio rimane sopra l’autorità e che quindi, se gli eventi portano a dover scegliere tra Dio e l’autorità, bisogna scegliere Dio.
Questa parole di Paolo non contraddicono quelle di Pietro nel libro degli Atti degli Apostoli: “Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini.”
Se l’autorità non è “ministro per il bene” come dice Paolo, ma per il male, allora – non lo dice Paolo, ma lo dice Pietro negli Atti e penso che Paolo sarebbe stato d’accordo – è lecito disobbedirle. Se per obbedire all’autorità devo disobbedire a Dio, allora devo scegliere Dio.
E forse l’ultima parola vuol proprio dire questo: Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l'imposta a chi è dovuta l'imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore; l'onore a chi l'onore. L’onore lo si deve all’autorità se fa il suo dovere di cercare di bene il timore – che è ben più dell’onore – va reso a Dio.
Sappiamo che il timore di Dio, tipica espressione biblica, non c’entra con la paura, ma è la consapevolezza che Dio è santo e io no. Il timore di Dio è quello suscitato dalla santità di Dio di fronte alla mia miseria, dalla grandezza di Dio di fronte alla mia piccolezza, dalla bontà di Dio di fronte al mio peccato.
Che cosa c'entra tutto questo discorso con il tema della legalità? c’entra perché accanto al nostro impegno di singoli e di chiese per la legalità, dobbiamo partire dal presupposto che le autorità civili costituite sono lì per la legalità e per i diritti, per il bene, e il bene di tutti.
In questo senso e se sono serve del bene, bisogna sottomettersi all’autorità, noi diremmo riconoscere che essa ha un compito, che è il bene comune.
Ma ciò vuol anche dire costantemente ricordare alle nostre autorità qual è il loro compito, ovvero quello del bene per tutti, e denunciarle quando pensano solo al bene loro proprio o solo a quello di qualcuno e non di tutti.
Uno studioso della legge dirà che questo è il diritto di ogni cittadino che elegge i suoi governanti, l’apostolo ci ricorda che questo nostro stare sotto ma contemporaneamente anche di fronte all’autorità è non soltanto un diritto, ma anche un nostro compito come credenti.

domenica 3 aprile 2016

Predicazione della Domenica di Pasqua (27 marzo 2016) su 1 Corinzi 15,1-11 a cura di Pietro Magliola

Vi ricordo, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato, che voi avete anche ricevuto, nel quale state anche saldi, mediante il quale siete salvati, purché lo riteniate quale ve l’ho annunciato; a meno che non abbiate creduto invano. Poiché vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture; che apparve a Cefa, poi ai dodici. Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti Poi apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; e, ultimo di tutti, apparve anche a me, come all’aborto; perché io sono il minimo degli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio io sono quello che sono; e la grazia sua verso di me non è stata vana; anzi, ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Sia dunque io o siano loro, così noi predichiamo, e così voi avete creduto.

Quest'anno il lezionario propone per la predicazione della domenica di Pasqua non uno dei racconti della risurrezione, ma una riflessione di Paolo sulla risurrezione. E' un bene che ogni tanto si ascolti una parola su quello che la chiesa delle origini, e prima di tutti l'apostolo Paolo, hanno pensato dell'evento pasquale.
La prima cosa che risulta evidente è che la Pasqua è l'evangelo, la buona notizia.
l'evangelo non è una dottrina, non sono dei dogmi, non è, tanto meno, una morale; l'evangelo è l'annuncio di un fatto, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù. E' l'annuncio di un fatto sconvolgente, del tutto al di fuori dagli schemi di pensiero dell'uomo, un fatto realmente accaduto, come testimoniato da molti. Un fatto che può essere soltanto creduto o rifiutato. Un fatto che ha trasformato un gruppo di uomini spaventati rinchiusi in una stanza la sera del sabato in apostoli, in testimoni della risurrezione. Perché la risurrezione, se ad essa si crede, non può non trasformare l'uomo.
L'annuncio di Paolo è che Gesù è morto per i nostri peccati, è stato risorto dal Padre ed è apparso a più persone. Questa è stata la prima predicazione cristiana, la predicazione della grazia di Dio per l'uomo peccatore.
Una grazia assolutamente gratuita, se si può dire così, una grazia immeritata dall'uomo, frutto soltanto dell'amore di Dio.
Ed è in questo evangelo, in questo annuncio che Paolo esorta i Corinzi a vivere, perché soltanto qui c'è la salvezza.
La dimensione dell'annuncio è quindi di capitale importanza per la chiesa, di qualunque denominazione. Forse andrebbe recuperata appieno: la nostra chiesa è ricca di opere, alcune ottime, altre forse più discutibili, ma è ancora ben attenta a portare questo annuncio? Bisognerebbe ricordarsi che i comandamenti principali per Gesù erano: ama Iddio e ama il tuo prossimo; ma, appunto, l'amore di Dio va al primo posto, altrimenti l'amore per il prossimo rischia di non essere autentico, ma “carnale”, per usare un'espressione paolina, ossia fondato sul desiderio dell'uomo di piacere a se stesso e di sentirsi a posto con Dio.
Ci stiamo avvicinando a grandi passi verso il 2017, cinquecentesimo anniversario della Riforma protestante. A pensarci bene, il fondamento della Riforma sta proprio in questo annuncio dell'amore gratuito di Dio, nel suo intervento a favore dell'uomo.
Può essere un'occasione per riprendere con più forza e consapevolezza l'annuncio della risurrezione di Cristo, diventando, tornando ad essere testimoni di questo fatto nella scia degli apostoli, di Paolo, e di quanti ci hanno preceduti nell'annuncio dell'evangelo.