9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo (Esodo 20,16)

Non attestare il falso contro il tuo prossimo

Questo comandamento non vuol dire “non dire bugie”, come a volte si pensa, ma si riferisce a un ambito molto preciso, che è l'esercizio della giustizia; in tempi in cui non esistevano prove 'scientifiche', i processi erano spesso condotti in base alla testimo­nianza dei testimoni oculari, che erano quindi determinanti per l'esito del processo.
Il comandamento è rivolto, come gli altri, agli Israeliti maschi adulti che godevano dei quattro diritti fondamentali di matrimo­nio, culto, guerra e il diritto ad amministrare la giustizia e si rife­risce proprio a questo ultimo ambito, fondamentale per la vita so­ciale in Israele.
Il verbo significa “deporre contro” oppure “rispondere a” e il so­stantivo usato è “testimone” accompagnato dall’aggettivo “bu­giardo”. Quindi “non deporre contro il tuo prossimo come testimo­ne bugiardo”.
Nell’antico Israele il processo si tiene alla porta della città, quella che tutti devono attraversare per andare al lavoro nei campi o nei pascoli e vi partecipano tutti quelli che ne hanno diritto.
Si discute la causa e poi viene emessa una sentenza, oppure viene confermato un accordo che avviene tra le parti, come vediamo nel libro di Rut, quando Booz si impegna a sposare Rut dopo che il pa­rente più prossimo rinuncia a questo diritto.
La parola dei testimoni era quindi determinante per la sentenza e poteva significare per l'imputato la vita o la morte, come nel caso di Nabot, che non voleva vendere la sua vigna e quindi la moglie del re fa raccogliere contro di lui false testimonianze che lo porta­no alla condanna alla lapidazione.
Il testimone di cui si parla qui non è però soltanto il testimone in un processo come lo intendiamo noi oggi; il testimone può anche essere al tempo stesso l’accusatore:
Levitico 5,1ss ci dice che chi vede un delitto è tenuto a denunciar­lo e a farsi carico in qualche modo dell’accusa, che poi sarà sup­portata da altri testimoni: “Una persona pecca se, udite le parole di giuramento, quale testimone non dichiara ciò che ha visto o ciò che sa. Porterà la propria colpa”.
Se uno non denuncia un reato di cui è stato testimone se ne ad­dossa la colpa. Un’idea che mi sembra molto importante e molto attuale.
Nei casi di reati gravi, che prevedono la condanna a morte, non basta la testimonianza di una persona, i testimoni devono essere due o tre, come dice Deut: 17,5-7:
Farai condurre alle porte della tua città quell'uomo o quella donna che avrà commesso quell'atto malvagio e lapiderai a morte quell'uomo o quella donna. Il condannato sarà messo a morte in base alla deposizione di due o di tre testimoni; non sarà messo a morte in base alla deposizione di un solo testimone”.
E poi il testo continua dicendo così: “La mano dei testimoni sarà la prima a levarsi contro di lui per farlo morire, poi la mano di tutto il popolo; così toglierai via il male di mezzo a te”.
Chi contribuisce, con la denuncia e la testimonianza, a far con­dannare qualcuno a morte, deve poi assumersi la responsabilità di essere il primo a tirare la pietra della lapidazione.
Per quanto questo oggi ci sembra molto arcaico e nel nostro dirit­to non sarebbe accettabile, il significato di questa norma è che chi è responsabile con la sua testimonianza della condanna di un uomo, deve esserne responsabile anche praticamente lanciando la prima pietra.
Quest’uso si presta senz’altro ad abuso, ma dietro a queste norme che abbiamo letto c’è l’idea che la responsabilità della giustizia in Israele è collettiva.
Ed è confermata dall’altro testo che ho citato poco fa - che dice che se sei testimone di un reato e non lo denunci, sei corresponsabile del reato cui hai assistito - mi sembra molto moderna, in una società come la nostra in cui regna molta indifferenza.
E comunque tutte e due queste leggi ci dicono che il singolo Israe­lita – noi diremmo oggi: il singolo cittadino – è corresponsabile del­la giustizia che regna nella società in cui vive.
Questo comandamento non riguarda quindi solo il singolo e la sua coscienza, e non riguarda nemmeno il fatto di mentire a qualcuno diciamo “privatamente”. Mentire nel processo significa mentire al popolo e di conseguenza mentire a Dio.
Significa rompere l’equilibrio che tiene su la società Israelitica del tempo e in fondo è uno dei pilastri di tutte le società di ogni tem­po e luogo: l’esercizio della giustizia.
La giustizia non è solo una cosa che “uso” quando ne ho bisogno, sperando di non averne mai bisogno, ma è qualcosa che io stesso contribuisco a costruire giorno per giorno con il mio comporta­mento, ne sono in qualche modo soggetto.
Per questo è così importante che la giustizia sia giusta, cioè che quando viene emessa una condanna, la condanna corrisponda a una reale responsabilità di reato.
Proprio nell’AT nei libri dei profeti più volte è condannata la cor­ruzione di chi amministra la giustizia, perché su di essa si regge la vita nella terra promessa del popolo di Israele e si regge la vita di ogni società, antica o moderna.
Mi sembra che questo comandamento voglia dire che tutti hanno la loro piccola parte nell’amministrazione della giustizia, anche il te­stimone, che deve quindi dire le cose come stanno, perché è impor­tante che nell’ambito pubblico emerga la verità e ci si possa fidare.
Quindi possiamo forse attualizzare questo comandamento andando anche oltre la sfera del processo e dell’amministrazione della giu­stizia. Non attestare il falso contro il tuo prossimo vale per chiun­que, in particolare per chi abbia un ruolo pubblico.
Se applichiamo questo ai politici, ciò significa che sono chiamati a dire la verità, sia quando raccontano quello che vorrebbero fare se fossero eletti, sia quando raccontano quello che hanno fatto. Politici, sia di maggioranza, sia di opposizione, sindacalisti, gior­nalisti…
C’è bisogno di verità pubblica, di dire le cose come stanno e non nasconderle. Nel dibattito pubblico sembra oggi che si cerchi di più la parla urlata che la parola vera; molti preferiscono dire bu­gie urlandole, anziché dire la verità senza gridarla.
Pensiamo poi alla delicatissima questione dell’informazione: se ogni giornalista e ogni giornale riportasse i fatti così come sono, dando ovviamente la propria lettura, la propria interpretazione e la propria opinione sui fatti, noi cittadini ci guadagneremmo molto e ne guadagnerebbe la democrazia.
La verità crea fiducia, mentre la menzogna crea sfiducia, nella vita pubblica come nella vita privata. E viceversa: la sfiducia por­ta a mentire, a cercare altre strade rispetto alla verità e alla giu­stizia. Le mafie trionfano tanto più quanto meno fiducia c’è nello stato e nella sua giustizia.
Insomma, questo comandamento è rivolto al cittadino Israelita di due millenni e mezzo fa ma ha ancora molto da dire anche a noi oggi, cittadini delle democrazie del ventunesimo secolo.
Siamo corresponsabili della giustizia che accade o non accade nel nostro paese e nel nostro mondo e lo siamo innanzitutto con il non attestare il falso contro il nostro prossimo, non solo nei processi, che è l’ambito proprio del comandamento, ma in tutte le relazioni pubbliche e anche private che portiamo avanti.
La giustizia nella società in cui viviamo interessa molto a Dio e per questo la ricerca della giustizia è una vera e propria vocazione che tanti brani della Bibbia, compreso questo comandamento, ci rivol­gono.

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