mercoledì 6 febbraio 2019

Predicazione di domenica 3 febbraio 2019 su Esodo 3,1-15 a cura di Marco Gisola

Esodo 3,1-15

1 Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. 2 L'angelo del SIGNORE gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava.
3 Mosè disse: «Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!» 4 Il SIGNORE vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: «Mosè! Mosè!» Ed egli rispose: «Eccomi». 5 Dio disse: «Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro». 6 Poi aggiunse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe». Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio.
7 Il SIGNORE disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. 8 Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. 9 E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire. 10 Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele». 11 Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall'Egitto i figli d'Israele?» 12 E Dio disse: «Va', perché io sarò con te. Questo sarà il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, voi servirete Dio su questo monte». 13 Mosè disse a Dio: «Ecco, quando sarò andato dai figli d'Israele e avrò detto loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi", se essi dicono: "Qual è il suo nome?" che cosa risponderò loro?» 14 Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono». Poi disse: «Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO mi ha mandato da voi"». 15 Dio disse ancora a Mosè: «Dirai così ai figli d'Israele: "Il SIGNORE, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi". Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione.


Il popolo che Dio si è scelto non può rimanere schiavo, Dio vuole un popolo libero. La decisione di Dio per la libertà è il nucleo, il centro di questo episodio, raccontato in questo brano così denso di particolari che sarebbero tutti importanti. Ci fermiamo su alcuni di essi:
1. La prima cosa da sottolineare è che Dio partecipa alla sofferenza del suo popolo: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni»: i verbi usati non sono casuali: ho visto, ho udito, conosco.
Dio vede l’afflizione del suo popolo, il Dio dei cieli vede ciò che accade sulla terra, non ne è estraneo. Dio ascolta il grido di dolore degli oppressi, la voce di dolore del suo popolo arriva fino a lui, e dunque Dio conosce la sofferenza del suo popolo e si lascia coinvolgere da essa.
Questo brano biblico ci dice chiaramente, se mai ce fosse stato bisogno, che Dio non è lontano, non è insensibile a ciò che accade sulla terra, ma anzi se ne lascia toccare.
Dobbiamo però fare attenzione a un dettaglio che troviamo più avanti nel libro dell’Esodo. Fin qui ci viene detto che Dio vede la sofferenza del suo popolo, ascolta il grido di dolore del suo popolo. Potrebbe essere un rapporto del tipo genitore-figlio/a, in cui il genitore si occupa soltanto del proprio figlio/a. Ma più avanti nell’Esodo ci viene detto che Dio ascolta il grido di tutti coloro che gridano a lui:
Esodo 22,21-23: «Non maltratterai lo straniero e non l'opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto. Non affliggerete la vedova, né l'orfano. Se in qualche modo li affliggi, ed essi gridano a me, io udrò senza dubbio il loro grido».
Dio ascolta il grido anche dello straniero, oltre che della vedova e dell’orfano; insomma: Dio ascolta il grido di tutti gli oppressi. Questo è il Dio che ci presenta il libro dell’Esodo.


2. Dio vede, ascolta, conosce e dunque agisce: «Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso».
Dio scende. Questo verbo è molto importante, perché ci racconta l’atteggiamento di Dio nei confronti del suo popolo e dell’umanità che ha creata: Dio scende, non se ne sta lassù nel cielo, sulle nuvole, lontano dalle sofferenze, dalle contraddizioni degli esseri umani. Dio – come ci dicono alcuni salmi – è l’altissimo, ma si china sui miseri e sugli oppressi.
Se ci pensate, c’è già qui l’idea che sta alla base di quella che noi cristiani chiamiamo incarnazione. Come racconta Paolo l’incarnazione di Cristo? «pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini...» (Filippesi 2).
Paolo ci dice che Gesù rinuncia alle sue “prerogative” (scusate la parola poco biblica…) divine e si “svuota”; l’Esodo ci dice che Dio non rimane in alto, ma viene in basso per liberare il suo popolo.
E forse questo brano ci dice che in realtà, il fatto che Dio sia nei cieli non significa affatto che Dio è lontano. Forse questa è l’idea che qualcuno si è fatto nei secoli, ma non è biblica.
Nella Bibbia il fatto che Dio è cieli significa prima di tutto che non è nelle nostre mani, che non lo possiamo raggiungere né conoscere totalmente e tanto meno piegare ai nostri desideri, che c’è una distanza salutare tra lui e noi, nel senso che lui è il creatore e noi le sue creature, lui il salvatore e noi i salvati, e non viceversa.
Ma forse questa metafora vuol anche dirci che dai cieli Dio vede meglio di noi, perché vede dall’alto. Noi vediamo soltanto noi stessi e quelli che stanno intorno a noi.
Lui vede anche quelli che noi non vediamo, perché non possiamo vederli o non vogliamo vederli. Forse, chissà, il fatto che Dio che sta nei cieli, vuol dire che Dio sta nel luogo da cui, meglio di ogni altro, si può vedere la sofferenza di tutto il genere umano.


3. Dio scende per liberare il suo popolo. In questa frase di questo brano c’è veramente tanto della volontà di Dio. Non tutta, ma molta volontà di Dio è descritta qui: Dio è un Dio liberatore. Non è un caso che il tema della liberazione dall’Egitto ritorna, a mo’ di confessione di fede, in molti brani della Bibbia ebraica.
Il Dio creatore è anche il Dio liberatore e dunque è il Signore, che richiede la nostra fiducia e la nostra obbedienza. Siamo al cuore dell’Antico Testamento, anzi siamo al cuore di Dio e della sua volontà: la volontà di Dio è volontà di liberazione.
Dio vuole che il suo popolo non sia schiavo, non sia servitore di nessun altro se non di lui stesso e della sua volontà. La libertà del popolo e dei suoi singoli membri è molto concreta: le varie leggi e norme contenute nella Torah tendono proprio a questo, a che ogni singolo membro del popolo sia libero.
Questa volontà ci è confermata nel NT: anche qui l’evento centrale, cioè la morte e resurrezione di Cristo, è un evento di liberazione: Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi, dice Paolo, liberi per servire il prossimo, liberi di servire Dio nel prossimo.


4. Per fare tutto ciò Dio chiama Mosè. Non era scontato che Dio chiamasse qualcuno per liberare il suo popolo. Poteva farlo lui, da solo, compiendo qualche gesto spettacolare e miracoloso, senza coinvolgere nessuno.
Ma Dio non vuole agire da solo; come lui partecipa alla sofferenza del suo popolo, vuole che qualcuno del suo popolo partecipi all’opera di liberazione. E dunque Dio coinvolge Mosè, sceglie un essere umano che porti avanti con lui l’opera di liberazione.
E che essere umano sceglie! Non dimentichiamo che Mosè non era affatto una persona perfetta: aveva ucciso un egiziano per la rabbia che aveva provato vedendo i suoi fratelli ebrei maltrattati e poi aveva dovuto fuggire dall'Egitto. Quando viene chiamato, Mosè era dunque lontano dal suo popolo.
Le cose determinanti le farà tutte Dio, ma Mosè sarà il suo ambasciatore presso il popolo; sarà l’ambasciatore di Dio presso il popolo e l’ambasciatore del popolo presso Dio. Mosè dialogherà instancabilmente con Dio e con il popolo.
Dio dunque coinvolgendo Mosè non solo mostra la sua decisione di coinvolgere il suo popolo, ma così facendo corre dei rischi. Questo coinvolgimento di Mosè fa in fondo parte del suo “scendere”, del suo calarsi dall’alto verso il basso e sporcarsi le mani con l’umanità.
Scegliendo Mosè, Dio si mette in gioco, perché Mosè non sarà un burattino nelle sue mani, discuterà con Dio fin da subito, quando cercherà di respingere al mittente la chiamata che Dio gli rivolge.
E poi discuterà ancora con Dio molte volte, come quando intercederà per il suo popolo dopo il tradimento del vitello d’oro e farà cambiare idea a Dio.
Dio da un lato coinvolge Mosè, coinvolge l’essere umano nel suo progetto di liberazione, ma d’altro lato si lascia coinvolgere, si lascia anche cambiare dal dialogo con Mosè.


5. Ultima cosa che vorrei dire è sul nome di Dio. Questo è uno dei brani che hanno dato più lavoro ai biblisti. Mosè chiede a Dio di dirgli il suo nome e Dio dà tre risposte, prima dicendo che egli è il Dio dei padri, quindi legandosi alla storia di Israele.
Poi risponde con quella frase enigmatica che viene tradotta con «Io sono colui che sono» o «io sarò quello che sarò». Dio rivela poi al v. 15, il nome vero e proprio, il cosiddetto Tetragramma (YHWH), quattro consonanti ebraiche che non sappiamo più come fossero pronunciate, perché si sono perse le vocali.
Sia la frase «Io sono colui che sono», sia il tetragramma hanno a che fare con il verbo essere, ma non solo un teorico “essere” bensì un “esserci”. Dio sta dicendo a Mosè non che esiste – nessuno metteva in dubbio l’esistenza di Dio – ma che c’è, che è lì per e con lui e per e con il popolo.
Questo nome è dunque in primo luogo una promessa, la promessa che Dio sarà con il popolo nel suo esodo, nella sua uscita dalla casa di schiavitù. Il nome di Dio esprime la presenza di Dio, la promessa della sua presenza in mezzo al popolo per compiere l’opera di liberazione.
E poi è un nome attraverso cui Israele può invocarlo, chiamarlo, rivolgersi a lui in preghiera. Israele può avere una relazione con questo Dio. Sappiamo che sarà una relazione fatta di molte infedeltà da parte di Israele, e molto faticosa per Dio.
Il quale però però non verrà meno alla sua promessa di liberazione, non verrà meno alla promessa di essere il Dio che c’è e che accompagna il suo popolo.


In questo Dio che chiama Mosè noi crediamo e riponiamo la nostra fiducia.
Crediamo in un Dio che partecipa alle nostre sofferenze, che vede, ascolta e conosce i nostri tormenti e scende per liberarci da essi.
Crediamo in un Dio che per noi è sceso nella persona di Gesù, in un Dio che libera, che è il liberatore per eccellenza ed è sceso per liberarci dalla schiavitù della nostra colpa - e in fondo dalla schiavitù di noi stessi – e che ci chiama a collaborare a questa opera di liberazione degli oppressi da ogni genere di oppressione.
Crediamo in un Dio che ci rivela il suo nome affinché noi possiamo invocarlo, ci dona il suo nome che è una promessa, la promessa della sua presenza accanto a noi nel nostro cammino.
È il Dio di Mosè, è il Dio padre di Gesù, nel quale Dio è sceso fino a noi per dirci che anche per noi è vero tutto questo.