venerdì 19 dicembre 2014

"Fido" è morto: che ne sarà di lui?» – così ho riassunto la lettera del nostro lettore, che pone una bella domanda, ahimé alquanto trascurata dalla teologia cristiana sia classica sia moderna, con pochissime eccezioni. La prima è ovviamente quella di Francesco d’Assisi (1182-1226), che secondo quanto scrive il suo primo biografo Tommaso da Celano «chiama col nome di fratello tutti gli animali, benché in ogni specie prediliga quelli mansueti». Una seconda eccezione è Albert Schweitzer (1875-1965), che riassunse la sua vita e il suo pensiero nel principio del «rispetto per la vita» in ogni sua manifestazione: «Un uomo è morale soltanto quando considera sacra la vita come tale, quella delle piante e degli animali tanto quanto quella dei suoi simili, e quando si dedica ad aiutare ogni vita che ne ha bisogno». Una terza eccezione è Karl Barth (1886-1968), che nella sua Dogmatica ha dedicato agli animali (ma anche alle piante) molte pagine estremamente suggestive e istruttive, nel quadro della dottrina della creazione, ma non solo. Queste eccezioni, purtroppo, non hanno fatto scuola. La pur bella e pregevole Encyclopédie du protestantisme pubblicata a Ginevra e Parigi in prima edizione nel 1995 e in seconda «rivista, corretta e accresciuta» nel 2006, contiene una voce sugli angeli (il che va benissimo), ma non una sugli animali e tanto meno sulle piante (il che va malissimo). Speriamo in una terza edizione ulteriormente «corretta e accresciuta» che contenga queste voci ora mancanti. La loro mancanza rivela una lacuna, per non dire un vuoto, che sta dentro di noi. Anche la Dogmatica in tre volumi di Gerhard Ebeling, peraltro eccellente, parla molto della Natura, ma non specificatamente di animali e piante. Ne parla invece il nostro lettore, con una domanda molto specifica: c’è un aldilà per gli animali? (per quelli «domestici», dice lui, ma io allargherei il discorso a tutti).

La sua domanda però ne contiene molte altre, a cominciare da quella fondamentale della differenza tra l’uomo e l’animale, molto netta nel racconto biblico, che parla di un «dominio» dell’uomo sugli animali (Genesi 1, 28). Va però precisato che questo dominio, comunque fatale per gli animali, non comportava, all’inizio, il diritto dell’uomo di uccidere gli animali per cibarsene. Questo diritto venne affermato solo più tardi, dopo il diluvio (Genesi 9, 3). La differenza tra l’uomo e l’animale è stata espressa, tra gli altri, in termini classici da Tommaso d’Aquino il quale, pur sostenendo che Dio è in qualche modo «presente» in tutte le cose da lui create, quindi anche negli animali, afferma però che tutti gli animali, anche quelli superiori, sono «situati a grande distanza dall’immagine di Dio» (longe a similitudine divina remota), «mentre l’uomo si dice formato "a immagine e somiglianza" di Dio». La differenza, secondo la tradizione biblica, è questa, ed è grande. In altre tradizioni religiose invece, soprattutto orientali, la differenza sembra meno netta, tanto che in quelle che credono nella reincarnazione (il Buddismo e alcune correnti dell’Induismo) la differenza è così labile che l’anima dell’uomo può cadere così in basso da finire, almeno provvisoriamente, nel corpo di un animale – dottrina, questa, impensabile nel quadro del pensiero biblico.
Detto questo, resta però il fatto innegabile – tutti lo sanno, ma non sempre lo ricordano – che l’uomo è un mammifero come tanti altri animali, è dunque anche lui anzitutto un animale. Aristotele lo definiva animale «razionale» (in greco loghikòn) e «politico» (in greco: politikòn), ma pur sempre un animale. Prima di lui già il racconto biblico della creazione aveva significativamente accostato l’uomo al mondo animale, collocando la sua creazione non in un giorno speciale riservato a lui solo, ma associandolo nello stesso giorno, il sesto, alla creazione degli animali terrestri. Prima di parlare della differenza, occorrerebbe dunque illustrare la vicinanza e comune appartenenza delle due condizioni, quella animale (che tra l’altro ha la precedenza nell’ordine della creazione) e quella umana (che segue). In questo quadro non è forse inutile riferire una considerazione di carattere generale sul rapporto uomo-animali fatta dallo scrittore francese Montaigne (1533-1592), segnalatami dal pastore Angelo Cassano di Locarno (Ticino), che ringrazio. Nei suoi celebri Essais Montaigne rimprovera all’uomo il suo orgoglio e la sua presunzione quando si arroga il diritto di giudicare gli animali: «Come può l’uomo conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il suo passatempo più di quanto io faccia con lei?». Noi li consideriamo bestie; forse anche loro ci considerano bestie. In fondo, comprendiamo poco di loro, come loro comprendono poco di noi. Perciò «bisogna che osserviamo la parità che c’è tra noi. Noi comprendiamo approssimativamente il loro sentimento, così le bestie il nostro, pressappoco nella stessa misura». Dunque, dice Montaigne, il rapporto uomo-animali non va impostato in termini di superiorità e inferiorità, ma di parità. Queste considerazioni ci introducono bene alla domanda del nostro lettore: «C’è un aldilà per gli animali?».

A questa domanda non c’è, che io sappia, nella Sacra Scrittura, che è la nostra guida e norma nelle questioni di fede e vita, una risposta diretta ed esplicita. Ci sono però tre ordini di pensieri che consentono una risposta relativamente sicura, benché indiretta. Il primo è la creazione, il secondo è il patto, il terzo è la promessa messianica.

1. Nella visione biblica la creazione è anzitutto creazione di animali (e piante). L’uomo viene dopo, ed è confinato sulla terra, mentre gli animali popolano anche il cielo e il mare. Come sarebbe vuoto il creato se ci fosse solo l’uomo! Non sarebbe il creato uscito dalle mani di Dio. Un creato senza animali è biblicamente impensabile. Ecco perché insieme a Noè vengono salvati nell’arca anche gli animali: questo può valere come figura di una salvezza comune. Persino il Mar Morto, secondo il profeta Ezechiele, non resterà per sempre morto e quindi senza pesci: dal Tempio uscirà un torrente che vi si immergerà rendendo le sue acque «sane» (47, 5) e quindi anch’esse popolate di animali marini (v. 9). Insomma, gli animali fanno parte integrante della creazione, e non c’è alcun motivo per ritenere che non facciano parte (in forme che, certo, non possiamo immaginare) della nuova creazione, cioè di un nuovo cielo e una nuova terra (il mare, a quanto pare, purtroppo, non ci sarà più, secondo Apocalisse 21, 1, a meno di una bella sorpresa finale; comunque ci sarà un grande fiume e acqua in abbondanza).

2. Non solo gli animali sono benedetti da Dio, come la coppia umana, in vista della procreazione (Genesi 1, 22 e 28), ma essi sono inclusi ed esplicitamente menzionati nel Patto che Dio stabilisce con Noè, il cui simbolo è l’arcobaleno (Genesi 9, 8-17). Questo patto è «perpetuo» (v. 16) e il suo contenuto è la vita che, in tutte le sue espressioni e manifestazioni, non sarà più distrutta. Chi è nel Patto – e gli animali ci sono – non è nella morte, ma nella vita. L’uomo e gli animali sono ugualmente mortali (Ecclesiaste 3, 19-21!!), ma, in virtù del Patto, la loro morte non è definitiva.

3. Secondo Isaia 11, 6-9 la promessa messianica è un mondo animale riconciliato al suo interno («il lupo abiterà con l’agnello») e con l’uomo («il lattante si trastullerà sul buco del serpente»). Questa promessa, che associa uomini e animali, può essere collegata con il discorso di Paolo sulla creazione che ora è «sottoposta alla vanità», cioè alla morte, e perciò «geme insieme ed è in travaglio», ma «sarà anch’ella liberata dalla servitù della corruzione», cioè restituita a una vita senza la morte dentro (Romani 8, 20-23). In questa creazione liberata, come ho detto al punto 1, ci sono anche gli animali.
C’è dunque speranza per «Fido»? Sì, come c’è per il suo padrone e per tutti. C’è però una sottile insidia che può annidarsi nella domanda del nostro lettore e che è bene segnalare. L’insidia è di considerare l’Aldilà una sostanziale fotocopia dell’Aldiquà e il mondo futuro una semplice replica (migliorata) di quello attuale. Sarà invece un mondo nuovo, e non si insisterà mai abbastanza sulla portata di questo aggettivo. I rapporti tra le persone e quelli con gli animali non saranno più quelli odierni, ma saranno trasfigurati, cioè trasformati in rapporti completamente diversi, luminosi, trasparenti, felici, perché saranno unificati in Dio, che sarà «tutto in tutti» (I Corinzi 15, 28).



tratto dalla rubrica "Dialoghi con Paolo Ricca
del settimanale Riforma del 19 ottobre 2007


martedì 16 dicembre 2014

Predicazione di Domenica 14 dicembre 2014 (seconda di Avvento) su Matteo 11,2-10, a cura di Pietro Magliola

Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» Gesù rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi recuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!» Mentre essi se ne andavano, Gesù cominciò a parlare di Giovanni alla folla: «Che cosa andaste a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? Ma che cosa andaste a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Ecco, quelli che portano delle vesti morbide stanno nei palazzi dei re. Ma che cosa andaste a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è [infatti] colui del quale è scritto: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”


La domanda di Giovanni “sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?” ha suscitato e suscita dubbi e imbarazzo nei credenti. E' necessario quindi far chiarezza e, forse, rivedere alcune idee non precise sul Battista, prima di esaminare questo brano, per evitare di giungere a conclusioni ed interpretazioni non corrette.

Il problema principale che si pone è questo: com'è possibile che Giovanni, che aveva riconosciuto in Gesù il Messia, adesso dubiti ? Forse perché è in prigione e rischia la vita ?
Chiariamo subito che i Vangeli ci presentano, se così possiamo dire, due Giovanni Battista: quello dei sinottici, profeta del Regno di Dio ormai prossimo e annunciatore del giudizio definitivo, e quello del Vangelo secondo Giovanni, precursore del Messia. Orbene, è questo secondo Giovanni Battista che riconosce espressamente in Gesù il Cristo (o meglio, l'Agnello di Dio che togli il peccato del mondo). Il Battista dei sinottici, invece, si limita – si fa per dire – a dire a Gesù: “sono io che devo essere battezzato da te, non tu da me”. Giovanni quindi riconosce in Gesù colui che porterà a compimento il giudizio da lui annunciato. Se non è qualcosa di meno, è certamente qualcosa di diverso dal riconoscimento di Gesù come Messia.
Giovanni Battista, dunque, si trova in prigione, e lì sente parlare delle opere fatte da Gesù. Cosa sono queste opere ? Potrebbero essere i miracoli e le guarigioni operate da Gesù, anche se la risposta che Gesù darà ai discepoli del Battista può far sorgere qualche dubbio in proposito, ma saranno anche e soprattutto il modo di agire, di comportarsi, di rapportarsi con i peccatori che ha Gesù.. Il dubbio di Giovanni nasce dal fatto che Gesù non si comporta come lui pensava che dovesse comportarsi, annunciando e portando a compimento il giudizio contro i peccatori.
Giovanni sente che qualcosa, in Gesù, non quadra.
E' come se il Battista riassumesse in sé i due diversi schieramenti che stavano sorgendo in Israele riguardo a Gesù: coloro i quali dicevano “una cosa così non l'abbiamo mai vista” e quelli che, come i Farisei, che dicevano “costui scaccia i demoni con l'aiuto del principe dei demoni”.
E' inutile andare a cercare i motivi psicologici di questa domanda. Matteo non li dice, perché non gli interessavano; tanto è vero che della domanda posta dal Battista non si saprà più nulla.  Quello che interessava all'evangelista era di provocare la domanda della fede. 
La risposta di Gesù è, come molte altre volte, poco diretta. Non risponde dicendo chiaramente “sì, lo sono – no, non lo sono”, ma dice di andare a riferire a Giovanni ciò che “udite e vedete”.
Nel passo parallelo, Luca dice “visto e udito”. La variante di Matteo è importante perché ci spiega come sia la predicazione a chiarire i segni, e non viceversa.
Di per sé la serie di miracoli elencati da Gesù, che cita alcuni versetti di Isaia, non sarebbe particolarmente significativa. Sia Elia sia Eliseo avevano richiamato in vita dei morti, ed Eliseo aveva guarito un lebbroso. Un profeta guaritore non era una novità in Israele. E il Messia atteso non era un guaritore, bensì un capo politico-militare inviato da Dio.
Solo ascoltando la predicazione del Regno fatta da Gesù si possono riconoscere nei miracoli i segni dei tempi messianici. In se stesse, le opere sono solo dei segni; portano alla fede solo quando vengono messe a confronto con il costante agire di Dio nella storia.
Ma questo comporta un cambiamento di prospettiva, impone di guardare al mondo con uno sguardo diverso, non più il giudizio e la condanna ma la misericordia e il perdono.
In Matteo Giovanni Battista appartiene ancora al primo patto, Gesù invece inaugura il nuovo patto. Questo cambia tutto, e questo è quanto Matteo vuole dire.
Non sappiamo se questa risposta abbia soddisfatto il Battista, Matteo tace in proposito, e noi faremmo bene a prender atto di questo silenzio, senza voler dare risposte ad un quesito che, evidentemente, all'evangelista non interessava.
La conclusione del discorso di Gesù è: beato chi non non si sarà scandalizzato di me.
Gesù non impone la fede, ma mette nella situazione di decidere: è lui quello che doveva venire ? Se la sua predicazione il suo modo di fare non ci scandalizzerà, potremo rispondere di sì; altrimenti risponderemo di no.
Infine Gesù, partiti i discepoli di Giovanni, si rivolge alla folla per chiedere -nella forma, almeno, perché in realtà è Gesù stesso che risponde alla domanda – chi fosse Giovanni. Non era un potente, dice Gesù. Non era una canna sbattuta dal vento (forse un accenno ad Erode Antipa, che aveva fatto coniare delle monete portanti il disegno di una canna di fiume), non era uno vestito riccamente: era un profeta, anzi più di un profeta. Giovanni è il precursore che, come disse Malachia, “deve preparare la strada davanti a me”. Matteo riporta “davanti a te”: Gesù applica a se stesso la parola del profeta, così come nel suo ambiente era applicata al Messia.
L'attesa della sua venuta aveva due aspetti: quello di giudicare e quello di salvare. Giovanni il Battista mette l'accento sul primo aspetto; Gesù, pur non negando questo aspetto, si presenta come colui che guarisce e salva.

Il tempo del giudizio sarà, come opportunamente ci ha ricordato Paolo nel brano della prima lettera ai Corinzi che abbiamo ascoltato prima, quando sarà venuto il Signore.

venerdì 5 dicembre 2014

Predicazione di domenica 30 Novembre (1° domenica di Avvento) su Luca 2,25-38,di Ludovica Pepe Diaz

Oggi e la prima domenica di un tempo che la Chiesa chiama Avvento.
Questo è un tempo di quattro settimane che precedono il natale, un tempo dato ai credenti perché si preparino a commemorare l'evento più importante della nostra vita: il dono che il Signore ci ha fatto di sé stesso incarnandosi in Cristo, per la nostra salvezza.
A Natale ricordiamo la nascita del Dio fattosi uomo, raccogliendoci, commossi e riconoscenti, attorno al Dio bambino, che si è fatto piccolo, ha voluto anch'egli percorrere le vie dell'infanzia per essere, oltre che nostro Padre, nostro fratello, simile a noi così che fosse da noi comprensibile.
Sì, quest'evento ha segnato tutta la storia dell'umanità, per noi cristiani, e in essa ogni nostra singola vita.
Dovremmo ricordarcene ogni giorno, dovremmo ogni giorno sostare accanto a quella povera culla per adorare il nostro Dio Bambino, ripercorrendo con Lui la sua tremenda strada terrena fino alla Croce per poi esultare della Sua Resurrezione.
Ogni giorno per noi dovrebbe essere Natale e Pasqua! Ma noi, povere creature, limitate dalle nostre esigenze materiali che ci distolgono da un continuo e intenso rapporto con Dio, distratti dalle contingenze quotidiane, spesso non riusciamo a tenere il nostro pensiero e il nostro sguardo rivolti al volto di Cristo,ma possiamo sperare che il Signore misericordioso, che conosce i nostri limiti, ci comprenda e ci perdoni.
A causa della nostra distrazione e per le nostre dimenticanze è bene fissare un tempo particolare, come quello dell'Avvento,in cui siamo invitati a raccoglierci e meditare, sul dono della salvezza e. anche la Corona dell'Avvento e le candele che accendiamo in successione ogni domenica , sono un simbolo materiale che ci aiuta e che ci richiama a vivere questo tempo particolare.
Ora, leggendo questo episodio del Vangelo che ho scelto per la meditazione di questa mattina, incontreremo un uomo che ha saputo vivere tutta la sia vita come un tempo di Avvento.

dal Capitolo 2 del Vangelo di Luca dal v. 25 al v.38:

Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo:
«Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola;
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli 
per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».
Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, dicendo a Maria, madre di lui: «Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione (e a te stessa una spada trafiggerà l'anima), affinché i pensieri di molti cuori siano svelati».
Vi era anche Anna, profetessa, figlia di Fanuel, della tribù di Aser. Era molto avanti negli anni: dopo essere vissuta con il marito sette anni dalla sua verginità, era rimasta vedova e aveva raggiunto gli ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quella stessa ora, anche lei lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme.


Questo brano non ci dice niente di chi fosse in realtà, storicamente, Simeone, il cui nome era molto frequente in Israele. Egli potrebbe anche essere una figura simbolica: infatti di lui ci vengono sottolineati solo le qualità morali del carattere, e della sua figura ci si dice soltanto che era un uomo avanti negli anni. Possiamo immaginare che quest'anziano, giunto ad un tramonto sereno della sua vita, durante la quale aveva perso ad uno ad uno sia familiari che amici, compagni del suo viaggio terreno, fosse rimasto solo. Forse anche per questo Simeone si recava più frequentemente al Tempio dove egli sentiva maggiormente la presenza di Dio, di quel Dio che riempie col suo amore tutte le solitudini dell'anima. Così' quella presenza divina illuminava come un raggio di sole la sera, la declinante giornata della vita di Simeone. Il Vangelo ci dice che questo accadeva perché Simeone era sempre stato un UOMO GIUSTO. Fin da fanciullo aveva imparato la legge d'Israele e la legge di Dio sforzandosi di metterla in pratica.
Simeone era TIMORATO di Dio, cioè egli era un uomo pio e la sua pietà era sempre stata il principio e la fonte della sua giustizia. La sua pietà era tale che gli aveva permesso di innalzare sempre di più il cuore e l'anima verso l'Eterno.
A quel giusto, a quel pio, era stato quindi concesso un privilegio immenso: sopra di lui aleggiava lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non avrebbe visto la morte prima di aver veduto il Santo del Signore.
Possiamo essere colpiti da due termini che sembrano così opposti: la vita e la morte, ma possiamo comprendere questa dicotomia se pensiamo a Simeone come alla prefigurazione del credente che nel volto del Cristo non vede la morte ma la salvezza, la vita e la Resurrezione. Questo vegliardo di cui il Vangelo ci parla, non vive come son soliti vivere gli anziani di ricordi del passato senza troppa speranza nel futuro, egli ha lo sguardo proteso verso l'avvenire perché ogni giorno nutre il suo spirito di una speranza a venire: Simeone è un vegliardo che aspetta.
Anche i Profeti dell'Antico Testamento aspettavano una liberazione, una restaurazione terrena della Nazione e l'arrivo del Messia: tutta la storia di Israele è la storia di una attesa appassionata che le promesse del Signore si compiano.
Nel Vangelo il primo annuncio della nascita di Gesù è dato a persone che erano in attesa che erano solite attendere, ai pastori che, a guardia del gregge, attendevano l'aurora; e poi ai Magi che attendevano una cometa e a Simeone ed Anna che nel Tempio, attendevano il compimento di una promessa del Signore.
L'Avvento è periodo di attesa anche per noi, tempo in cui possiamo coltivare la dolce speranza di sempre e nuove preziose benedizioni e grazie spirituali. Il cuore dell'uomo che batte nell'attesa è un cuore che spera e la nostra speranza deve essere fiduciosa come quella di Simeone piena della presenza di Dio, in modo che possiamo essere pronti ad accogliere il Signore quando si rivelerà a noi in qualsiasi forma Egli voglia farlo, anche in quella di un bimbo posto in una mangiatoia.
Simeone dunque aspettava ed aspettava una CONSOLAZIONE. I Profeti indicano l'attesa del Messia come una consolazione.
Scrive Isaia “Io sono colui che vi consola”, ed ancora; “L'Eterno mi ha inviato per consolare tutti quelli che fanno cordoglio” e poi: “Consolate consolate il mio popolo, dice il vostro Dio, l'Eterno consola il suo Popolo” .
L'elemento ATTESA non mancò neppure alla Fede dei primi Cristiani. Essi avendo ricevuto e riconosciuto il Cristo, e attendevano ancora nuove consolazioni, infatti “ Noi aspettiamo la redenzione del nostro corpo” dice il Vangelo - “Noi aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” ed ancora - “Noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra in cui abiti la giustizia”.
Queste sono anche le nostre speranze di consolazione.
La consolazione è la cosa di cui abbiamo bisogno perché vinca le nostre più intime sofferenze prodotte da tutto il male che è nel mondo. Ebbene tutte le consolazioni si trovano nel Vangelo, tutte comprese nell'annuncio della redenzione.
Ci viene detto che Simone aspettava la consolazione, Anna e molti in Gerusalemme aspettavano la redenzione: consolazione e redenzione diventano così sinonimi, termini che non possiamo separare.
Se il prossimo Natale non ci portasse la redenzione (e quindi la liberazione dalle attuali catene e dalle future conseguenze del male) esso non ci porterebbe alcuna consolazione reale e duratura.
A noi non è concesso, dopo l'attesa, di stringere al cuore realmente il piccolo Gesù, come fece Simeone, ma, se in questa attesa d' Avvento faremo silenzio nei nostri cuori, protesi a cogliere il soffio dello Spirito Santo rivelatore, Egli dirà anche a noi che Gesù” ritornerà secondo la promessa e ci accoglierà presso di sé affinché dove Egli è, siamo anche noi.”
Così il giorno di Natale l'attesa sarà compiuta e il Cantico di Simeone sarà il cantico di ciascuno di noi: "gli occhi miei hanno veduto la tua salvezza". Amen