domenica 9 febbraio 2020

Predicazione di domenica 9 febbraio 2020 su Marco 16,14-20 a cura di Giuseppe Sgroi

Marco 16,14-20
Alla fine Gesù apparve anche agli undici discepoli mentre erano a tavola. Li rimproverò perché avevano avuto poca fede e si ostinavano a non credere a quelli che lo avevano visto risuscitato. Poi disse: “Andate in tutto il mondo e portate il messaggio del Vangelo a tutti gli uomini. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E quelli che avranno fede faranno segni miracolosi: cacceranno i demòni invocando il mio nome; parleranno lingue nuove; prenderanno in mano serpenti e se berranno veleno non farà loro alcun male; poseranno le mani sopra i malati ed essi guariranno”. Dopo quelle parole il Signore Gesù fu innalzato fino al cielo e Dio gli diede potere accanto a sé. Allora i discepoli partirono per portare dappertutto il messaggio del Vangelo. E il Signore agiva insieme a loro e confermava le loro parole con segni miracolosi.


Questo singolare finale del Vangelo di Marco, che unanimemente i biblisti definiscono come aggiunta conclusiva al Vangelo, ci fornisce alcuni elementi di riflessione molto importanti.
Siamo in un’epoca nella quale il sensazionale è la norma, tutto ciò che fa sensazione e tendenza, cattura! I “like” si moltiplicano e nuovi mestieri nascono come quello degli “influencer” o degli “youtuber”.
Ma questo brano è veramente sensazionale; lo è perché gli eventi che in esso sono citati, lo sono: esorcismi, assunzione di pozioni velenifere, guarigioni, serpenti. Insomma cose che anche nel nostro tempo, sono definibili come sensazionali.
Ma lo è anche perché cita due elementi veramente sbalorditivi e oggi purtroppo non proprio comuni: la fede e la missione.

Gesù trova i discepoli a tavola e li rimprovera della loro incredulità; i discepoli, coloro che sarebbero diventati da lì a poco, gli apostoli, i propagatori del messaggio di salvezza, furono increduli, addirittura ostinati; nei versetti che precedono questo testo, troviamo delle parole molto dure dette dal Cristo Risorto ai discepoli: incredulità (apistía cioè assenza di fede e durezza di cuore (sclerocardía).
La fede è un grande dono di Dio fatto all’umanità e credere è un grande miracolo; e lo è soprattutto ai giorni nostri, dove il dominio del materialismo ha sclerotizzato non solo i sentimenti ma anche i comportamenti.
Il tema della settimana ecumenica di preghiera per l’unità dei cristiani, conclusasi da alcune settimane “Ci trattarono con gentilezza” tratto dal libro degli Atti (Atti 28,2).
Oggi la gentilezza sembra essere sempre più un miraggio, un elemento che spesso è identificato come segno di debolezza.
Ma la fede, quella vissuta, è in fondo come l’amore: è sempre gentile, non è mai aggressiva, non s’impone, non pretende di essere migliore di altre, non offende le altre fedi, non ingiuria, non odia.
E per tutto questo occorre forza (e tanta anche); non è debolezza, è forza, perché è sostenuta dalla forza che esprime lo Spirito di Dio.

La fede compie ogni giorno azioni grandi e miracolose, credo non nel senso letterale del testo, ma certamente nel senso più profondo ed intimo, ossia quello che possiamo definire, “della relazione”.
E nell’ambito della relazione possiamo leggere tutti gli altri segni che il testo ci presenta, segni, come abbiamo detto all’inizio, sensazionali.
Cacciare i demoni ossia liberare: liberare da tutto ciò che opprime l’anima e lo spirito, liberazione dall’impossibilità di essere se stessi, dal sentirsi come delle marionette i cui fili sono mossi da altri, dovendo ripetere quello che altri si aspettano da noi. Possiamo essere vittime di una certa cultura escludente (le griffes, la moda in genere, gli ultimi gioielli tecnologici: se non li hai sei fuori, sei out, come dice un comico che imita chi pronuncia queste frasi); possiamo essere vittime dell’economia (specie quando si perde il lavoro, la possibilità di non poter contribuire al sostegno della propria famiglia, ciò produce la perdita di dignità, mentre un’economia ormai senza quasi più etica, salvo pochi e rari casi, produce ricchezza solo per pochi).
Si può essere vittime del potere (qualsiasi sopruso, dal più piccolo al più grande ci può rendere vittime), oppure vittime del denaro (quando più se ne ha e più se ne vuole avere, oppure quando si cade vittima di ludopatie ed altri meccanismi infernali similari); ma si può essere anche vittime delle chiese in alcuni casi e aggiungo purtroppo!
La liberazione dai demoni è invece ciò che ci restituisce a noi stessi, nella consapevolezza che ciascuno e ciascuna di noi non può che appartenere a Dio soltanto e a nessun altro; significa partecipare liberamente e attivamente ad una vita di relazioni.
Ed è certamente nella relazione che si situa la capacità di parlare in lingue, altro segno indicato nel testo (anche se storicamente e testualmente, seguendo il racconto del libro degli Atti degli apostoli, questo segno aveva un altro senso e tutt’altra manifestazione); parlare in lingue manifesta in fondo la capacità che ci è donata, ossia quella di relazionarci con il prossimo, attraverso l’espressione verbale, poterci relazionare con gli altri, poter predicare il Vangelo, o anche più semplicemente, parlare della nostra fede, ed essere capiti; la Parola di Dio, come qualcuno ha affermato, “parla la lingua di tutti, non va al di là della nostra capacità di comprensione”, o forse, sarebbe meglio dire che “l’intervento dello Spirito rende la Parola accessibile, comprensibile, chiara”.
Prendere in mano i serpenti, cosa che credo a molti di noi faccia paura solo la possibilità che ciò possa accadere, anche in questo caso, può voler dire “non avere paura di ciò che può farci del male”. Prendere in mano i serpenti è una parola che possiamo ricevere come immagine: noi preferiamo che tante cose restino nascoste o che stiano lontane da noi perché ci fanno paura, viviamo nella speranza che non accada mai ciò che temiamo; e ancora una volta scopriamo che la Parola di Dio ci libera dalla nostra paura, ci permette di affrontare e di prendere in mano i nostri serpenti, le nostre paure. Se per i missionari del II secolo poteva essere anche la paura della persecuzione, della morte cui molti predicatori andavano incontro, per noi? Quali sono le nostre paure? Ciascuno e ciascuna di noi può porsi la domanda e cercare in sé stessi la risposta. Quali che siano le nostre paure, sappiamo, anche attraverso questa parola letta oggi, che Gesù ci ha liberati!
La missione dei discepoli in Cristo poteva diventare un “calice amaro”, un veleno mortale; ieri come oggi, quando assistiamo alle ingiustizie, allo sfruttamento nell’ambito del lavoro (come ad es. i rider ma non solo), la riduzione in schiavitù (come coloro che lavorano nei campi intere giornate per pochi spiccioli), ancora oggi la missione di tutti e tutte noi come discepoli e discepole del Cristo Risorto, è spesso una pozione velenifera, quando ci scontriamo con tutto ciò e spesso non riusciamo a trovare soluzioni valide per la risoluzione di quei problemi. Si, è un calice amaro, un veleno che ci infetta nel profondo, che ci mortifica, ci frustra.
E ancora una volta ci affidiamo alla Parola di Cristo che ci libera e ci rende intimamente più forti; e da persone liberate e rese forti, diveniamo, ieri come oggi, un segno per gli increduli.
Il nostro testo cita anche il segno delle guarigioni che possiamo intendere come la capacità donata da Dio di “dare” un luogo di riparo e protezione alle altre persone, di stendere su di loro le mani che le proteggano, di comunicare loro la sensazione di essere accettate con tutta la loro esistenza.

Un giorno una taxista riceve una chiamata, era l’ultima del suo turno, aveva fatto il turno di notte ed era stanco, non vedeva l’ora di tornare a casa sua e mettersi a letto a riposare.
Risponde alla chiamata e si reca all’indirizzo comunicato. Suona il campanello e una voce di donna risponde “arrivo”. Il taxista attende, passano i minuti, ma non arriva nessuno; si dirige verso la sua vettura, deciso a ripartire senza attendere oltre. Entra nell’abitacolo, mette in moto, quando vede aprire la porta della casa per la quale aveva ricevuto la chiamata. Era una persona anziana, aveva con sé una grossa valigia che trascinava a fatica.
L’uomo scende dalla vettura e si dirige verso l’anziana, le prende la valigia e, per questo suo gesto, del tutto professionale, riceve un “grazie”.
L’anziana donna sale in macchina e consegna al taxista un biglietto da visita dove c’era scritto l’indirizzo di destinazione.
Ma prima di andare lì, per favore faccia un giro lungo attraverso l’intera città, senza fretta”.
L’uomo, benché stanco la accontentò. Girarono l’intera città e ad ogni angolo e piazza, parco o monumento, l’anziana donna raccontava un aneddoto della sua vita: un bacio con il fidanzato che sarebbe poi diventato suo marito, un posto dove aveva portato i suoi figli, episodi buffi ed altri seri, alcuni tristi e drammatici. Insomma il racconto di un’intera esistenza.
Era sola, i suoi figli abitavano all’estero, lontano, e lei era anziana e non poteva più vivere da sola. Benché autosufficiente, si era resa conto che aveva bisogno d’aiuto e dunque aveva prenotato una stanza presso una struttura per anziani autosufficienti.
Il giro durò tutta la mattina e infine arrivò a destinazione. Il taxista, le prese i bagagli, e li consegnò al personale che l’attendeva. La signora fece per pagare ma il taxista non volle nulla. Si abbracciarono e si salutarono.
Anche lui aveva steso le sue mani per guarire e forse era stato anche lui guarito. Ecco una forma di possibile guarigione: l’ascolto reciproco!

La domanda che dobbiamo porci adesso, non è più cosa fa l’altro, cosa possiede l’altro, come dovrebbe essere l’altro per trovare giustificazione ai nostri occhi, la domanda ora è: chi è l’altro, che cosa vive in lui, cosa soffre, che cosa pensa e sente veramente; stendere le mani sopra di lui significa accettarlo senza riserve.
E infine, la missione, Gesù nonostante il persistere di questa poca fede, invia proprio loro in una missione senza confini, veramente universale; una missione cosmica, si potrebbe anche dire: “Andate in tutto il mondo, annunciate la buona notizia a tutta la creazione”. Non ci sono più barriere, il messaggio d’amore e liberazione può essere annunziato a tutti e tutte. Davanti a quei poveri discepoli titubanti, un po’ increduli, c’è il mondo intero, l’intera creazione! Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede in Dio: i discepoli (di ogni tempo) devono guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.
Il brano di oggi dunque, è anche un invito all’evangelizzazione; non si tratta di un banale proselitismo, ma si tratta invece di andare nel mondo ad annunciare e testimoniare l’amore di Dio.
Quest’invito è di fatto ben più faticoso di una semplice fuga dal mondo: non riguarda i mezzi economici; si tratta piuttosto, di abbandonare le certezze, gli appoggi intellettuali, gli assetti religiosi praticati fino a quel momento, e di immergersi in Cristo e lasciarsi trasportare da Lui.
Più il Vangelo è annunciato con franchezza, più esso è come un seme non rivestito che caduto a terra, germoglia subito e più facilmente.
Quanti errori abbiamo commesso nell’evangelizzazione, confidando nei nostri mezzi, nelle nostre “ideologie”, e, in parallelo, disprezzando le culture degli altri, che sovente abbiamo mortificato e distrutto per imporre la nostra!
In passato è accaduto maggiormente fra diverse confessioni cristiane (e noi come valdesi, storicamente ne sappiamo qualcosa) e non solo con culture di altri continenti.
Oggi invece e grazie a Dio, siamo liberi di poter testimoniare due semplici ma importantissime cose:
che chi ci libera è il Signore Gesù Cristo Risorto mediante la fede in Lui;
che Colui che ci libera, ci chiama anche alla relazione con gli altri fatta di semplicità, gentilezza e amore.
E questa testimonianza sottintende una chiamata al servizio, che in fondo è già contenuta nel battesimo che ciascuno e ciascuno di noi ha ricevuto.
E dunque, noi tutti e tutte uniti, vogliamo esprimerla rispondendo con un vigoroso SI! Con l’aiuto del Signore.
Amen

mercoledì 5 febbraio 2020

Predicazione di domenica 2 febbraio 2020 su Apocalisse 1,9-20 a cura di Andrea Mela

Apocalisse 1, 9-20

9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, ero nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. 10 Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore, e udii dietro a me una voce potente come il suono di una tromba, che diceva: 11 «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea».
12 Io mi voltai per vedere chi mi stava parlando. Come mi fui voltato, vidi sette candelabri d'oro 13 e, in mezzo ai sette candelabri, uno simile a un figlio d'uomo, vestito con una veste lunga fino ai piedi e cinto di una cintura d'oro all'altezza del petto. 14 Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve; i suoi occhi erano come fiamma di fuoco; 15 i suoi piedi erano simili a bronzo incandescente, arroventato in una fornace, e la sua voce era come il fragore di grandi acque. 16 Nella sua mano destra teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza.
17 Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l'ultimo, 18 e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell'Ades. 19 Scrivi dunque le cose che hai viste, quelle che sono e quelle che devono avvenire in seguito, 20 il mistero delle sette stelle che hai viste nella mia destra, e dei sette candelabri d'oro. Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese.

 
In questa domenica che chiude la prima parte dell'anno liturgico (quella che va dall'avvento all'epifania) e dopo la conclusione della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, il nostro lezionario ci propone, questo testo che apre l'Apocalisse, l'ultimo libro della Bibbia.
Il brano che abbiamo letto racconta la visione inaugurale di Giovanni, la sua vocazione simile a quelle dei profeti dell'Antico Testamento (Is. 6; Ger. 1; Ez. 1; Dan. 7. 10). Questo Giovanni probabilmente non è lo stesso autore del quarto vangelo ma è un profeta che si inserisce nella sua tradizione. Ed è un profeta che scrive alle sette chiese, cioè a tutte le chiese e quindi alla chiesa universale. Forse è proprio per questo che oggi siamo invitati a riflettere sul suo messaggio che è rivolto a tutti i cristiani che erano già così diversi tra loro duemila anni fa, e sono ancor più diversi (e divisi) nella nostra epoca.
Come capita in ogni inizio d'anno, dobbiamo fare dei bilanci dell'anno passato e anche dei programmi per quello nuovo. Come piccola chiesa protestante abbiamo svolto bene il nostro compito? E come parte della grande chiesa cristiana universale quale contributo abbiamo dato all'annuncio dell'Evangelo? E come potremmo fare di più e meglio?
In che modo questo testo dell'Apocalisse ci può aiutare in questa riflessione?
Vediamolo da vicino.
Prima di tutto Giovanni si presenta come «vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù». Giovanni è prima di tutto un fratello, un membro di chiesa, uno che condivide con tutti gli altri quel misto di tribolazione (sofferenza, difficoltà) e di consolazione (gioia, speranza) che è la fede e la testimonianza di Gesù e del suo regno che viene. E proprio a causa di questa testimonianza si trova al confino a Patmos, una piccola isola del mar Egeo. Siamo verso la metà degli anni 90 cioè alla fine del primo secolo; le grandi persecuzioni dei cristiani in tutto l'impero romano inizieranno più avanti ma chi afferma che Cristo è il Signore commette un reato d'opinione, un reato politico, perché nega che Cesare, l'imperatore sia l'unico Signore. Per questo Giovanni è in esilio, lontano dalle sue comunità, per comunicare con esse può soltanto scrivere. Ma non scrive come Paolo, cioè come un pastore, scrive come un profeta, parla della rivelazione che ha ricevuto per mezzo dello Spirito: «Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore», non in un giorno qualsiasi ma nel tempo dedicato al culto e alla meditazione. Anche Paolo a Damasco ebbe una visione, ma non ha mai potuto o voluto descriverla. Invece Giovanni cerca di essere il più preciso possibile: prima sente una voce che gli ordina di scrivere a sette chiese dell'Asia Minore, poi si volta e vede una figura umana circondata da sette candelabri. Scopriremo alla fine che questi simboleggiano le chiese, ma perché proprio i candelabri? Perché il candelabro è l'oggetto che serve a portare la luce, a renderla ben visibile, a far si che possa essere presa in mano e offerta ad altri. La luce è la parola di Dio, la chiesa non lo è, ma è ciò che serve a sostenerla, diffonderla, trasportarla. Per questo il candelabro è anche nello stemma della nostra chiesa: rappresenta quello che noi dovremmo fare.
E in mezzo a quelle piccole luci c'è la vera luce della parola, anzi, come dice anche l'altro Giovanni nel prologo del suo vangelo, c'è la Parola stessa che «era nel principio con Dio» (1,2).
È una figura umana ed è il Cristo, ma non assomiglia affatto a quel Gesù che noi possiamo immaginare leggendo i vangeli: uomo umile tra gli umili, un maestro ma ancor prima un diacono. Quella che vede Giovanni è piuttosto l'immagine di un re o di un grande sacerdote o, meglio ancora, le due cose insieme: un re potente e glorioso e un sacerdote dotato di un'autorità suprema, con occhi di fuoco e lingua affilata come una spada e sette stelle nella mano destra. È l'immagine del Risorto ma non ci sono i segni della sua passione, delle torture subite, della croce: qui c'è solo la sua gloria. Perché?
Perché Giovanni di Patmos ci descrive un Cristo risorto così diverso da quello di cui parla Giovanni l'evangelista? Ricordate, quando appare ai discepoli otto giorni dopo la risurrezione e dice a Tommaso: «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente» (Gv. 20,27).
Semplicemente perché il contesto è completamente diverso. I vangeli ci spiegano che Gesù è veramente risorto dai morti, non è un fantasma, non è un'illusione, è una realtà che porta con sé tutti i segni che l'hanno preceduta. La comunità dell'incredulo Tommaso è quella che precede l'ascensione e la Pentecoste.
Le chiese a cui è rivolta l'apocalisse sono invece quelle di sessanta anni dopo: sono comunità che aspettavano da un giorno all'altro il ritorno di Gesù e che ora sono deluse, piene di incertezze e divisioni. C'è chi segue un leader, chi un altro. Non ci sono più i testimoni oculari, a chi credere? Nessuno ha conosciuto Gesù di persona, quei fratelli e quelle sorelle sono come noi, ne hanno solo sentito parlare. E allora ben vengano i vangeli, ma ora ci vuole una nuova apocalisse, una rivelazione che faccia capire a quelle comunità stanche, invecchiate e piene di dubbi, che Gesù non le ha abbandonate e che il suo ritorno, anche se ancora non si vede, è già un fatto compiuto nella fede. Se continueranno ad avere fede quei primi cristiani sapranno da Giovanni di Patmos e dalle sue visioni che Cristo è il vivente, che la morte è già sconfitta e che lui è il Signore della gloria.
E poi c'è un altro aspetto che per l'Apocalisse è fondamentale: ed è l'impero romano. Non dobbiamo pensare all'impero romano solo come ad un mostro cattivo che perseguita e uccide i cristiani. Certo le persecuzioni ci sono state, a più riprese e in varie epoche, ma l'impero ha sempre esercitato la sua forza d'attrazione anche sui cristiani.
L'impero romano nel primo secolo aveva portato la pace in gran parte del mondo di allora. È vero, una pace imposta con la vittoria militare, ma pur sempre una pace. Inoltre aveva portato in quel grande mondo attorno al mediterraneo, politicamente riunificato, strade, commerci e ricchezze economiche. Certo, non per tutti, e lo sfruttamento dei nemici sconfitti e ridotti in schiavitù era la norma, ma c'era pur sempre una ricchezza che prima era sconosciuta. C'erano delle leggi avanzate e il diritto a suo modo era fatto rispettare. Come non subire il fascino del potere imperiale? Magari cedendo un po' sul piano della fede, magari scendendo a qualche compromesso, magari pensando che forse Gesù regna nei cieli, ma qui sulla terra chi regna davvero è Cesare. Non vi sembra che anche in questo quelle prime chiese cristiane assomiglino un po' a quelle di oggi? Chi pensa più oggi al ritorno di Cristo sulla terra? Se parliamo del "regno di Dio" chi si ricorda davvero delle parole di Gesù che disse: «il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc. 17,21)
E allora c'è un grande bisogno, anche oggi, dell'Apocalisse la quale ci ricorda che già ora il Signore è il nostro unico re, che è bene evitare di essere troppo attratti dai poteri di questo mondo siano essi di natura politica, economica o esercitino qualche altra fascinazione che ci allontana da lui. E la società della comunicazione ossessiva in cui viviamo oggi ha mille modi per distrarre il nostro sguardo.
Ma c'è un ultimo messaggio che il testo di oggi ci lascia (17-18): "Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l'ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli»".
Ecco finalmente in questa scena ritroviamo "tutto Gesù", quel Gesù che cerchiamo sempre di vedere: Giovanni è tramortito dalla visione, cade a terra come i profeti dell'Antico Testamento, come Paolo a Damasco. Ma quel re glorioso, quel sacerdote sfolgorante è ancora il "nostro Gesù" benevolo e misericordioso.
La sua mano destra non regge più sette stelle ma si posa teneramente sul suo capo. «Non temere» dice ora Gesù, come sempre ha ripetuto ai suoi amici: «Non temere, sono io». E le piaghe del suo corpo, che non si vedono più, ritornano nella sua voce: «Ero morto, ma ecco sono vivo».
È una frase straordinaria questa, c'è un calore quieto e profondo, una compassione forte e rassicurante come quella che Gesù ha sempre avuto per ogni persona che ha incontrato. Ho condiviso la morte di ogni essere umano ma sono vivo e voglio condividere anche la mia vita nuova con tutti voi.
In queste parole c'è il passato, il presente e il futuro che Dio ha preparato per i suoi figli e le sue figlie e c'è anche il messaggio che le chiese di Cristo sono chiamate tutte insieme, senza divisioni, ad annunciare in ogni tempo.
Amen.