domenica 16 gennaio 2022

Predicazione di domenica 16 gennaio 2022 su 1 Corinzi 2,1-5 a cura di Marco Gisola

  1 Corinzi 2,1-5

E io, fratelli, quando venni da voi, non venni ad annunciarvi la testimonianza di Dio con eccellenza di parola o di sapienza; poiché mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso. Io sono stato presso di voi con debolezza, con timore e con gran tremore; la mia parola e la mia predicazione non consistettero in discorsi persuasivi di sapienza, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza, affinché la vostra fede fosse fondata non sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.



Che cosa sappiamo di Dio? E come facciamo a sapere qualcosa di Dio? Queste sono le domande – e che domande! – a cui Paolo risponde in queste parole che scrive ai cristiani di Corinto.

Sapere! Sapere è una delle cose che più determina la vita dell’essere umano. L’essere umano è curioso per natura, vuole andare oltre quello che già sa per sapere, per scoprire sempre di più.

Questa curiosità ha portato molto bene e molto male all’umanità: ha permesso lo sviluppo della scienza e della tecnologia – basta pensare alla medicina e alla chirurgia - e ha portato anche alla costruzione di armi sempre più sofisticate e più distruttive.

Questo desiderio di sapere ha portato l’essere umano anche a interrogarsi sul senso della vita, sulla propria origine e sul proprio destino e lo ha portato anche a interrogarsi su Dio.

La fede cristiana e la fede ebraica, dentro la quale quella cristiana è nata, sono concordi nell’affermare che noi conosciamo di Dio solo quello che Dio ci fa sapere. Sappiamo di Dio solo ciò che Dio ci rivela di sé. Altro – con le nostre forze, la nostra intelligenza, il nostro studio – non possiamo sapere.

Questo è ciò che dice anche Paolo in questo brano. Paolo era un uomo colto e di certo non disprezzava la cultura, lui che viveva in due culture, perché è nato in quella ebraica, ed è cresciuto in quella ebraica e anche in quella greca.

Paolo dice che per arrivare a Dio la nostra sapienza, la sapienza umana, non serve a nulla. Zero. Ci serve un’altra sapienza, che però non possiamo ottenere da noi stessi, per cui non servono intelligenza, non servono i libri e neanche tutta la nostra tecnologia moderna.

Ciò che possiamo sapere, e ciò che ci serve sapere di Dio e su Dio, ci può solo essere dato, ci può solo essere detto da Dio stesso; questo è il significato del verbo “rivelare”.

Ma Paolo qui va oltre: in estrema sintesi dice che una cosa sola ci è necessario sapere, abbiamo bisogno di conoscere una cosa sola: ovvero che Gesù di Nazareth, il Cristo, il messia d’Israele, è stato crocifisso per noi: “mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso”.

Non c’è altro da sapere. O meglio, c’è moltissimo altro da sapere, a partire dalla conoscenza della Bibbia, della teologia, da ciò che hanno detto, fatto e scritto i cristiani in venti secoli di storia.

La nostra chiesa ha un giornale, diverse riviste, la nostra facoltà ha una biblioteca di decine di migliaia di libri, le nostre chiese organizzano continuamente momenti di dibattito e di riflessione.

Il desiderio di sapere e di conoscere è non solo umano, ma vitale, per imparare sempre qualcosa di nuovo. La conoscenza aiuta la nostra fede e la nostra vita, il dibattito fa crescere. Ma la sapienza umana non aggiunge nulla alla fede. È bello e utile sapere sempre qualcosa di più, ma chi sa di più non crede di più, né meglio degli altri.

Per credere basta sapere quello che dice qui Paolo, basta conoscere il cuore dell’evangelo: Gesù Cristo è morto per noi, Gesù Cristo è morto per te. Se sai questo, sai tutto ciò che ti serve sapere per la tua salvezza, e dunque per vivere nella riconoscenza e nella speranza.

Vi avrò già raccontato ciò che mi raccontò molti anni fa un fratello di una delle nostre chiese di suo padre, un contadino siciliano, un bracciante, che divenne evangelico in una delle nostre chiese. Questo uomo era analfabeta, ma ogni mattina prima di andare nei campi pregava, pensando di non essere visto dai suoi figli.

Era analfabeta, non sapeva leggere, ma sapeva parlare con Dio, perché sapeva l’essenziale; questa era la sua sapienza. Il figlio – che non c’è più da alcuni anni – studiò, diventò infermiere, sindacalista e predicatore locale.

La sua sapienza umana gli servì come riscatto sociale e come occasione di servire il prossimo e la sua chiesa. Ma suo padre analfabeta era stato per lui un maestro, perchè sapeva l’essenziale per credere e per parlare con Dio.

Cosa significa sapere l’essenziale, conoscere Gesù Cristo e lui crocifisso? La croce ci trasmette una duplice sapienza, ci dice cioè chiaramente due cose, che devono stare insieme: la croce ci dice il nostro peccato e ci dice la misericordia di Dio.

La croce rappresenta da un lato una condanna, una condanna a morte. Gesù muore, condannato a morte, a una terribile morte, da noi esseri umani. Gesù muore innocente, condannato a morte da noi colpevoli. La croce è il segno molto concreto della nostra colpa, del nostro rifiuto di Dio e del suo figlio che Dio ha mandato per noi.

Non possiamo evitare, “bypassare” questo significato della croce. La croce ci fa vedere prima di tutto la nostra colpa. Se non ci fosse la nostra colpa, Gesù non sarebbe morto sulla croce.

E poi ci dice la misericordia di Dio. La morte di Gesù è condanna, ma è anche dono; è colpa (nostra), ma è anche perdono (nostro, da parte e per grazia di Dio).

La croce tiene insieme queste due cose, che sono inseparabili. In Cristo non c’è perdono senza colpa e non c’è colpa senza perdono. A chi riconosce la propria colpa, essa è perdonata.

A chi si specchia nella croce, che ci dice chi siamo, in quello specchio vede nel volto di Cristo la propria colpa, ma vede anche il suo nuovo volto, il volto di chi ha incontrato la grazia di Dio. La croce ci mostra la nostra miseria, la miseria della nostra colpa, per farci scoprire, anzi facendoci scoprire, contemporaneamente, la meraviglia del perdono.

Questo Paolo è andato a predicare a Corinto, un messaggio che nel capitolo precedente aveva appena definito “la pazzia della predicazione”.

Annunciare il Cristo crocifisso, ovvero il messia messo a morte anziché un messia dominatore e trionfante, era un messaggio folle. Paolo.

Sempre pochi versetti prima ha scritto “noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo e per gli stranieri pazzia”

Un messaggio apparentemente folle e debole come può esserlo una croce e un messaggero altrettanto debole: Io sono stato presso di voi con debolezza, con timore e con gran tremore”, dice Paolo.

La forza non sta nel messaggero, ma nello Spirito di Dio che vuole mostrare la sua potenza attraverso la debolezza apparente del messaggio, dell’evangelo della croce, e la debolezza reale del messaggero: “la mia parola e la mia predicazione non consistettero in discorsi persuasivi di sapienza, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza”.

Quale dimostrazione di Spirito e di potenza avrà dato Paolo ai Corinzi? La prima dimostrazione di potenza che l’annuncio dell’evangelo ci dà è la nascita della fede, che non nasce dalla bravura o dalla forza del predicatore, dalla sua abilità a parlare, ma solo ed esclusivamente dall’azione dello Spirito.

Con debolezza, con timore e tremore Paolo è andato a predicare a Corinto, “affinché la vostra fede fosse fondata non sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”.

La potenza di Dio che si è rivelata nella croce, perché fin qui, fino alla croce di Gesù è arrivato l’amore di Dio per noi.

La potenza di Dio che non si impone, ma si mette nelle mani degli esseri umani. Che non costringe, ma vuole convincere e convertire. Che non domina, ma serve. Che non urla, ma annuncia, racconta, testimonia, che vuole passare attraverso la voce e la vita di donne e uomini deboli, che hanno timore e tremore a parlare di Dio, pieni di contraddizioni, pieni di dubbi e di domande.

Che però una cosa la sanno, una cosa sola: Gesù Cristo e lui crocifisso, la nostra colpa che Gesù ha preso su di sé e il nostro perdono che Dio, nella croce di Cristo, ha abbondantemente riversato su di noi per pura grazia.

Per andare nel mondo a testimoniare l’amore di Dio, per vivere nella fiducia, per operare nella speranza, per provare a costruire relazioni umane autentiche e relazioni sociali libere e giuste, ci basta sapere questa cosa sola: Gesù Cristo e lui crocifisso, per noi, per te, per l’umanità.

Questa cosa sola, che lo Spirito ci ricorda e ci ripete ogni volta che apriamo la sua Parola.

domenica 9 gennaio 2022

Predicazione di domenica 9 gennaio 2022 (Epifania) su Matteo 2,1-12 a cura di Daniel Attinger

“DOV’È IL RE DEI GIUDEI CHE È NATO ?”

Matteo 2,1-12

1 Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode. Dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: 2 «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo».

3 Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui. 4 Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere. 5 Essi gli dissero: «In Betlemme di Giudea; poiché così è stato scritto per mezzo del profeta:

6 "E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele"».

7 Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa; 8 e, mandandoli a Betlemme, disse loro: «Andate e chiedete informazioni precise sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, affinché anch'io vada ad adorarlo».

9 Essi dunque, udito il re, partirono; e la stella, che avevano vista in Oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra. 10 Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia. 11 Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra. 12 Poi, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per un'altra via.

Care sorelle e cari fratelli,

Oggi celebriamo la solennità dell’Epifania che in realtà cade il 6 gennaio, ma ciò che con­ta, in fin dei conti, non è la data della festa, che resta arbitraria e forse ha sostituito, nei primi secoli del cristia­nesimo, in Egitto, una festa pagana in relazione con la crescita delle acque del fiume Nilo o la nascita di qualche divinità, e a Roma una festa legata ai Saturnali, ma ciò che vi si celebra. Solo che, di nuovo, c’è ambiguità: in Oriente si celebra quel giorno il battesimo di Gesù da parte di Giovanni Battista e, tra i cristiani armeni, la nascita di Gesù; in Occidente invece è la “Festa dei re”, ma di quali re si tratta? Pensiamo evidentemente ai saggi venuti da Oriente, i cui nomi sono stati addirittura tramandati dalla tradizione. In realtà però né i loro nomi, né il loro numero, e nemmeno il titolo di “re” sono conosciuti dall’evangelo, che parla solo di “magi”, cioè di dignitari della religio­ne zoroastriana, la religione della Persia dell’epoca. Ricordiamo che la Persia non faceva parte dell’Impero Romano, motivo per cui era un po’ come la Kamchatka della mia infanzia, cioè più o meno una terra situata aldilà di ogni limite geografico.

Tuttavia, se ci atteniamo al testo, vediamo che vi si parla sì di re: ma essi non sono tre, bensì soltanto due.

Il primo è il “re Erode”, il signore della Giudea, al servizio di Augusto, imperatore di Roma: segno permanente che gli ebrei sono sotto dominazione, e dunque quasi schiavi, non già in Egitto o a Babilonia, come per il passato, ma sulla loro propria terra. L’altro re è quel “re dei giudei … appena nato” di cui parlano i magi: un neo­nato dalle origini oscure che si trova in qualche grotta della città di Betlemme, come riferisce la tradizione, che su questo punto, è credi­bile, perché in quel tempo, la maggior parte delle case di Betlemme erano formate da una stanza costruita davanti ad una grotta, la qua­le costituiva la gran parte della casa.

In questa festa, dunque, tramite questi messaggeri pagani che sono i magi, due re si af­frontano. Confronto perfettamente impari, poiché uno, Erode, ha tutti i poteri – ma poteri di­struttivi come di­mostrerà la sua decisione di procedere al massacro di tutti i bambi­ni di Bet­lemme sotto i due anni – mentre l’altro, Gesù, è solo uno neonato “adagiato in una mangia­toia”, come ci ricorda l’evangelo secondo Luca (Lc 2,12): un re in una mangiatoia, come fieno pronto ad essere divorato…, ma re rivestito della forza disarmante del sor­riso di un bambino.

Avvertiti dalla loro scienza astronomica – per non dire astro­logica – della nascita del re dei Giudei, i magi partono e giungono nei pressi di Gerusalemme. Ma, avendoli la loro scienza momenta­neamente traditi, essi confidano nella loro ragione: “Dal momento che si tratta del re dei Giudei, lo troveremo ovviamente nel palazzo reale!” Ma là, non si sa nulla, anzi peggio, la loro domanda suscita il panico e lo spavento; il potere reale è forse in pericolo? Il sinedrio, l’autorità religiosa di Gerusalemme, è immediatamente convocato.

Si fa quindi appello alla sapienza religiosa, quella degli esegeti, dei teologi e dei moralisti. Per loro non c’è dubbio: se è nato il re dei Giudei è necessariamente nato a Betlemme; lo dice la Bibbia, anche se non viene letta in modo del tutto corretto, giacché essa non dice:

E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto da meno tra le città egemoni di Giuda; da te infat­ti uscirà colui che conduce Israele, uno che pascerà il mio popolo,

come abbiamo sentito, bensì:

E tu, Betlemme, Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giu­da, da te uscirà per me colui che sarà governatore in Israele (Mi 5,1).

Da ciò si trae l’evidente conclusione che la sapienza umana ha bisogno della sapienza religiosa. Sarà magari anche vero, ma non è la conclusione dell’evangelista che, dopo aver par­lato di un accordo segreto tra i magi e il re, fa riapparire la stella, la quale, questa volta, condu­ce i magi fino al Luogo... A Betlemme si racconta addirittura che la stella, giunta sul posto, precipitò in un pozzo che esiste tutto­ra, e nel quale si dice che talvolta si può vedere, ancora oggi, il suo bagliore!

La sapienza umana, dunque, illuminata certo da quella religio­sa e dalle Scritture, ha mes­so i magi in movimenti e li ha condotti fi­no a Colui che li aveva cercati prima ancora che essi lo cercassero. I rappresentanti della saggezza religiosa invece, quelli che san­no, non si sono mos­si: né il re (che, spaventato, sta già meditando al­tri pro­getti mortiferi), né i saggi del sinedrio.

Che significa tutto ciò? Forse la negazione del valore della sag­gezza religiosa in favore di quella puramente umana che ha condot­to i magi (con l’aiuto momentaneo della saggezza reli­giosa) all’ado­razione del re dei Giudei? Non credo. Matteo inizia qui piuttosto un programma che attraverserà tutto il suo evangelo. Si tratta di un forte ammonimento per tutti i detentori della saggezza religiosa (non solo quelli di ieri, ma anche quelli di oggi a cominciare da me che pretendo di commentare la Scrittura).

Nell’evangelo di oggi, dotti esegeti e commentatori delle Scrit­ture sanno, ma non si muo­vono. Al capitolo 4, nell’episodio delle tentazioni di Cristo, si vedrà persino il diavolo impos­sessarsi delle Scritture per avviare una disputa esegetica con Gesù, ma appunto per tentarlo e incitarlo ad andare contro la volontà di Dio. Più avanti sentiremo Gesù rallegrarsi del fatto che il Padre ha “nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, per rivelarle solo ai piccoli, pri­vi di parola” (Mt 11,25). Più avanti ancora, al capitolo 23, Gesù pro­nuncerà un lamento fune­bre sugli scribi e i farisei che dicono ma non fanno: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti che chiudete il regno dei cieli in faccia agli uomini …” E questi diventeranno, alla fine dell’evange­lo, quelli che accuseranno e condanneranno il re dei Giudei (Mt 26,66), adempiendo così esat­tamente il programma ideato da Erode all’inizio dell’evangelo.

Perché questa forte critica alla saggezza religiosa?

Perché, più di ogni altra, è minacciata dalla doppiezza e dall’i­pocrisia: può certamente annunciare la verità di Dio; anche Gesù lo riconosce quando dichiara: “Fate e osservate con impegno tutte le cose che vi dicono, ma non fate secondo le loro opere …” (Mt 23,3), ma que­sta saggezza può anche, con le sue stesse riflessioni, condan­nare a morte una volta ancora il re dei Giudei.

È forse la condanna della saggezza religiosa? No! Infatti Mat­teo sembra annoverarsi lui stesso tra questi scribi, quando scrive, alla fine del grande discorso in parabole che Gesù pronuncia sul regno dei cieli: “Ogni scriba che diventa discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa: egli tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie” (Mt 13,52). Molti studiosi dicono infatti che troviamo là come la firma dell’evangelista!

Allora questa critica della saggezza religiosa costituisce piutto­sto un serio avvertimento che intende invitarci a comportarci non come quei membri del sinedrio, ma come i magi: giunti là dove si trovava il neonato, non furono delusi dalla sua fragilità e dalla sua povertà, ma lo adorarono o “si prostrarono davanti a lui”, come scri­ve Matteo. E poi, “aperti i loro teso­ri, gli offrirono doni: oro, incenso e mirra” (v. 11). Al di là del significato simbolico verosimile di que­sti doni (l’oro rappresentando il potere regale, l’incenso il ruolo sa­cerdotale e la mirra, presagio della sepoltura di Gesù), ciò che conta è che i magi offrono al bambino “i loro tesori”. Anche noi abbiamo dei tesori che possiamo offrire al Signore. Matteo ci ricorda qual è il tesoro di ogni essere umano: “Dov’è il tuo tesoro, dice Gesù, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21).

A ciò deve condurre ogni sapienza, e in particolare quella reli­giosa, se non vuole essere ipocrita o arrogante: al dono del proprio tesoro, cioè al dono di sé a Cristo che, allora, diventa la nostra stessa vita e ci rende testimoni veraci e autentici del suo amore e della sua “potenza”.

Questo è anche l’augurio che esprimo per ciascuno di noi all’i­nizio di questo nuovo anno: che sappiamo donarci interamente al Signore, per poter dire con l’apostolo: “Io vivo sì, ma non più io, è invece il Cristo che vive in me” (Gal 2,20), perché come dice ancora: “Per me vivere è Cristo!” (Fil 1,21).

lunedì 3 gennaio 2022

Predicazione di domenica 2 gennaio 2022 su 1 Giovanni 1,1-4 a cura di Marco Gisola

 1 Giovanni 1,1-4

1 Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita 2 (poiché la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata), 3 quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. 4 Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia completa.



1. La parola della vita è stata vista, udita, persino toccata. Perché la parola della vita si è incarnata nella persona di Gesù di Nazaret. La parola della vita - cioè la Parola di Dio - ha preso su di sé la nostra umanità, ha preso corpo e ha camminato per le strade della Galilea e della Giudea venti secoli fa, ha insegnato, ha portato guarigione e perdono a donne e uomini feriti nel corpo, nella mente e nell’animo.

L’autore della prima lettera di Giovanni vuole riaffermare con forza che nella persona di Gesù è Dio stesso che è venuto nel mondo, per questo insiste sul fatto che la parola della vita – cioè la parola di Dio incarnata nella persona di Gesù – è stata vista, udita e toccata. Toccata come si può toccare qualunque corpo umano. Qui Giovanni non usa la parola “incarnazione”; questo termine è stato creato dopo, a partire dalle parole dell’evangelista Giovanni, che ha scritto che “la parola è diventata carne ed ha abitato per un tempo fra di noi”.

Il nostro testo non usa la parola “incarnazione”, ma ciò di cui parla è quello, ed è l’evento fondante della fede cristiana. L’inizio della sua lettera vuole infatti affermare subito l’incarnazione della parola della vita e rispondere alla domanda: chi è Gesù?

In questi ultimi decenni si è visto un rinnovato interesse per Gesù; molti si interessano a lui come ad un maestro che ha insegnato delle cose importanti, ed è un interessamento di cui ci si può rallegrare, ma la fede cristiana è più di questo, la fede è riconoscere che in Gesù si incontra Dio stesso. Se in Gesù riconosco solo il maestro, solo il profeta, solo un esempio per la mia vita, solo una guida spirituale, solo un guaritore, tutto ciò è positivo, ma queste cose non sono il centro, e non sono tutto. Queste sono le conseguenze del fatto che Gesù è il figlio di Dio. Gesù è anche un maestro, anche un profeta, anche un esempio, ma è tutto ciò perché e nella misura in cui è il figlio di Dio.

La fede sorge quando in Gesù si incontra non solo il maestro e il profeta, ma Dio stesso, quando si riconosce in lui la “parola della vita”. Questo vuole riaffermare l’autore della prima lettera di Giovanni, che scrive la sua lettera alla seconda o terza generazione di cristiani. Scrive cioè a persone che – come noi oggi – non avevano incontrato Gesù in carne ed ossa, perché egli scrive diversi anni dopo la morte e resurrezione di Gesù. Chi scrive la lettera lo aveva incontrato, chi legge la lettera no.

Giovanni infatti ci tiene a sottolineare che lui lo ha incontrato; per questo afferma chiaramente che lo ha udito, visto, contemplato, e persino toccato con le sue mani. Vuole eliminare ogni dubbio in chi legge la sua lettera: la carne di Gesù era proprio vera, non era un fantasma, non era uno spirito. Si poteva toccare come si può toccare ogni essere umano. Lui lo ha incontrato, i discepoli lo hanno incontrato, molta gente in quel poco tempo in cui Gesù ha predicato e guarito pubblicamente lo ha visto, udito e persino toccato. Ma questo, per forza di cose, è rimasto un privilegio di pochi, un privilegio di quella generazione. Proprio perché Gesù è il figlio di Dio incarnato ed è venuto nel mondo come essere umano, è venuto nel tempo, in un tempo ben preciso e delimitato. 

 

2. Ed ora? Il messaggio di Gesù, dopo la sua morte e resurrezione, è destinato ad esaurirsi? O qualcuno deve sostituirlo? E come si fa a sostituire il figlio di Dio? Nessuno lo può sostituire! La risposta che gli apostoli, ovvero coloro che hanno visto Gesù, avrebbero potuto dare è questa: noi sostituiamo Gesù, così come ad un maestro succedono i suoi discepoli. Ma Gesù non è sostituibile, proprio perché non era soltanto un maestro; un maestro può essere sostituito, un discepolo può diventare maestro, ma Gesù è il figlio di Dio e un discepolo del figlio di Dio non può sostituirlo. La sua venuta nel mondo è stata un evento unico e Gesù è insostituibile.

La risposta che sta dietro alle parole dell’autore di questa lettera è che solo l’annuncio della parola della vita può sostituire la parola della vita stessa. Solo l’annuncio di Gesù può sostituire Gesù. Potremmo dire: solo il Gesù annunciato può sostituire il Gesù udito, visto e toccato.

Dunque è l’annuncio, la predicazione, la testimonianza, il racconto di ciò che Gesù è stato, ha detto e ha fatto che lo rende presente, se lo Spirito di Dio ce lo rende presente, “dove e quando Dio vuole”, come dice una confessione di fede della Riforma. L’annuncio, la predicazione dell’evangelo, è anche il senso principale dell’esistenza della chiesa, che è la comunità di coloro che hanno ricevuto l’annuncio e sono chiamati a ri-annunciarlo.

 

3. Torniamo all’espressione “parola della vita” con cui viene definito Gesù, una bellissima definizione. Parola della vita perché è risorto dai morti e quindi ha sconfitto la morte. Ma parola della vita anche perché Gesù ha fatto rivivere molte persone che non erano morte biologicamente, ma erano morte o moribonde spiritualmente, socialmente. Ha dato nuova vita a chi era malato o disabile e quindi anche emarginato. Ha dato nuova vita a persone attraverso il perdono di Dio.

La parola della vita che siamo chiamati ad annunciare si oppone a ogni cosa e ad ogni forza che porta morte e ad ogni cosa che rende la vita meno vita, cioè meno dignitosa, meno libera, meno giusta. E questa è dunque la nostra vocazione. Annunciare la parola della vita e operare contro ciò che porta morte e operare invece a favore di ciò che porta vita e le restituisce dignità, giustizia, libertà.

Ci sono due parole nel nostro testo per definire qual è l’obiettivo dell’annuncio della parola: comunione e gioia: “quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo pure a voi, perché siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo”. Il primo scopo dell’annuncio è la comunione, è l’essere in comunione con Cristo e quindi in comunione con tutti coloro che ascoltano la stessa parola della vita e che credono che in Gesù di Nazaret si incontra Dio stesso. Nella sua grazia Dio ci rende suoi figli, lo abbiamo detto a Natale, ci fa diventare suoi, gli apparteniamo e di conseguenza apparteniamo gli uni agli altri. Siamo in comunione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e quindi siamo in comunione tra noi.

E poi la gioia: “vi scriviamo queste cose perché la nostra gioia sia completa”; ma vi sono altre versioni antiche di questa lettera che dicono “perché la vostra gioia sia completa”. Certo c’è gioia in chi porta il messaggio e c’è gioia in chi lo riceve, ma se fosse questa seconda versione quella corretta, il significato sarebbe che chi porta questo messaggio, lo fa per creare gioia in chi lo ascolta. L’evangelo è un messaggio di gioia, proprio come il Natale appena trascorso è una festa di gioia, perché abbiamo ricordato il dono che Dio ci ha fatto, mandando per noi il suo unico figlio nel mondo e chi riceve questo annuncio ha motivo di gioire. Una nuova vita, fatta di comunione e di gioia: questo è l’evangelo di Gesù Cristo, “parola della vita”. Ci dia il Signore di riconoscere e fare nostra questa parola della vita, e ci dia il coraggio di annunciarla contro tutte le parole della morte che ci sono intorno a noi.

Contro le parole della morte e a favore di una vita libera e dignitosa per ogni essere umano, il Signore ci vuole annunciatori della parola della vita, che Gesù il nostro Signore e salvatore, che è capace di creare di comunione e di donare gioia a chi l’ascolta e la vive.