lunedì 31 marzo 2008

La chiesa romana contro i piccoli

Con un recente motu proprio, Benedetto XVI ha dato precise disposizioni proibendo l’uso del “vernacolo” nella liturgia, e cioé la traduzione dell’Evangelo e dei Salmi, e nelle omelie; in altre parole, non sono ammesse lingue che non siano riconosciute e appunto i dialetti non lo sono. Ma come distinguere una “lingua” da un “dialetto”? Non esiste un criterio scientifico valido per tracciarne la differenza.
Ad esempio, il Basco, riconosciuto ora dallo Stato spagnolo come lingua a tutti gli effetti, durante il regime fascista di Franco era un dialetto vilipeso, ed i Vescovi ne avevano proibito l’uso liturgico nelle diocesi dove lo si parla. Il Corso è l’idioma regionale, con il Toscano, più simile all’Italiano: ma la Repubblica francese gli ha aperto le scuole, e così la Chiesa romana consente che si celebri la Messa in quella “lingua”. È chiaro, pertanto, che la differenza è soltanto “politica”. A Monaco si parla un dialetto ligure, ma colà la Messa è consentita nell’idioma locale perché gradito ai prìncipi Grimaldi; invece a Genova l’uso liturgico di quello stesso ligure è proibito. Mentre la Bibbia testimonia che Dio “dà ascolto al piccolo come al grande” (Deut. 1:17), ed ammonisce dal “disprezzare alcuni di questi piccoli” (Matteo 18:10) perché “il Padre che è in cielo vuole che nessuno dei piccoli vada perduto” (idem, 14)”, là dove il potere politico chiude alle lingue regionali le porte delle scuole e delle pubbliche amministrazioni, pure la Chiesa romana chiude le porte delle sue chiese infierendo, come Maramaldo, sulle piccole lingue morenti. Sembra incredibile che non si comprenda come il Padre celeste, che ha voluto nella creazione varietà di colori, di paesaggi, di creature viventi (vegetali, animali e gli uomini “altri animali”) non dovrebbe gradire la molteplicità dei linguaggi che tutti si fondono in vivente armonia, così come nel bosco non risuona soltanto il canto dell’usignolo. Le prime preghiere rivolte a Gesù, erano quelle dei pastori di Betlemme, che certo non parlavano una lingua illustre, ma una forma molto rustica di aramaico; del resto non mi risulta che oggi l’Aramaico sia “lingua” riconosciuta da alcun Stato. E allora pure il “dialetto” con il quale Gesù ha portato la “buona novella” sarebbe vietato da chi pretende di esserne il vicario in terra? Quelli che sono chiamati “dialetti” in Italia, non sono forme corrotte della lingua nazionale, ma idiomi neolatini, proprio come quelli illustri (italiano, francese, castigliano, portoghese, romeno...) entrate a Palazzo come le sorelle spocchiose della favola popolare, che hanno relegato la disprezzata Cenerentola al pascolo ed al focolare: tale e quale alla lingua povera e negletta, appunto, che la Chiesa romana, al contrario della buona fata, non trasforma in regina ma condanna al ruolo servile. Eppure questi idiomi svalutati possiedono dizionari, grammatiche, valide letterature, traduzioni della Bibbia, non hanno eserciti, sono prive di potere e quindi la Chiesa romana, che del potere è sempre stata avida, ed è in simbiosi con il Palazzo, li discrimina e impedisce che il popolo parli al Padre con la lingua della famiglia, del lavoro, dell’amicizia.
Comprendiamo, certo, che le traduzioni debbano essere consone e corrette, non imposte ma liberamente scelte dall’assemblea dei fedeli. Ma l’essenziale è che si onori la Legge di Gesù, che non è la “proibizione”, ma l’Amore. E allora ricordiamo le sue parole: “Non esiste buon albero che porti cattivi frutti. Ogni albero si riconosce dai suoi frutti” (Matteo, 12:33; Luca 6:43). Far trovare la porta di legno a chi vuol pregare nella propria lingua, specie se piccola e povera, non ci sembra sia un buon frutto.
Tavo Burat

giovedì 27 marzo 2008

1968 - 2008

Iniziative per il 40° anniversario della morte di Martin Luther King




Il libro che affiora

Suggestioni dal cinema di Ingmar Bergman


martedì 25 marzo 2008

Intervista alla moderatora Maria Bonafede

Tratta i temi della legge 194, dell'immigrazione e altro.

http://it.youtube.com/watch?v=hBWX_lLuZfc

Etty Hillesum

«Se noi salveremo solo i nostri corpi dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva.»

Etty Hillesum


Video tratto dal programma di Rai Educational "Cult Book"

giovedì 20 marzo 2008

Benedetto Lutero


Benedetto Lutero di Daniele Garrone,
decano della Facoltà valdese di teologia di Roma

Nei giorni scorsi si è tornato a parlare di Lutero su alcuni quotidiani italiani. L’occasione è stata la notizia che, nel prossimo dei consueti incontri che ha con i suoi ex-allievi, il Papa intenderebbe occuparsi del pensiero del riformatore tedesco. Dall’incontro ci sarebbe da attendersi una rivalutazione degli elementi "cattolici" nel pensiero di Lutero. Il Financial Times bollava la presunta iniziativa con toni sarcastici: una cosmesi sull’immagine di Lutero non cambierebbe il dogmatismo di Benedetto XVI e non accrediterebbe una liberalizzazione della chiesa di Roma. Il portavoce di Roma precisava infine che nessuna riabilitazione di Lutero è in vista e che il tema del prossimo incontro di papa Ratzinger con i suoi allievi non è ancora fissato.
Staremo a vedere se e che cosa dirà il Papa di Lutero. Se la questione di fondo sarà, come si esprime Giacomo Galeazzi su La Stampa, stabilire se Lutero "voleva creare una frattura o, invece, intendeva sì riformare, ma senza traumi, la storia millenaria della Chiesa", e se la risposta accoglierà la seconda ipotesi, vorrà dire che anche Roma riconosce ora, quasi 500 anni dopo, ciò che da decenni è accertato sul piano della storiografia e del dialogo ecumenico. Lutero intese sostanzialmente ripristinare su basi bibliche la cattolicità della chiesa, cioè la sua universalità in Cristo, che riteneva compromessa dalla tradizione della chiesa romana. Egli era convinto che la chiesa una, santa, cattolica e apostolica esiste in Cristo, dalla sua venuta fino al suo ritorno, e si manifesta là dove la comunità cristiana vive nella fede, è santificata dallo Spirito, ed amministra rettamente i sacramenti. Per questa sua interpretazione della cattolicità, universale e non "romana", che deriva direttamente dal Credo niceno, fu scomunicato e messo al bando. Sarà interessante vedere come si parlerà di Lutero – se lo si farà – , in questi tempi in cui sempre più la chiesa di Roma si erge a criterio e misura della cattolicità, che ritiene di detenere compiutamente.
La comparsa passeggera di Lutero sulla stampa solleva però immediatamente un altro problema, tipico del nostro paese e della nostra cultura, che non esiterei a definire "questione protestante". L’apporto che il protestantesimo, da Lutero in avanti, ha dato alla coscienza cristiana e alla società moderna, è in Italia semplicemente ignorato, strutturalmente rimosso. Si sa bene o male che c’è una minoranza protestante anche in Italia. Ma, se posso dirlo con una battuta, non si sa che cosa ci si è perso, come italiani, negli ultimi 500 anni. Non si sa che è emersa una postura cristiana che ha contribuito a forgiare la modernità, quella di chi sostiene che nella chiesa non esiste clero ma tutti sono ugualmente laici e sacerdoti, soggetti liberi e responsabili, con la schiena dritta e la testa alta davanti ad ogni pretesa di assolutezza e di obbedienza, soggetti solo alla Parola di Dio che li chiama e li giudica. Una postura che, avendo declericalizzato la chiesa, ha desacralizzato la politica, contribuendo ad aprirla al pluralismo delle convinzioni e alla negoziazione delle decisioni. L’emergere di questa postura ha segnato la storia di gran parte dell’Europa, del Regno Unito e degli Stati Uniti. Ma in Italia si può ancora ragionare come se tutto questo non ci fosse stato e, dai talk-show televisivi ai convegni sulla laicità, si può rappresentare un pluralismo variegato ma sempre rigorosamente senza confronto con le ragioni del protestantesimo. Che compare invece quando c’è qualcosa che suona come scoop. Non di scoop l’Italia ha bisogno, ma di recuperare dimensioni della storia moderna che le sono mancate, e che, tuttavia, potrebbero ancora farle un gran bene.

Tratto da NEV - Notizie evangeliche del 12 marzo 2008

mercoledì 19 marzo 2008

cultoradio

per ascoltare le ultime trasmissioni su Rai Radio1

http://www.radio.rai.it/radio1/cultoevangelico/index.cfm

Protestantesimo


Il 23 marzo alle ore 23.45 circa su Rai 2 - Rubrica televisiva
PROTESTANTESIMO a cura della Federazione delle chiese evangeliche in Italia

In questo numero: "La storia di Anna", un racconto di Pasqua, il racconto della vita.

La replica sarà trasmessa lunedì 24 marzo sempre su RAIDUE alle ore 01.00 circa

lunedì 17 marzo 2008

Teologia politica


La questione protestante



La questione protestante
di Paolo Naso

Tratto da NEV - Notizie evangeliche del 27 febbraio 2008

Il tema della laicità dello Stato è prepotentemente entrato nel dibattito politico e tutto fa presagire che proseguirà anche dopo le elezioni di aprile. Mai come in questi mesi, infatti, la Conferenza episcopale italiana (CEI) ha agito come una vera e propria lobby politica, promuovendo e bocciando liste e candidati: benissimo Casini e la sua UDC; benino il Pdl ma deve impegnarsi di più per proporre candidati moralmente autorevoli e promuovere un’agenda più vicina alla dottrina sociale della chiesa cattolica; malissimo il Pd colpevole di avere raggiunto un accordo con i temibili radicali e di avere imbarcato il prof. Veronesi; bene Ferrara ma alla larga dalla sua lista corsara, salvo riparlarne dopo le elezioni e avendo contato i voti. E così via.


Oltre che sulle liste la CEI interviene anche sui programmi elettorali, insistendo con una campagna a martello sui temi della bioetica, dell’aborto, della pillola "del giorno dopo", dell’eutanasia, del testamento biologico.
E così, più per reazione che per intenzione, partiti e candidati parlano spesso di laicità. Molto più spesso di quanto non sia accaduto nei mesi scorsi. Bene, il variegato mondo protestante italiano non potrebbe che apprezzare il fatto che uno dei grandi fili rossi della migliore cultura liberale europea diventi tema di campagna elettorale.
Il tema della laicità è infatti nel DNA di una comunità protestante che ha sempre posto al centro della propria testimonianza l’idea che la fede è una libera scelta del credente, che non ammette interferenze e condizionamenti da parte dello Stato. La separazione tra la Chiesa e lo Stato, quindi, serve proprio a tutelare la libertà della scelta religiosa, il libero esercizio del culto, la libera professione del proprio credo. Al tempo stesso garantisce la possibilità della convivenza in società plurali nelle quali hanno gli stessi diritti coloro che credono, coloro che non credono e coloro che credono diversamente dalla maggioranza.
Tutto questo il protestantesimo italiano lo ha detto e vissuto negli anni delle persecuzioni religiose; in quelli dell’Italia liberale e del fascismo concordatario; del centrismo democristiano e dei referendum sul divorzio e l’aborto; lo ha ribadito negli anni della revisione del Concordato (1984) e della stipula delle prime Intese ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, così come - in tempi più recenti - quando l’Italia si è scoperta al tempo stesso più secolarizzata e pluralista.

Ogni volta che la Chiesa cattolica interferiva nelle decisioni politiche di una democrazia sovrana - pensiamo alle campagne referendarie, non ultima quella sulla fecondazione medicalmente assistita - il protestantesimo italiano ha suonato le campane della laicità. Al capezzale di Piergiorgio Welby come nelle manifestazioni per il riconoscimento delle coppie di fatto, nella difesa della 194 come nel sostegno alla ricerca scientifica sulle cellule embrionali.
Ebbene, nel dibattito sulla laicità di questi giorni di tutto questo non vi è alcuna traccia.
Nel vivace confronto elettorale di questi giorni si parla di laicità con i cattolici di Scienza e Vita e con i musulmani, con gli ebrei e con gli atei devoti, con i teodem e con i teocon, con le femministe e con i movimenti omosessuali. Ma non con i protestanti che restano fuori, in una sorta di conventio ad excludendum.
Perché? La risposta più ovvia è che non si fanno sentire, non sono abbastanza forti da levare la loro voce e da costruire efficaci lobby.
Pur riconoscendo qualche fondamento a questa motivazione - che però rimanderebbe a un’amara riflessione sul pluralismo informativo e la libertà di espressione nel nostro paese - essa non ci pare né sufficiente né adeguata a spiegare una così grave omissione culturale.
Chi in Italia si richiama a Lutero e Calvino, viene di fatto ignorato dal dibattito pubblico sulla laicità perché nel nostro paese esiste una "questione protestante", un nodo storico e culturale che si trascina da secoli. Come la "questione meridionale" o quella "cattolica". È il prodotto di una cultura tipica della Controriforma, trionfante in Italia, che ha negato la possibilità di pensare e vivere la fede cristiana fuori dal recinto dogmatico della tradizione cattolica. In questa prospettiva il protestantesimo non viene criticato, viene semplicemente ignorato e quindi nei fatti negato come interlocutore; al contrario il cattolicesimo viene elevato al rango di universalità cristiana, in grado di rappresentare l’intera comunità dei credenti in Gesù Cristo.

La "questione protestante" è quindi il frutto di un intreccio di arroganza confessionalistica, di ignoranza storica e teologica, di pregiudizio culturale e politico.
E questo spiega perché i protestanti restano fuori dai talk show televisivi e dai grandi dibattiti culturali di questi giorni: il loro problema sembra essere che, pur essendo cristiani come la maggioranza degli italiani, sono però portatori di un punto di vista teologicamente altro e distinto da quello cattolico. Al tempo stesso vicini nella fede in Cristo ma anche così irrimediabilmente distanti dalla tradizione cattolica, dalle adunate in San Pietro e dai devozionalismi di fronte alle statue dei santi. Cristiani ma laici, laici ma credenti. Nulla di strano in Francia, in Germania, in Olanda. Un’identità ovvia e perfettamente visibile negli Stati Uniti. Difficile da pensare in Italia. E così, nonostante tante parole sull’Europa, si finisce per ignorare quell’intreccio tra laicità e protestantesimo che ha costituito un tratto fondamentale della modernizzazione del continente. Eppure, ignorando il confronto con quella tradizione culturale e teologica, ogni discorso sulla laicità ha il fiato molto, molto corto.

venerdì 14 marzo 2008

Goffredo Varaglia


29 marzo 1558
29 marzo 2008



Goffredo Varaglia dalle prigioni del Parlamento di Torino

“Non ho mai saputo cosa significhi credere come si deve, né cosa sia veramente il vangelo, né la grazia di Gesù Cristo, né la forza dello Spirito Santo, salvo che da due mesi in qua. Perché non avrei mai pensato che essere testimone della verità di Dio e difensore della sua causa sarebbe toccato a un simile verme di terra come me; né avrei mai pensato che il Signore delle vittorie avrebbe posto in un vaso di terra tanto grazia, bontà e misericordia. Ogni volta che sono stato davanti ai miei carnefici, mi pareva di essere loro giudice e che toccasse a loro aver paura di me, e a me essere testimone della salvezza… In questi conflitti ho capito che la fede non s’impara senza tribolazioni, siccome non si può trovare un Gesù Cristo nazareno senza croce. Chiedo dunque a tutti i fedeli, per l’amore di Dio e del suo Figlio Gesù Cristo, che preghino per l’accrescimento del suo vangelo. E siccome ha cominciato un’opera in me, non per alcun merito mio, anzi serrando i suoi occhi ai miei infiniti demeriti, si degni per la sua clemenza di portarla a compimento, fino all’ultimo sospiro della mia vita e goccia del mio sangue. Perché ribellarsi ad un Principe così grande e prezioso, o nascondere anche una sola sillaba della sua verità per paura della prigione o della morte, sarebbe il maggior sacrilegio, villania e torto che mai si possa fare al mondo. Continuiamo tutti a pregare per chi ci perseguita, anche se fino alla morte, e per chi ci aiuta con le preghiere a stare costanti.
12 gennaio 1558”