lunedì 1 agosto 2016

Predicazione di domenica 31 luglio 2016 su Romani 9,1-8.14-16 a cura di Marco Gisola

Romani 9,1-8.14-16

Romani 9,1-5
Dico la verità in Cristo, non mento - poiché la mia coscienza me lo con­ferma per mezzo dello Spirito Santo - ho una grande tristezza e una sofferenza conti­nua nel mio cuore; perché io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne, cioè gli Israeliti, ai quali ap­partengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promes­se; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!

Nei capitoli 9, 10 e 11 della lettera ai Romani, Paolo affronta un tema molto delicato: il rapporto con il popolo di Israele. Ma non il rapporto tra cristiani ed ebrei, bensì il rapporto tra Dio e gli ebrei.
Paolo affronta questo argomento dicendo ben due volte che dice la verità. Segno che forse ha ti­more di non essere creduto? Paolo parla della sua tristezza e della sofferenza “conti­nua” che ha nel cuore pensando al suo popolo, al popolo ebraico, che chiama “i miei fratelli”.
Paolo non si sente un “ex”, non si sente uscito dal popolo ebraico, ma si sente un ebreo che ha creduto nel messia da tempo promesso ad Israele. La sua sofferenza è do­vuta al fatto che non tutti gli ebrei hanno creduto nel messia Gesù di Nazaret, e il suo affetto è dovuto al fatto che agli Israeliti “appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo”.
Paolo sa bene che Dio si è rivelato a Israele attraverso tutte queste cose, sa che le pro­messe di Dio, del Padre di Gesù, hanno accompagnato la vita e la fede di Israele e che tutto questo non si può cancellare.
Le promesse sono state compiute in Cristo e Cristo stesso “secondo la carne”, è ebreo. Il messia di Israele non poteva che venire da Israele. Da Israele per Israele e non solo per Israele ma per tutta l'umanità.
Più avanti, al cap. 11, Paolo dirà che “i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili” (11,29), un’affermazione che era stata dimenticata dai cristiani e che è stata rivalutata nel rappor­to e nel dialogo tra cristiani ed ebrei dopo la tragedia della Shoah, lo sterminio tentato dai nazisti (cristiani) contro gli ebrei.
Nei secoli c’è stato odio dei cristiani nei confronti degli ebrei, troppo odio, di cui la Shoah è stata solo il drammatico epilogo, anzi non l’epilogo, perché l'antisemitismo è ancora molto presente.
Sarebbe stato più saggio fermarsi da un lato alla tristezza di Paolo, tristezza comprensibile perché molti ebrei non hanno creduto in Cristo, e dall’altro all’affetto di Paolo nei confronti degli ebrei; se ci fossimo fermati a questo, molte tragedie non sarebbe successe.
Paolo arriva a dire che vorrebbe piuttosto essere lui stesso separato da Cristo per amore dei suoi fratelli! Invece a questo affetto pian piano nel cristianesimo si è sostituito l’odio verso Israele e la discriminazione degli ebrei, perché si è imposto il pensiero che la chiesa avesse semplicemente sostituito Israele nell’amore di Dio.
Ecco quindi il primo pensiero: quando pensiamo a Israele (come popolo, non come Sta­to, che è un'altra cosa), ricordiamoci dell’affetto che Paolo provava per i suoi fratelli, e accanto alla tristezza o al dispiacere perché non hanno creduto in Cristo, proviamo an­che – duemila anni dopo Paolo – a manifestare riconoscenza al popolo a cui Gesù apparteneva per tutto ciò che esso ci ha dato e ci dona ancora nella riflessione sull’AT.
 
Romani 9:6-8
6 Però non è che la parola di Dio sia caduta a terra; infatti non tutti i discendenti d'Israele sono Israele; 7 né per il fatto di essere stirpe d'Abraamo, sono tutti figli d'Abraamo; anzi: «È in Isacco che ti sarà riconosciuta una discendenza». 8 Cioè, non i figli della carne sono figli di Dio; ma i figli della promessa sono considerati come discendenza. 
 
Dopo questa premessa, Paolo affronta poi il tema da un punto di vista teologico e entra in quel terreno su cui bisogna muoversi molto delicatamente, che è quello della elezio­ne da parte di Dio.
Israele è il popolo eletto, lo abbiamo ascoltato in Esodo 19, ma non basta essere di­scendenti di Abramo per essere eletti – dice Paolo - perché non è il sangue, o la discen­denza a garantire l’elezione, ma è la promessa.
Questo Paolo lo dice per Israele, ma vale esattamente anche per noi cristiani. Al san­gue e alla discendenza si è sostituita nel cristianesimo l’idea di appartenenza, ma il ri­sultato è stato spesso lo stesso: appartenere alla chiesa come appartenere al popolo di Israele è stato ritenuto sufficiente a garantire la salvezza.
Ma Paolo dice che per Israele – e dunque anche per i cristiani – non è l'appartenenza che fa la salvezza, ma è la promessa di Dio.
Non siamo salvati perché apparteniamo a una chiesa cristiana o perché siamo battezzati, siamo salvati perché Dio lo ha promes­so e mantiene le sue promesse.
Siamo salvati perché Dio ci rivolge ogni giorno la sua Parola che è la sua promessa, compiuta nel dono che Cristo ha fatto di sé. Perché ogni giorno ci chiama dal peccato alla grazia, dall’odio o dall’invidia alla riconciliazione, dalla schiavitù alla libertà.
Dio chiama, e chiamando promette: promette che più forte del nostro peccato è la sua grazia, promette che più forte del nostro odio e della nostra invidia è la sua riconcilia­zione, promette che più forte della nostra schiavitù è la libertà che egli ci dona.
Ascoltare questa Parola e ricevere la promessa che la Parola ci annuncia è la prima cosa che dobbiamo fare, anzi: che possiamo fare, è il primo dono della grazia. Da questo ascoltare e da questo rice­vere nasce il nostro credere, la nostra fede.
Nessuna appartenenza, nessun gruppo, nessuna chiesa possono fare quello che fa la Pa­rola ascoltata, accolta e creduta.
non i figli della carne sono figli di Dio; ma i figli della promessa sono considerati come discendenza”. Siamo figli di una promessa, il nostro essere figli non dipende da una qualche realtà o qualità umana, ma dalla decisione di Dio.
Anche perché guardando alla nostra realtà umana che cosa vediamo? Vediamo colpa, laddove Dio promette perdono; vediamo odio e invidia laddove Dio promette riconcilia­zione; vediamo schiavitù, laddove Dio promette libertà. Ma il nostro perdono, la nostra riconciliazione e la nostra libertà stanno solo nella promessa di Dio e sono veri, reali e possibili solo perché Dio li promette.

Romani 9,14-16
14 Che diremo dunque? Vi è forse ingiustizia in Dio? No di certo! 15 Poiché egli dice a Mosè: «Io avrò misericordia di chi avrò misericordia e avrò compassione di chi avrò compassione». 16 Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia.

Ed ecco poi un terzo punto: Paolo è chiaro: tutto dipende dalla decisione di Dio: “Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia”. Que­sto vuol dire che Dio è arbitrario? c’è quindi ingiustizia in Dio?
Noi in genere quando affrontiamo il tema delle elezione – o della predestinazione – fo­calizziamo la nostra attenzione sui chiamati. E le domande che ci poniamo sono: chi è eletto? Quanti sono i predestinati? Chi e quanti sono i non eletti?
E perché gli uni sì e gli altri no? Noi vogliamo sapere chi è dentro e chi è fuori, chi è di qua e chi è di là. Domande che non hanno risposta, che vorrebbero costringere Dio in una logica umana.
Paolo invece focalizza la sua attenzione su chi elegge, su Dio, che agisce liberamente e sovranamente, chiamando chi meno ci aspetteremmo. E proprio la dottrina dell’elezio­ne infrange tutte le barriere, abolisce tutte le distinzioni tra dentro e fuori.
L’idea dell’elezione non vuole creare una barriera tra una certa quantità di eletti e una certa quantità di non eletti, ma anzi vuole abolire le barriere: la decisione di Dio in Cristo abolisce la barriera tra ebrei e pagani, come abolisce ogni barriera umana, re­ligiosa o non.
L’idea dell’elezione è quella che elimina ogni garanzia umana di salvezza e sposta tut­to sull’azione di Dio. E quindi manda in crisi chiunque si ritenga possessore esclusivo della verità e della misericordia di Dio. Dio ha eletto Israele, è vero, ma non è vincola­to solo a Israele.
E la stessa cosa vale per i cristiani: Dio non è vincolato ai cristiani, tanto meno ai cristiani di una o dell’altra chiesa, Dio è libero di chiamare chi e come vuo­le.
«Io avrò misericordia di chi avrò misericordia e avrò compassione di chi avrò compas­sione» dice Dio a Mosè (Esodo 33,19). la libertà di Dio è totale; ad alcuni questa idea fa paura, come se la libertà di Dio fosse un capriccio; ma è la nostra libertà che a volte diventa capricciosa, non quella di Dio. La libertà di Dio è grazia, e per questo – è il caso di dire “grazie a Dio” - è lui a decidere della salvezza e non noi.
L’idea dell’elezione non mira a dividere l’umanità in due parti, ma vuole semplice-mente sottolineare che l’iniziativa è di Dio, solo ed esclusivamente di Dio. Questo esclude che qualcuno possa dire chi e quanti sono gli eletti e chi e quan­ti sono i non eletti.
Credere nel Dio che elegge e che salva nella sua libera grazia, significa smettere di porsi queste domande e quindi smettere di fare conti e alzare barriere.
Significa anzi lasciare cadere ogni preoccupazione e vivere semplicemente nella fidu­cia nella promessa di Dio, sapendo che la sua libertà coincide con la sua misericordia.
Questo ci è sufficiente per credere, per essergli grati e per cercare di essere testimoni del suo amore.