martedì 26 giugno 2018

Predicazione di domenica 24 giugno 2018 su 1 Pietro 3,8-15 a cura di Marco Gisola

1 Pietro 3,8-15

Infine, siate tutti concordi, compassionevoli, pieni di amore fraterno, misericordiosi e umili; non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione.Infatti: «Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le sue labbra dal dire il falso;fugga il male e faccia il bene; cerchi la pace e la persegua; perché gli occhi del Signore sono sui giusti e i suoi orecchi sono attenti alle loro preghiere; ma la faccia del Signore è contro quelli che fanno il male». (Salmo 34,12-16) 
Chi vi farà del male, se siete zelanti nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi!
Non vi sgomenti la paura che incutono e non vi agitate;
ma glorificate il Cristo come Signore nei vostri cuori.
Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni.


La prima lettera di Pietro – che quasi certamente non è stata scritta dal Pietro dei Vangeli, perché risale alla fine del primo secolo – è scritta a cristiani che vivono in mezzo ai pagani e che vivono in situazione di difficoltà, e a volte di vera e propria persecuzione.
E si preoccupa quindi di cercare di dare loro dei consigli e di dire loro come dovrebbero comportarsi. La prima parte del brano che abbiamo letto è un insieme di indicazioni pratiche, di istruzioni per vivere da cristiani in mezzo ai pagani.
L’indicazione generale è: non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite. Ci potremmo chiedere se la ragione di questo comportamento sia paura, oppure opportunismo, oppure altro.
Quando si rischia la vita si è in genere molto prudenti, si cerca di non mettersi in situazioni pericolose; quando questa lettera viene scritta probabilmente non siamo ancora alle grandi persecuzioni della fine del primo secolo, ma il clima è già abbastanza caldo.
Può anche darsi che l’autore di questa lettera voglia davvero che i cristiani a cui sta scrivendo non abbiano dei guai, è più che legittimo.
Ma la sua preoccupazione va ben oltre la volontà di evitare loro dei pericoli. La sua preoccupazione è che cosa essi testimoniano.
Dobbiamo pensare a un cristianesimo di minoranza, non ancora molto conosciuto, che ai pagani che vivevano intorno ai cristiani degli ultimi decenni del primo secolo, poteva sembrare una religione strana, che veniva da lontano, dalla Palestina, una novità.
Che cosa testimoniano i cristiani di queste chiese ai pagani che vivono intorno a loro? E come lo fanno?
Questo brano della prima lettera di Pietro ci dice che si testimonia in due modi: con il comportamento e con le parole; con ciò che si fa e con ciò che ci dice.
La prima indicazione riguarda ciò che si fa, riguarda l’azione: anche se vivono difficoltà, o addirittura persecuzione, i cristiani sono chiamati a non rendere male per male, a non rendere oltraggio per oltraggio. Potremmo dire che l’autore invita a un comportamento nonviolento.
Che cosa è, davanti a chi è violento, che testimonia meglio di ogni altra cosa il tuo essere cristiano, il tuo essere discepolo di Gesù? Il tuo comportarti come Gesù, il tuo non rendere male per male, dunque il tuo non essere violento.
Ma non solo l’essere nonviolento. Le istruzioni dell’autore della prima lettera di Pietro si spingono ben oltre: “ma al contrario, benedite”, dice. Benedite, ovviamente non perché vi perseguitano, ma nonostante vi perseguitino. Così mostrerete a chi vi perseguita che siete discepoli di un Signore che ha rifiutato la violenza.
Al contrario”: la nostra testimonianza consiste nel “contrario” di ciò che fanno i violenti e gli oppressori. È una contro-testimonianza; una testimonianza contro la violenza e contro l’oppressione, non solo quelle che subiamo eventualmente noi, ma contro quelle che subiscono gli altri.
Una contro testimonianza nei confronti della violenza, ma una bella testimonianza, molto positiva e propositiva di che cos’è l'evangelo.
Benedire anziché maledire, anzi addirittura benedire chi ti maledice. Perché l’unica arma che può sconfiggere chi ce l’ha con noi, è non avercela con loro; per sconfiggere chi maledice, è necessario benedire. Solo così si disinnesca la spirale della vendetta e dell’odio. È un’attualizzazione della parola di Gesù: «amate i vostri nemici».
E questo modo di agire non è una tattica o una strategia, ma la vocazione dei cristiani: “... al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione”.
Se ci chiediamo quale sia la nostra vocazione, questo brano della prima lettera di Pietro risponde: la tua vocazione di cristiano, di cristiana è quella di benedire, di portare e annunciare la benedizione di Dio a chi ti circonda, persino a chi ti fa del male. Non è una bella vocazione? E soprattutto, non è una bella sfida?
Anche se la nostra situazione è molto diversa da quella dei primi lettori di questa lettera, anche se non siamo più perseguitati, come lo erano loro, la vocazione rimane valida e rimane la stessa: benedire e non maledire, cioè portare nel mondo il bene che Dio dice e fa anziché il male che noi umani spesso diciamo e facciamo. Non rendere male per male, oltraggio per oltraggio, ma benedire.
Non mi sembra una vocazione banale e non mi sembra nemmeno una vocazione a essere semplicemente buonisti. Non si tratta di far buon viso a cattivo gioco, ma si tratta di portare il bene laddove c’è il male.
Noi viviamo in un mondo molto conflittuale, a livello sociale, politico, a livello familiare e a volte anche ecclesiastico. c’è dunque veramente bisogno di mettere in atto questa vocazione alla nonviolenza e al rispondere al male con il bene.
Se fossimo capaci di far calare il tasso di conflittualità che regna intorno a noi, se fossimo cioè – per usare una parola biblica dei portatori di riconciliazione – sarebbe già una gran cosa e una bella testimonianza dell’evangelo.


Questo è, secondo questo brano, il primo modo di testimoniare l’evangelo con i fatti, con le azioni quotidiane: essere portatori di benedizione e di riconciliazione.
Ma c’è una seconda indicazione molto preziosa che questo testo ci dà.
Poco più avanti il brano dice: Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni.
L’azione è accompagnata dalla parola, cioè l’azione è accompagnata dalla spiegazione: spiegare, raccontare perché agisco in un certo modo è l’altra parte della testimonianza. La parola deve accompagnare l’azione, altrimenti la testimonianza è monca, manca di qualcosa di fondamentale, manca del nome di Gesù Cristo, che siamo chiamati a seguire ma di cui siamo chiamati anche a parlare.
E quale è qui la parola che spiega la motivazione del mio agire, del mio cercare di essere portatore di riconciliazione? Potrebbero essercene tante di ragioni, l’evangelo ce ne suggerisce più di una, potrebbe essere l’imitazione di ciò che ha fatto Gesù, potrebbe essere l’obbedienza alla Parola di Dio, potrebbe essere l’amore, che sicuramente c’entra con il nostro agire.
In questo brano però si usa un’altra parola, esso dice che dobbiamo essere pronti a rendere conto della speranza che è in noi. L’autore di questa lettera poteva anche usare la parola fede o fiducia, ma preferisce la parola speranza.
Testimoniare la propria fede significa testimoniare la propria speranza, la «speranza che è in voi». Ciò significa che per chi ha scritto questa lettera, essere cristiani significa avere speranza: chi è cristiano spera. Mi sembra una bellissima definizione di chi sia una cristiano: uno che spera.
E se la speranza è in me essa esce fuori, esce nelle mie azioni e nelle mie parole, diventa testimonianza, speranza annunciata e speranza agita.
E a chi siamo debitori per primi della testimonianza della nostra speranza? La dobbiamo a tutti questa testimonianza, ma per primi la dobbiamo a chi è senza speranza, a chi l’ha persa, a chi non la trova.
Siamo dunque innanzitutto grati al Signore per la speranza che Egli ci ha donato. E chiediamo il suo aiuto per cercare di imparare a rendere conto delle speranza che è in noi, nelle nostre parole e nelle nostre azioni.

domenica 10 giugno 2018

Predicazione di domenica 10 giugno 2018 sul tema "Il regno di Dio" - Culto con Scuola Domenicale a cura di Marco Gisola

La Bibbia parla molto del Regno di Dio. Ogni testo che parla del Regno dice cose un po’ diverse, perché il regno ha tanti aspetti e un singolo brano biblico non può raccontarli tutti.
Quindi, per prepararci al culto di oggi, ne abbiamo letti diversi, per la precisione sei: sei testi che parlano del Regno di Dio e per ciascuno di essi, abbiamo cercato una parola o un'espressione che potesse riassumere quello che quel brano dice del regno.
È importante infatti che ciò che leggiamo nella Bibbia ci faccia riflettere, ci faccia pensare. Questo è il modo in cui la Bibbia – nella quale incontriamo la Parola di Dio – agisce dentro di noi, facendoci riflettere su ciò che ascoltiamo e così cambiandoci e cambiando la nostra vita.
Quindi oggi vi proponiamo sei parole, o sei espressioni, che ci aiutino a riflettere nei prossimi giorni.


Marco 1,14-15
Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio e dicendo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo».


La prima parola che incontriamo, proprio all’inizio della predicazione di Gesù, è CAMBIAMENTO. Gesù dice “ravvedetevi”, però noi abbiamo detto che nel testo originale c’è una parola greca che significa “cambiare mente”.
La parola “ravvedetevi” oggi noi la intendiamo in senso morale: “sei stato cattivo, devi diventare bravo”. Ovvio che diventare bravi non è mai sbagliato, ma la parola che dice Gesù vuole dire molto di più: vuol dire: cambia vita, cambia modo di pensare, cambia orizzonte.
Questa è la prima parola che Gesù pronuncia pubblicamente. Gesù annuncia un tempo nuovo: “il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino”. È vicino perché è arrivato Gesù, Gesù è vicino e se Gesù è vicino cambia tutto, cambia la vita, cambiano le regole della vita, cambia il modo di vedere Dio e di vedere il prossimo.
Credete al vangelo”: ecco il primo cambiamento: credete al vangelo – dice Gesù – credete cioè alla buona notizia che Dio vi ama e credete che io (Gesù) sono venuto per dirvelo e per dimostrarvelo.
Dio vi ama, Dio vi perdona, Dio guarisce e libera, Gesù è venuto a fare e a dire tutto questo. c’è solo bisogno di crederci, cioè di fidarsi e di affidarsi.
Il primo cambiamento è fidarsi, credere al vangelo. Il secondo è che se Dio ama me, ama anche te e vuole che io – che sono amato da Dio – amo te – che sei amato da Dio come me.
Il secondo grande cambiamento è che l’altro è il mio prossimo e non il mio avversario. Dio mi chiede di guardare l’altra persona non con gli occhi dell'invidia, della gelosia, del rancore, ma con gli occhi del fratello o della sorella.
Cambiamento o cambiate mente. Ecco la prima parola che ci insegna che cosa è il Regno di Dio. Quando il regno è vicino – quando Gesù è vicino – nulla è più come prima, Dio è amore e l’altro è il mio prossimo.


Matteo 5,1-12
Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo:
Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati.
Beati i mansueti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
B
eati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli.
Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi.


Le beatitudini ci parlano del Regno di Dio e ci dicono per chi è il Regno di Dio. Del regno si parla due volte, ma abbiamo detto che tutte le affermazioni che seguono ogni beatitudine in realtà ci parlano del Regno di Dio: quando Gesù dice «Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati» intende dire: saranno consolati da Dio, nel suo regno.
E quindi una parola che ci hanno suggerito le beatitudini è “CONTRARIO”, perché per chi soffre, per chi piange, per chi sta male, per chi è povero il Regno di Dio è il contrario della situazione che sta vivendo.
Gesù non vuole che le persone piangano, soffrano, ecc. quindi proprio a loro promette di rovesciare la loro situazione.
Chi è afflitto, sarà consolato. Ma poiché chi è afflitto sarà consolato e sa che sarà consolato, perché è Gesù che lo dice, è già beato ora, perché riceve questa promessa. Beato non vuol dire che va tutto bene, ma vuol dire che le cose smetteranno di andare male.
E poi però ci sono altre beatitudini che non parlano del contrario, per esempio: «Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta».
Qui non è il contrario, qui Gesù parla di chi vive in COERENZA con il Regno di Dio, potremmo dire che vive come Dio vuole: poiché il Regno di Dio è il regno della misericordia, del perdono, chi sa perdonare e essere misericordioso vive già ora il regno.
Così è per chi si adopera per la pace, per chi è mansueto… chi si comporta così – e noi ogni volta che riusciamo a vivere così - vive già frammenti del regno e quindi è beato.


Matteo 6,31-33
Non siate dunque in ansia, dicendo: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più.


Alla fine del suo discorso sulle preoccupazioni, Gesù pronuncia questa frase: «Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più». Questa frase, detta così, tra molte altre cose ci sorprende quasi. Gesù ci dice che cosa cercare: il Regno e la giustizia di Dio.
La parola “regno” già dice tantissimo, eppure Gesù sente il bisogno di aggiungere un’altra parola, un’altra cosa che dobbiamo cercare nella nostra vita di tutti i giorni: la giustizia, la giustizia di Dio.
La parola che più si avvicina al senso profondo del regno è giustizia.
Se nel mondo vi fosse giustizia – cioè se tutti fossero liberi, se tutti potessero vivere in pace, se tutti avessero gli stessi diritti e nessuno fosse oppresso o discriminato - allora il mondo sarebbe molto diverso e sarebbe quasi come lo vuole Dio.
Ma la giustizia di Dio è ancora di più della migliore giustizia che possiamo immaginarci. La giustizia di Dio è quel “di più” di amore e di perdono di cui ci parlano le beatitudini.
Cercare la giustizia è già molto, cercare la misericordia, la mansuetudine, la pace, ecc è cercare quel di più che è la giustizia di Dio che Gesù ci ha insegnato.


Matteo 13,24-30
Egli propose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che aveva seminato buon seme nel suo campo. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico e seminò le zizzanie in mezzo al grano e se ne andò. Quando l'erba germogliò ed ebbe fatto frutto, allora apparvero anche le zizzanie. E i servi del padrone di casa vennero a dirgli: "Signore, non avevi seminato buon seme nel tuo campo? Come mai, dunque, c'è della zizzania?" Egli disse loro: "Un nemico ha fatto questo". I servi gli dissero: "Vuoi che andiamo a coglierla?" Ma egli rispose: "No, affinché, cogliendo le zizzanie, non sradichiate insieme con esse il grano. Lasciate che tutti e due crescano insieme fino alla mietitura; e, al tempo della mietitura, dirò ai mietitori: 'Cogliete prima le zizzanie, e legatele in fasci per bruciarle; ma il grano, raccoglietelo nel mio granaio'"».


Gesù per parlare del Regno di Dio ha raccontato tante parabole. Noi ne leggiamo tre, molto brevi. La parabola delle zizzanie è conosciuta e ci dice una cosa semplice.
Il Regno di Dio nella nostra vita, non è separato da tutto il resto della nostra vita, ma anzi è mescolato con tutto il resto, proprio come in quel campo le erbe buone sono mescolate con le erbacce: per questo abbiamo scelto la parola “MIX”, per dire che il Regno di Dio è mescolato al resto.
Il bene è mescolato al male – anche dentro di noi; il perdono che ogni tanto riusciamo a dare è mescolato all’incapacità di perdonare che spesso invece prevale; la generosità è mescolata all’avarizia, e così via.
Il mondo non è in bianco e nero, buoni di qui e cattivi di là, il mondo è fatto di mescolanze di tanti colori, belli e brutti.
E la parabola di Gesù ci chiede di non voler separare ciò che è mescolato, perché ci penserà Dio a separare. Perché se volessimo fare noi i giudici, sicuramente strapperemmo anche l’erba buona insieme a quella cattiva.
Dobbiamo per il momento accettare che il Regno di Dio sia mescolato a tutto il resto, sia ostacolato da ciò che gli è contrario, sia a volte anche un po’ soffocato dalle erbacce della malvagità umana.
Quel che conta è che il Regno di Dio – cioè Dio - c’è ed è all’opera. Ed è quello che ci racconta la prossima parabola


Matteo 13,31-32
Egli propose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi; ma, quand'è cresciuto, è maggiore degli ortaggi e diventa un albero; tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami».

Leggendo questa parabola, ci è subito venuta in mente la parola “piccolo”. È piccolo il seme di senape che l’uomo della parabola mette nel terreno.
Ma poi diventa grande, e allora abbiamo scelto l’espressione: “DA PICCOLO A GRANDE”. Che cosa ci dice questa parabola? Ci dice che il Regno di Dio non si nota, non si vede, è come un piccolo seme, che poi viene messo nella terra e quindi scompare.
Ma poi, ciò a cui quel piccolo seme dà vita è un grande albero, una cosa molto più grande del piccolo semino di partenza. Un piccolo seme produce un frutto così grande.
E la parabola non ci dice soltanto che quell’albero è grande, e magari è anche bello. Ci dice che quell’albero è utile, perché gli uccelli possono andare a ripararsi tra i suoi rami.
Così, l’azione di Dio è invisibile, non si vede, come il seme nesso sotto terra. Ma gli effetti di questa azione sono grandi e sono utili, danno riparo e forza e speranza a tante persone.
Anche Gesù era solo un piccolo uomo, che è stato maltrattato ed è finito anche male.
Ma quante persone hanno avuto e hanno fiducia in lui e quante vite sono state trasformate dall'incontro con lui?
Ancora oggi, Dio agisce attraverso la sua Parola, attraverso queste storie che noi rileggiamo e ascoltiamo. Sono solo storie antiche, ma noi crediamo che queste storie, come un seme seminato dentro di noi, possano cambiare la nostra vita.


Matteo 13,33
Disse loro un'altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prende e nasconde in tre misure di farina, finché la pasta sia tutta lievitata».

L’ultima parabola ci dice una cosa simile alla precedente, ma con una sfumatura diversa: qui Gesù mette l’accento sul fatto che il lievito è NASCOSTO.
Il Regno di Dio è come il lievito che fa lievitare la pasta. Quando è mescolato con la pasta il lievito non si vede più, però c’è, e agisce, e la pasta quando è lievitata non è più uguale a com’era prima.
Così è – lo dicevamo prima – l’azione di Dio, della sua Parola, dell’evangelo: è nascosta, non si vede mentre agisce, si vedono gli effetti, i frutti come l’albero della senape, come la pasta lievitata.
Quando dunque a volte ci viene da chiederci: “ma Dio dov’è? Che cosa fa?”, possiamo ripensare a questa parabola: Dio è nascosto, la sua azione non si vede ma c’è e – grazie a Dio! - qualche volta se ne vedono gli effetti:
quando le cose cambiano e quando noi cambiamo; quando c’è giustizia; quando c’è misericordia; quando qualcuno lavora per la pace, quando gli afflitti vengono consolati e gli affamati vengono saziati…
E agisce mescolandosi alla nostra umanità, servendosi della nostra umanità, facendosi strada attraverso e nonostante le nostre colpe e la nostra piccolezza.
Il Regno di Dio è Dio che regna già oggi su di noi attraverso la sua parola che trasforma la nostra vita e il nostro mondo.
Per questo noi lo ringraziamo e gli chiediamo: “venga il tuo regno”, come ci ha insegnato Gesù: venga il tuo regno nelle nostre vite e venga per tutta l’umanità.


martedì 5 giugno 2018

Predicazione di domenica 3 giugno 2018 su 1 Corinzi 14,1-3.20-25 a cura di Massimiliano Zegna

1 Corinzi 14,1-3.20-25

Desiderate ardentemente l’amore, non tralasciando però di ricercare i doni spirituali, principalmente il dono di profezia.
Perchè chi parla in altra lingua non parla agli uomini ma a Dio; poiché nessuno lo capisce, ma in spirito dice cose misteriose. Chi profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di consolazione.
Fratelli, non siate bambini quanto al ragionare; siate pur bambini quanto a malizia, ma quanto al ragionare, siate uomini compiuti.
E’ scritto nella legge: “Parlerò a questo popolo per mezzo di persone che parlano altre lingue e per mezzo di labbra straniere; e neppure così mi ascolteranno” dice il Signore.
Quindi le lingue servono di segno non per i credenti, ma per i non credenti; la profezia, invece, serve di segno non per i non credenti ma per i credenti.
Quando dunque tutta la chiesa si riunisce, se tutti parlano in altre lingue ed entrano degli estranei o dei non credenti, non diranno che siete pazzi?
Ma se tutti profetizzano ed entra qualche non credente o qualche estraneo, egli è convinto da tutti, è scrutato da tutti, i segreti del suo cuore sono svelati; e così gettandosi giù con la faccia a terra, adorerà Dio, proclamando che Dio è veramente fra voi”.



I capitoli 13 e 14 della prima lettera di Paolo ai Corinzi contengono delle affermazioni per me molto suggestive che mi hanno sempre colpito perché hanno accresciuto sia la mia fede in Dio sia il mio amore nei confronti di Gesù Cristo e nel suo Evangelo.
La prima frase del capitolo 13 di Prima Corinzi mi era stata suggerita anni fa grazie alla lettura in occasione dell’anniversario, nel tempio di Piedicavallo, del mio matrimonio con Anna.

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla.”

Poi vi sono le prima frasi del capitolo 14 oggetto delle mia predicazione di oggi che sono altrettanto suggestive: “Desiderate ardentemente l’amore, non tralasciando però di ricercare i doni spirituali, principalmente il dono di profezia. Perché chi parla in altra lingua non parla agli uomini, ma a Dio; poiché nessuno lo capisce, ma in spirito dice cose misteriose. Chi profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di consolazione.

Dedicato all’amore è stato il discorso del pastore Michael Curry della chiesa episcopale americana in occasione dello storico matrimonio in Gran Bretagna fra il principe Harry e la sua sposa americana Meghan. Il pastore ha subito citato Martin Luther King nella sua predicazione Dobbiamo scoprire il potere dell’amore, il potere redentore dell’amore”.
Quello che più mi ha colpito di questo matrimonio non sono stati i cappellini variopinti degli invitati ma lo stupore degli organi di informazione nei confronti delle parole del pastore.
Forse ci si aspettava una predicazione più tradizionalista, più legata all’evento di matrimonio regale ma le parole semplici che derivano dall’Evangelo di Gesù Cristo sono ancora quelle che destano stupore in chi, forse, non ha conosciuto fino in fondo il messaggio d’amore che dovrebbe essere tipico di una chiesa protestante e comunque di una chiesa cristiana in generale.

Nel messaggio di Paolo ai Corinzi vi è un richiamo forte all’amore ma anche ai doni spirituali: in primo piano vi è la capacità di profetizzare.
Che cosa significa profetizzare? Chi è un profeta? Certo vi sono i profeti che si leggono nella Bibbia: Geremia od Isaia od altri, però la loro caratteristica non è tanto il prevedere il futuro ma testimoniare la presenza di Dio ieri oggi e domani. E questo lo si può fare in tempi e modi diversi e noi stessi lo possiamo fare anche nella nostra comunità con un linguaggio di esortazione, di edificazione, di consolazione.

Paolo dice che la profetizzazione è più importante del parlare in lingue. Che cosa significa questa frase che tira in ballo quella che si chiama con parola complicata di origine greca, la glossolalia (praticata nella chiesa di Corinto e ripresa anche nelle chiese pentecostali) che significa la capacità di parlare in altre lingue sotto l’influsso dello spirito.
C’è una bella risposta del teologo pastore Paolo Ricca che ho trovato recentemente in un sito della chiesa valdese.
Ecco una parte significativa del commento di Ricca:


Più interessante però della domanda se il «parlare in lingue» sia «segno divino» oppure «solo autosuggestione», mi sembra essere quest’altra domanda: Al di là della natura del fenomeno, quale può essere il suo significato? A me pare che un significato possa essere cercato principalmente in due direzioni. La prima è che questa «lingua degli angeli» (I Corinzi 13, 1), cioè non umana, parlata però occasionalmente da creature umane, segnala in maniera inequivocabile l’alterità di Dio e delle cose divine, che però si manifesta in mezzo alla comunità umana: Dio è in mezzo agli uomini, quindi presente e vicino a loro, ma come radicalmente altro; non è un pezzo di questo mondo. Come sono diversi i suoi pensieri e «più alti» dei nostri (Isaia 55, 9), così è diversa, se così si può dire, la sua lingua, quando, attraverso lo Spirito, parla direttamente, e non attraverso la mediazione di linguaggi umani.
E che cosa vuol dire che Dio è «altro» rispetto a noi? Vuol dire che non è un prodotto umano, creato dall’immaginazione, dal desiderio oppure dalle paure o dalle frustrazioni dell’uomo. Ma la sua divina alterità non significa estraneità, lontananza, e neppure incomunicabilità: Dio è Parola, che posso anche non capire, ma che può essere «interpretata», cioè tradotta nella mia lingua. Dio vuole, sì, manifestare la sua alterità, ma, come Altro, vuole comunicare con noi. Ecco perché Pietro, dopo aver parlato «in lingue», fa un discorso che tutti possono capire. Ma c’è un secondo significato possibile. Chi sono stati i primi cristiani a «parlare in lingue»? Sono stati gli apostoli, asserragliati nella «camera alta», paralizzati dalla paura, che mai avrebbero osato rivolgersi alla folla con un discorso coraggioso (e pericoloso) come quello di Pietro: lo Spirito li ha liberati dalla paura e ha sciolto la loro lingua. E chi erano i membri della chiesa di Corinto che occasionalmente parlavano «in lingue»? Erano per lo più schiavi o ex-schiavi, gente di umilissima condizione, probabilmente analfabeti, che mai e poi mai avrebbero osato parlare in pubblico e forse non sarebbero stati in grado di costruire un discorso razionale: ma ecco che lo Spirito dà loro la parola, come dice il profeta: «La lingua del muto canterà…» (Isaia 35, 6). In questo senso la glossolalia è davvero «segno divino», non per il suo aspetto miracoloso, ma perché fa parlare i «muti», cioè quelli che non osano parlare. Il miracolo è questo”

E’ molto bella questa interpretazione di Ricca di far parlare i “muti” tra virgolette ossia quelli che in genere non osano parlare. Un’altra mia interpretazione mi è stata suggerita da chi ha dimestichezza con i mezzi moderni quali il computer o internet. Ho scoperto che un giovane ha inventato, per comunicare con la propria ragazza giapponese, una app ossia un’applicazione di internet secondo cui è possibile che parlare in lingue diverse attraverso il proprio telefonino. Questo significa che fra due persone in modo simultaneo una conversazione telefonica possa essere tradotta ad esempio dal francese in italiano per essere subito compresa con l’utilizzo dei rispettivi cellulari.
Ecco quindi che le parole di Paolo possano essere meglio comprese nel mondo di oggi per dare della glossolalia ossia della capacità di parlare con lingue diverse non una interpretazione miracolosa o simbolica come ha spiegato Ricca ma una capacità che adesso si può realizzare con tecniche moderne sconosciute in passato.
Per svolgere questa predicazione mi sono avvalso anche del sermone di Luciano Zappella della chiesa valdese di Bergamo che ho trovato molto interessante. Ecco alcuni brani:


Di fronte alla scelta tra glossolalia e profezia, Paolo non ha dubbi: sceglie la profezia. Lo fa non per contrarietà nei confronti della glossolalia, ma sulla base di un criterio molto chiaro: solo ciò che edifica deve essere messo al centro di tutto. La crescita spirituale di una comunità non la si ottiene con effetti speciali o con formule più o meno misteriose, ma usando parole comprensibili, capaci di coinvolgere sia il cuore sia la mente. Paolo è pienamente convinto che una sola frase detta con parole chiare vale molto di più di mille parole pronunciate in una lingua incomprensibile. Questo per il semplice fatto che l’evangelo è un messaggio che può e deve essere trasmesso con parole umane, con parole che si rivolgono sia alla ragione sia al sentimento. Non c’è bisogno di esperienze spettacolari o soprannaturali per ricevere o per comunicare l’evangelo!”

L’amore rende impossibile la gelosia, l’odio, il disprezzo. Al tempo stesso, l’amore rende possibile una autentica vita comunitaria, indipendentemente dalla forma organizzativa di una comunità e dalle forme liturgiche del culto. Ma soprattutto, l’amore rende possibile l’edificazione della comunità.

Noi siamo figli di quella Riforma che, spezzando la separazione tra il clero e i laici, ha sottolineato, Bibbia alla mano, come tutti i credenti, dal primo all’ultimo, siano chiamati a predicare l’evangelo di Cristo, a dire la nostra fede, grande o piccola che sia. Solo così potremo essere una comunità profetica”