venerdì 3 giugno 2016

Predicazione di Domenica 29 maggio 2016 su Atti 4,42-47 a cura di Daniel Attinger

VITA DELLA PRIMA CHIESA
Atti 4,42-47

Sorelle e fratelli carissimi,
Eccomi nuovamente in mezzo a voi per celebrare questo giorno di domenica, giorno del Signore. Quindici giorni fa, si celebrava la festa della Pentecoste che ricorda il dono dello Spirito santo, che è la forza che anima la Chiesa. Ho quindi scelto per questa domenica di riflettere su ciò che caratteriz­zava la vita della prima Chiesa, come la descrive Luca negli Atti degli apostoli.
S’impone però una prima osservazione: ho parlato della “prima Chiesa”, mentre in realtà, all’indomani della Penteco­ste, Luca non parla ancora di Chiesa; parla di “fratelli” o di quelli che “hanno accolto la Parola”. La parola “Chiesa” ap­pare stranamente nel libro degli Atti solo al capitolo 5, alla fi­ne del tragico episodio di Anania e Saffira, come se si potesse parlare di Chiesa solo dopo che essa ha fatto l’esperienza del peccato (At 5,11). Qualcosa di simile era capitato anche a Israele. Al momento dell’uscita dal paese di Egit­to, gli israe­liti, ricorda­te, iniziano una lunga traversata del deser­to, ma quasi subito iniziano le mormorazioni e le ribellioni contro Mosè… e con­tro Dio: chi ci darà dell’acqua, della carne… in Egitto erava­mo schiavi, ma almeno si mangiava, invece, tu, Mosè, ci hai condotti qui per farci morire. Appena dopo que­sta descri­zio­ne delle tentazioni nel deserto e dopo la punizio­ne per mano di Ama­leq, il testo dell’Esodo dice:
I figli d’Israele arrivarono nel deserto del Sinai e si accam­parono nel deserto. E continua: Israele si accampò qui (Es 19,2).
Questo passaggio dal plurale (i figli d’Israele) al singo­lare (Israele) è com­mentato dai rabbini come il risultato delle prove su­bite nel deserto: solo dopo di esse le folle uscite dal­l’Egitto sono diventate “il popolo d’Israele”: un popolo se­gnato dalla prova, ma che ormai ha conquistato una unani­mità. Allo stesso modo potremmo dire che dopo la Penteco­ste i cristiani non sono ancora la Chiesa, ma una folla di per­sone un po’ disparate. Appena prima del nostro testo, Luca scrive:
Quelli che accolsero la parola (di Pietro) furono battezzati e quel giorno circa tremila per­sone si aggiunsero a loro (At 2,41).
Queste persone sono tuttavia una realtà importante. Pensate: 3000 persone dopo una sola predicazione! È ciò che permette a Luca di tracciare un primo ritratto di quei cristia­ni e questo ritratto ci deve servire di specchio nel quale sia­mo chia­mati a guardarci anche per verificare ciò che noi siamo realmente. Ecco allora il nostro testo: ciò che caratte­rizza quest’assemblea è una quadruplice perseveranza:
Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nella frazione del pane e nelle preghiere.
Notiamo anzitutto che la prima caratteristica è la perse­veran­za. All’inizio del nostro cammino nella vita cristiana, forse non abbiamo dato troppo peso a questa parola, c’inte­ressava di più il contenuto della nostra fede, la sua espressio­ne retta e buona. Ri­cordo, ad esempio, e ciò mi sembra signi­ficativo, di tre sorelle di questa chiesa di Biella i cui nomi esprimevano bene l’intenzione dei loro genitori. La prima si chiamava Nella, la seconda Vera e la terza Luce. Era questo che contava – ed era giusto! –: vivere alla luce di Colui che è la vera luce. Oggi però siamo andati – un po’ tutti – avanti negli anni, e ora misuriamo meglio l’importanza di questa prima caratteristica. Essere cristiani implica anzitutto di im­parare a durare, un po’ come fece Gesù poco dopo la sua tra­sfi­gurazione. Luca scrive che Gesù “rese duro il suo volto per anda­re a Gerusalemme” (Lc 9,51), espressione che si ren­de solitamente così: “Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Geru­salemme”. Notiamo però che è il volto di Gesù che si rende duro, non il suo cuore! Se la perse­veranza contiene per noi l’idea di resistenza, e quindi di combatti­mento per durare, non è l’idea che prevale nel verbo greco, il quale contiene invece l’idea di “essere disponibili” o di “met­tersi alla disposizione di qualcuno”. La perseveranza è un lavoro su se stessi per rendersi disponibili agli altri, ma an­che agli eventi e a ciò che ci capita.
Viene poi precisato il contenuto di questa perseveranza: sono quattro attività che certamente evocano la convinzione di Israele per il quale “il mondo poggia su tre colonne: la to­rà, cioè la Scrittura, la ‘avodà, cioè il culto, e le opere di mise­ricor­dia”. Ma mentre Luca riprende la convinzione ebraica, ne modifica sensibilmente il contenuto.
Anzitutto la torà diventa, sotto la penna di Luca, l’inse­gna­mento degli apostoli. La modifica non sta tanto nel fatto che Luca sostituisce allo studio di un testo, quello di una parola viva. Per Israele infatti la torà non è solo la Scrittura, ma la rivelazione che Dio ha dato di sé sul Sinai, la quale si trova nelle Scritture certo, ma lette e reinterpretate alla luce della fede. Nei due casi l’accento cade sulla parola viva (degli apo­stoli per i cristiani, dei rabbini per gli ebrei) che spiega la parola scritta. Per i cristiani però, e là si trova la loro partico­larità, questa parola vivente è il Cristo così come lo racconta­no quelli che hanno vissuto con lui e l’hanno seguito sulle strade della terra d’Israele.

Viene poi, per Luca, la comunione, che corrisponde alle opere di misericordia della tradizione ebraica. Luca quindi rovescia le priorità: la comunione precede il culto, conforme­mente alla parola detta dal Signore:
Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qual­cosa contro di te, lascia là la tua offerta davanti all’al­tare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta (Mt 5,23-24).
Il seguito del testo mostra bene quanto questa comunio­ne non è solo spiritu­ale: si tratta in primo luogo di una messa in co­mune di ciò che i cristiani hanno, di un mettere alla di­sposizione di tutti ciò che ciascuno ha. È precisamente a que­sto proposito che si verificherà il peccato di Anania e Saffira. La posta in gioco nella comunione è fondamentalmente l’i­dentità cristiana: “se siamo stati totalmente uniti al Cristo” (per riprendere l’espressione di Paolo, Rm 6,5), formiamo un solo corpo nel quale ogni singolo membro dipende di tutte le altre. La comunione è co­me la vita che anima e costruisce il corpo.
Infine Luca parla di preghiere e di frazione del pane, lad­dove la tradizione ebraica parla di ‘avodà, di culto. Forse con ciò Luca in­tende precisare da una parte che i cristiani conti­nuano a parteci­pare alla preghiera del tempio, insieme con gli ebrei; il Cristo non ha chiesto a loro di abbandonare la religione dei loro padri. È pro­prio ciò che sottolinea chiara­mente il testo che abbiamo letto: “ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio”. Ma Luca vuole anche sottoli­neare che i cri­stiani hanno in più una preghiera particolare, specifica: la “frazione del pane” – ciò che chiamiamo la santa cena – grazie alla quale essi esprimono che la loro comunio­ne non è una semplice associazione o un raggruppamento per sostenersi a vicenda ed essere più forti, ma la partecipa­zione alla vita stessa di colui che, nel suo amore, ha dato la sua vita per loro, come per noi. È significativo che Luca non si preoccupi qui della preghiera individuale – che evidente­mente conosce e che per lui va da sé – ma della preghiera co­mune e quindi liturgica: la parteci­pazione alla preghiera nel tempio, e la celebrazione della santa cena. Anche se situata in terza posizione, la pratica liturgica rima­ne un’attività parti­colarmente essenziale, perché essa indica la fonte da cui i cristiani traggono la loro esistenza, la loro comunio­ne, la loro com­prensione dell’insegnamento degli apostoli e la loro for­za di perseverare nella loro fede, nonostante le difficoltà.
In questo tempo del dopo Pentecoste, chiediamo al Si­gnore di dare anche a noi quella forza di perseverare, senza stancarci, nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna – che occorre rinnovare ogni giorno – e nella frazio­ne del pane e nelle preghiere. E perché non chiederci come mai possiamo celebrare tante do­me­niche senza rinnovare quel gesto – così specifico dei cristiani – della frazione del pane? Essa era ed è tuttora per molti cristiani ciò che fa della domenica un giorno diverso dagli altri, il giorno del Signore!
In queste perseveranze troviamo e troveremo la forza di essere su questa terra dei segni viventi e gioiosi dell’amore col quale Dio ama, in Cristo, il modo intero. A Lui siano rese ogni lode e ogni gloria ora e per i secoli senza fine. Amen.